Blog - Crediti


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L'aggiornamento è stato curato puntualmente in passato da diverse collaboratrici ed attualmente, con la stessa puntualità e competenza, se ne occupano Laura M. Sparacello ed Elisa Sori.

5 luglio 2014

Omaggio a Claudio G. Fava



Ieri sera, presso una delle sale cinematografiche del Porto Antico di Genova, c'è stato l'omaggio a Claudio G. Fava. Gli organizzatori, Cristiano Palozzi e Antonella Sica, hanno voluto così ricordare un amico del Festival dedicando una serata a colui che aveva dato un contributo fondamentale alla manifestazione. Alla presenza di un pubblico partecipe sono state proiettate clip di trasmissioni televisive da lui ideate e condotte e uno spezzone tratto dal film "Ladri di saponette" di Maurzio Nichetti in cui Claudio aveva recitato, interpretando se stesso, nel ruolo di critico cinematografico.
Riporto di seguito i ricordi di alcuni fra gli amici critici pubblicati sul catalogo del Festival.
Lorenzo Doretti

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Claudio G. ha presentato, quando il direttore ero io, tutte le serate
finali di TorinoFilmFestival. Sono state le serate più belle,
più ricche, più eleganti. Ogni volta che vedo dei disgraziati presentare
premi cinematografici coprendosi di ridicolo per arroganza
o per insipienza, penso sempre a Claudio e a quanto era
bravo. Lui parlava con naturalezza e calibrava il suo umorismo
con eleganza e intelligenza. Non aveva bisogno di testi, il testo
era la sua cultura. Begli anni, e anche un bell’insegnamento, del
quale bisognerebbe che gli amici del David tenessero conto, in
futuro.
Steve Della Casa

Abbiamo da ricordare quest’anno due persone speciali, Claudio
G. Fava e Pietro Germi: uno se ne è andato da pochi mesi, l’altro
da quarant’anni ( era nato un secolo fa). Una cosa avevano
in comune, oltre alla città di nascita e al fatto di occuparsi di
cinema, che erano due uomini all’antica e sembravano rimpiangere
un’Italia più seria, legata a codici morali ottocenteschi, a
immagine dei film militari di John Ford che entrambi amavano
tanto. Non a caso Germi ha girato Il brigante di Tacca del Lupo,
quasi un remake risorgimentale del Massacro di Fort Apache,
e Fava, come noto, era un esperto di storia militare oltre che di
uniformi, e non era infrequente sentirlo fischiettare l’inno della
Legione francese per i corridoi della Rai. Ma non credo che queste
nostalgie vadano prese alla lettera. In politica erano entrambi
socialdemocratrici: insieme antifascisti e anticomunisti. In
compenso Il ferroviere è il film preferito da Bertinotti e non penso
che a Germi questo sarebbe dispiaciuto. Non sembravano
del tutto favorevoli all’unità d’Italia: Germi lo ha dimostrato con
le commedie sulla Sicilia, Fava tra l’altro con un elzeviro “Bambino
capitolino” (nella raccolta Tagliati al vivo). Fava ha studiato
al Vittorino da Feltre, Germi al Nautico, poi hanno mollato gli
ormeggi in anni diversi per approdare a Roma. Nessuno dei due
è sepolto a Genova. Ora sono entrambi in Paradiso, probabilmente
si danno ancora del lei, come usava una volta.
Oreste De Fornari


E’ difficile accettare di non sentire più la sua voce, di non essere
più divertito dalla sua ironia, di lasciarsi incantare ancora dalla
sua intelligenza, di essere fortunato per il privilegio della sua
sincera amicizia. Claudio G. era un maestro, un curioso irredento
della vita alimentata dal cinema e dai libri. Cultura e gentilezza,
ma soprattutto l’unicità di essere Claudio G. Non posso
andare avanti per non scadere nella retorica o nella banalità di
quei ricordi in memoria che dicono poco o troppo. E Claudio G.
merita ben altro. Io non posso che ribadire il mio rimpianto per
una straordinaria persona perbene. E non mi sembra poco.
Natalino Bruzzone


Tante e tali sono le cose da lui fatte e tanta e tale è l’antica conoscenza,
nel tempo da lui promossa generosamente in amicizia
(per chi aveva una generazione in meno), che lasciano
imbarazzati a cogliere l’immagine significativa di un’esistenza
e, appunto, di un amicizia. Allora è forse giusto citare l’ultima
cosa da lui inventata e fatta crescere: la Stanza del cinema,
quel luogo d’incontro tra critici e pubblico che Claudio G. Fava
ha condotto fino alla fine, forte della lungimirante intuizione (si
era partiti nel 2001) di parlare di cinema in un’epoca in cui sui
giornali se ne scrive sempre meno, criticamente beninteso. Gli
appuntamenti mensili a Palazzo Ducale sono stati davvero la
sintesi, suprema e spiccia ad un tempo, di un’esperienza di vita
scandita sull’impiego, ancora una volta supremo e spiccio, della
parola. Alla macchina da scrivere prima e al microfono poi,
la sua parola si è trasformata in una sorta di “verbo” grazie a
quell’impareggiabile tono – tra l’ironico e l’erudito – che si impreziosiva
ulteriormente nei rapporti personali: quelli che non
si possono riferire perché se ne è un po’ gelosamente depositari
e più ancora perché sarebbe impossibile dirne con parole e
tono al suo livello.
Massimo Marchelli

Consiglierei agli organizzatori di aprire la commemorazione di
Claudio G. proiettando il suo cameo in Ladri di saponette (1989)
di Maurizio Nichetti. Questa sua autoparodia di venticinque
anni fa, esilarante e slapstick - manca solo una tarte à la crème
- è un funerale a trent’anni di cinema in tivù, l’attività che aveva
reso Fava unico, popolarissimo, amatissimo. I film del lunedì
di RaiUno di CGF furono l’orgoglio del cinema «ciclato»: prime
visioni, inediti assoluti (la RKO), vecchi divi ancora padroni del
cuore della gente (Gabin, Cooper, Mitchum...), addirittura sceneggiatori
come Age & Scarpelli...
Prima c’erano state rassegne monumentali e ciambellane, anche
14 Sordi a cura di GLR. Ma persino su Albertone nessuno
non romano seppe spargere il sorriso e l’arguzia del Nostro, che
ci fece un magnifico Gremese in cui censurò le finte confidenze
esclusive che Sordi gli aveva fatto in un orecchio: «Ma se Wojtyla
dice “Viva la Matonna”, non è una bestemmia?».
Dopo Fava i cicli saran solo ri-cicli impaginati dal computer
aziendale. Godimenti di ultimi e penultimi passaggi in scadenze
sempre più rapide. L’eleganza sua non stava solo nella raffinatezza
del lessico, nell’eleganza del papillon, nella postura
simenoniana - garbo o look - ma cominciava nella dizione e nella
pronuncia. Dato che l’imitazione di Gianni Agnelli o di Diego
Maradona, i suoi cavalli di battaglia, era fuori luogo sulla rete
ammiraglia. La Rai avrebbe dovuto far tenere a Claudio dei corsi
di scansione, come fece il partito comunista all’epoca delle prime
Tribune Elettorali. Non ci sarà più nessuno come lui a farci
udire la H di John Frankenheimer.
Fava dovette a tal punto sentirsi di essere/essere stato la Rai,
che non se la sentì di andare a lavorare per Berlusconi, il quale
gli fece un’offerta molto pingue in un incontro ad Arcore che
Claudio ha raccontato a pochissimi. Era stato lui a fronteggiare
la contro-programmazione delle tivù private negli anni ’80. Lui,
sulla tolda (o a cassetta della diligenza, o in galleria) della prima
rete della tivù di Stato che cominciava allora ad andare in
pezzi: la RaiDue di Pio De Berti Gambini, un uomo insicuro che
lo costringeva a programmare sprogrammare riprogrammare,
fino alla chiusura del Radiocorriere.
CGF sentiva a tal punto il peso e la gloria del suo palinsesto che
anche dopo gli toccò di provar pietà per l’abbandono e la derelizione
di alcuni ex cani sciolti di viale Mazzini, quorum ego.
Gli dispiaceva che nessuno mi aiutasse a finire la mia storia del
cinema italiano raccontata da Andreotti. Dal suo blog lanciava
degli appelli. Al telefono mi tirava sempre le orecchie: «Tatti,
dovevi dire “Oscar per il miglior film in lingua straniera...”».
La penultima telefonata fu a proposito del comune amico Luciano
Vincenzoni, che certo aveva rosicato all’epoca del ciclo
su Age&Scarpelli.
L’ultima telefonata, la signora Elena temporeggiò per un minuto:
«Ora glielo passo: Claudio sta finendo di farsi la barba...».
Qualche frequentatore mattutino di casa sua lo ricorda anche
con la retina dei capelli, quella con cui Peppino inscenò certi cognati.
Lo voglio ricordare così, impeccabile e fresco di rasatura,
come se davvero andasse a presentare un film di Melville anche
senza Nichetti. Melville, la Francia, l’America. Claudio aveva
amato così tanto la Francia che mi confessò che il 10 giugno
1940, quando il Duce annunziò di aver inviato la dichiarazione
di guerra all’ambasciatore di Parigi, si chiuse nella sua cameretta
di bimbo di 11 anni e pianse.
Tatti Sanguineti