Blog - Crediti


L'audio e i video © del Blog sono realizzati, curati e perfezionati da Lorenzo Doretti, che ha anche progettato l'intera collocazione.
L'aggiornamento è stato curato puntualmente in passato da diverse collaboratrici ed attualmente, con la stessa puntualità e competenza, se ne occupano Laura M. Sparacello ed Elisa Sori.

31 marzo 2014

L'OSSERVATORE GENOVESE

VISTO CON IL MONOCOLO.

Inevitabile puntata domenicale della mia rubrica sul Corriere Mercantile, pubblicata al lunedì nel mio Blog. Confesso che il piccolo brano non è venuto proprio come volevo. Forse i lettori se ne accorgeranno. 
Da un lato c'era la seduzione della memoria rappresentata dal ricordo ancora fresco (dopo 50 anni!) della presenza italiana di Kennedy, e in senso più lato della sua presenza "tout court". Mi vengono in mente tanti ricordi che ovviamente non ho potuto inserire nel pezzo. Ad esempio un sottopassaggio di Genova dove era esposta, non so a cura di quale Ente americano di propaganda, una foto del giovane Presidente con la sua fluente e luccicante chioma irlandese, ed Enzo Tortora, al mio fianco, che lo guarda e mi sussurra: "ma a lui i capelli, non gli cadono mai?"). Oppure il ricordo della dura campagna elettorale fra Kennedy e Nixon (in Europa li conoscevamo poco entrambi) che mi costrinse ad imparare un sacco di cose sull'uno e sull'altro. In effetti  il mio giornale aveva comprato una storia a fumetti delle loro vite parallele, ed io, l'unico in redazione che sapesse qualche parola d'inglese, fui costretto a rimanere rinchiuso per ore, nel grande e cupo salone fitto di scrivanie, con il resto del lavoro quotidiano già effettuato, a tradurre i testi. Il giorno delle elezioni mi sembrava di assistere ad un litigio fra amici. Oppure ancora quel che mi ha raccontato un vecchio amico del mondo della critica, Ernesto G. Laura (abbiamo una G. in comune ma la sua significa Guido e la mia Giorgio) che un giorno si trovava con un gruppo di giovani democristiani in visita alla Casa Bianca: gli era stato comunicato che Kennedy, per impegni dell'ultimo momento, non avrebbe potuto riceverli. E poi con tutti questi giovanotti che si aggiravano nel famoso giardino (quello dove Michelle adesso semina piantine per la dieta) una voce che continuava a ripetere: "I am the President, I am the President" e nessuno gli badava. Kennedy si era evidentemente liberato in tempo e stranamente non uno di quei giovani italiani si accorgeva della sua presenza.
Come si vede c'è un grande deposito di ricordi nella mia memoria e, forse, non sono riuscito ad armonizzarli tutti, distratto dalla gran voglia di rievocare la storia del "Secret Service" che in realtà è poco "secret" e molto palese.  

LA VISITA DI  KENNEDY E QUELLA DI OBAMA
Una delle cose che alla tv mi hanno colpito a proposito della rapida visita di Obama a Roma è stato un frammento di intervista ad una signora. Che in modo, come dire, nostalgico-crepuscolare, rievocava quella fatta da Kennedy nel 1963: “Era un altro mondo -diceva- in giro per la città, in macchina scoperta, con poche guardie…Era proprio un altro mondo”. Reazione stimolata dalla vista dall’immenso corteo che invece scortava Obama, decine di automobili minacciosamente chiuse, città praticamente sotto assedio di polizia con tiratori scelti che controllavano i tetti ed i tombini. A testimonianza dell’efficienza non solo nostra ma anche del famoso “Secret Service”, il cui White House Detail veglia ad occhi sbarrati sul Presidente USA (per buoni motivi, tutto sommato: nel 1963 Kennedy ucciso, 1981 Reagan ferito gravemente, tanto da dover essere operato di urgenza). Vale forse la pena di aggiungere che il corpo di polizia incaricato di vegliare sul Presidente appartiene in realtà ad una sezione di quella che in certo modo è la Guardia di Finanza americana, incaricata cioè di reprimere le frodi fiscali e quelle monetarie. E questo perché, a testimonianza del carattere federale degli Stati Uniti, quando, nel 1901, venne deciso di proteggere la vita dei Presidenti e i loro famigliari, l’unica forma di polizia- che si estendeva in un paese tuttora nelle mani di polizie locali, comunali e regionali- era appunto questo servizio “segreto”. Che dovette organizzare una sezione a parte (ormai ampiamente sviluppata), per affrontare la nuova, e totalmente diversa, disponibilità. Si vede da qui quanto il mondo è cambiato, per l’America come per noi e per tutti. Forse è per questo che io stento sempre di più a capirlo (probabilmente anche a causa dell’età. Tutti i vecchi, in certo senso, vivono non nel presente ma nel passato). C’è un problema recentissimo, destinato a influenzare profondamente la nostra storia presente e futura, e cioè la “sedicente” abolizione delle Province e la mutazione totale del Senato. Istituzioni che affondano le radici nella recente storia unitaria d’Italia. 
Vorrei tornare sull’argomento. Per cercare di capire se molti di noi ce la faranno a vivere nel futuro…





27 marzo 2014

MIA DIMENTICANZA A PROPOSITO DI SAM PECKINPAH.

Rispondendo a Rita M. (un suo contributo è pubblicato in data 24 marzo) ho totalmente dimenticato di rispondere a una sua domanda a proposito di Sam Peckinpah in generale e de “La croce di ferro” (1977) in particolare. E’ un regista (nato nel 1926 e morto nel 1984)  che mi è sempre piaciuto molto fin dai tempi di “La morte cavalca a Rio Bravo” e “Sfida nell’Alta Sierra” (entrambi del 1961). Non credo di poter dir di lui cosa particolarmente nuove: la secchezza, la fredda e fantasiosa violenza dei suoi film hanno colpito me all’epoca come tanti altri spettatori. In particolare “La croce di ferro” (tratto da un romanzo tedesco “La carne paziente” che ho letto più volte) restituisce la guerra della parte tedesca con una spietata precisione e fa capire quanto regista americanissimo sia in grado di essere sempre  lo stesso, anche uscendo (rarissimamente) dai confini degli Stati Uniti. Fra l’altro una minima annotazione curiosa. Molti anni fa assistetti a Padova ad un convegno organizzato da un fedelissimo estimatore di Peckinpah (un giovanotto romano che ho totalmente perso di vista). Era riuscito a fare venire alcuni degli attori che avevano lavorato con il regista. E parlando di lui (lo chiamavano rispettosamente “Mr. Peckinpah”) scopersi che il suo nome si pronunciava in modo particolare. In effetti la “a” finale veniva pronunciata come “o”: Mr. Peckinpoh. Non l’ho mai dimenticato.

26 marzo 2014

A DOMANDA RISPONDE


Rispondo immediatamente ai contributi dei lettori pubblicati il 19, il 22 e il 24 cm. Ringrazio Luigi Luca Borrelli per le sue notazioni varie e particolarmente per il ricordo di Jean Servais: almeno siamo in due a menzionarlo con affetto. Veniamo ai raffronti calcistici. Io sono genoano da prima della guerra ma non “accuso” nessuno di essere juventino. La contrapposizione Furino-Platini mi ha divertito molto, proprio per la clamorosa contrapposizione di classe e di stile tra i due. 

Per quel che riguarda i raffronti con il Napoli confesso che non mi ricordavo assolutamente di Bruscolotti (ho visto che ha disputato centinaia di partite, che lo chiamavano “Pal’e ferro” e che era grande amico di Maradona). Dell’olandese Krol avevo un ricordo vaghissimo e che tale è rimasto. Veniamo al contributo, sempre ricco di suggerimenti, di Giulio Fedeli. Il quale inizia facendo i riferimenti a quelli che ritengo siano capitoli di un mio introvabile libro del 1979: “Le Camere di Lafayette”. Lo pubblicai a Roma raccogliendo un certo numero di mie recensioni pubblicate su giornali e riviste (si vedano appunto i titoli- fra virgolette – indicati da Fedeli). Scrissi il libro su sollecitazione di un amico che era Capo-redattore dell’”Osservatore Romano”; il poverino morì quasi subito dopo. Mi disse che i libri erano quasi tutti raccolti in una cantina del Vaticano, nelle “caves du Vatican”, per dirla con Andrè Gide. Non ho la più lontana idea di dove siano finiti. A me è rimasto un solo esemplare, che in questo momento è fuori casa perché l’ho mandato a “scansionare”, al fine di disporre di uno dei primi brani su Jean Pierre Melville che siano apparsi, credo, su una rivista italiana. Brano che pubblicai nel 1974 e che ripresi appunto nel 1979 nelle “Camere di Lafayette”. Adesso ho proceduto all’operazione di “estrarlo” dal libro in previsione di un’antologia di molte mie vecchie recensioni. Se non servirà a questo fine quasi quasi lo ripubblico nel Blog, ad uso di quel pugno di lettori amanti di Melville. Fedeli mi chiede anche dei giudizi su diversi scrittori di noir. Confesso che nella sostanza conosco poco José Giovanni, se non di riflesso per la sua attività cinematografica e che non conoscevo “Le musher”. 

Ho visto che significa “conduttore di una slitta di cani” e ho letto il riassunto della trama del romanzo, il quale sembra curiosamente ricalcare alcuni temi fondamentali in Jack London reduce dal Klondyke. Su A.D.G., personaggio curiosissimo, non sapevo proprio niente, mi sono informato e, forse, vale la pena di approfondire la ricerca su questo personaggio collaterale. Si era inventato lo pseudonimo prima riportato, che significa in realtà Alain (il suo vero nome) Dreux, Gallou (i cognomi dei due nonni). Il tutto per non firmare Alain Fournier, che era anche il nome e il cognome del suo omonimo, famoso per aver scritto “Le Grand Meaulnes” e per essere poi morto in guerra nel 1914. Jean-Patrick Manchette è uno scrittore di cui ho sempre apprezzato la polemica ingegnosità. Infine giro a mia moglie il suggerimento di disegnare un ritratto di Melville con Stetson e occhiali scuro. In quanto alla copertina de “Le Camere di Lafayette” non so assolutamente perché ci sia un ritratto di Liv Ulmann e non so chi l’abbia disegnata. Infine i titoli “Il Giornalista” e “Il Giornalista sportivo” sono capitoli di un mio libro (anch’esso introvabile) intitolato “Tagliati al vivo”, che non è una locuzione “rubata al linguaggio dei macellai” ma è tratta dal gergo giornalistico dei miei tempi. Si usava per indicare, ponendo proprio la mano sulle immagini, quando e come tagliare una fotografia per renderla più significativa.

Proseguiamo con il 22 Marzo. Enrico parla di Thomas Milian e della sua intristente vecchiezza. Ho visto quasi tutta la puntata che gli ha dedicato Tatti Sanguineti e lui, intervistato adesso, più che intristito e tremolante mi è parso vecchio e furbesco. Il suo italiano è ancora scorrevole e il suo ricorso al romanesco ha il carattere di un omaggio dovuto. Interessante, ad esempio, quel che dice a proposito di Ferruccio Amendola, che fu il suo classico doppiatore per la parte di “Monnezza” e che Thomas Milian afferma di aver voluto e scelto personalmente. In quanto a Rosellina che aspetta Vincenzoni so che Tatti aveva intenzione di utilizzare al meglio il documentario che girato da Claudio Costa e che, intitolato “Il falso bugiardo”, ha avuto successo ovunque sia stato proiettato. 
Una volta l’ho presentato io al Festival di Genova e la gente si è divertita molto ed ha applaudito. Se non sbaglio sono stato io a dare a Tatti il telefono di Claudio Costa. Che, sia detto incidentalmente, coltiva una intelligente passione per il documentario d’epoca. Ha trovato molti (fino ad ora credo 18, ma probabilmente aumenteranno) italiani superstiti della Seconda Guerra Mondiale, ed in particolare del periodo della Repubblica di Salò, che hanno combattuto sia dall’una che dall’altra parte (due glieli ho segnalati io, un altro è nato da una indicazione di Doretti). Si tratta, naturalmente, di testimonianze di eccezionale importanza, in presenza di una “clientela” che a volte supera i cento anni e che sparisce di continuo. Infatti, diverse fra le persone intervistate da Costa in questi ultimi anni sono morte nel frattempo. Se un iniziativa del genere fosse stata presa vent’anni fa (e non da Costa allora assai giovane, ma da qualche Ente ufficiale fra quanti si occupano di ricerche storiografiche) sarebbe stato possibile raccogliere una galleria di testimonianze in voce e volto tali da fare concorrenza ai 15 volumi di Giulio Bedeschi, che fece parlare i sopravvissuti italiani di tutti i fronti. In ogni caso se a qualcuno interessasse il tema sono pronto a segnalargli il cellulare di Costa, che ovviamente vende le sue interviste sia direttamente che in alcune librerie. Le date di programmazione di Tatti non le conosco ancora. Se ho capito bene la puntata su Vincenzoni dovrebbe andare in onda la settimana prossima.
Veniamo infine ai contributi del 24 marzo. Tutti e tre (Rita M., Rosellina Mariani ed Enrico) riguardano Jack London e sono pieni di un entusiasmo che mi ha fatto piacere. Enrico (lo ringrazio per gli apprezzamenti sull’intervista) cita “Storie di Boxe”. Io ricordo particolarmente quella splendida, tristissima novella centrata su un gelido e misterioso ragazzo messicano che a forza di pugni guadagna soldi per la rivoluzione. “Il vincitore prende tutto” è il suo motto e il suo principio. Di London vorrei ricordare anche i racconti, in certo senso fantascientifici, scritti in un’epoca in cui la fantascienza non era ancora di moda. Fin da ragazzo ho trovato che “Prima di Adamo” è un piccolo capolavoro. Il protagonista ai giorni nostri, fin dall’infanzia, sogna- per risvegliarsi poi, nel suo lettino, madido di sudore- di rivivere quel che ha vissuto un suo antenato nel pieno dell’evoluzione. Partecipe cioè di un branco a metà fra le due grandi divisioni che separarono la scimmia  e il pitecantropo eretto: “Il popolo degli alberi” e “Il popolo del fuoco”. È un racconto da cui scaturisce tutto l’evoluzionismo un po’ orecchiato, tipico della formazione culturale di London. Ma anche lo straordinario piglio inventivo che tuttora ci aggancia dalla prima all’ultima riga, nelle pagine di un genio furiosamente intemperante, morto in piena maturità.
Basta così perché se mi lascio prendere la mano dalla voglia di parlare di London non la finisco più. 

24 marzo 2014

INTERVISTA A CLAUDIO G. FAVA SUL TEMA "LA BELLEZZA DI UN FILM"

Come mi è già accaduto in passato a proposito del mio libro "Guerra in cento film", sono stato intervistato per la rubrica "Il Posto delle Parole" animata da Livio Partiti su Radio TRS ( una trasmittente di Savigliano che si ode nella provincia di Cuneo). Lo stesso Partiti mi ha inviato gentilmente il link attraverso il quale si può udire l'intervista. Lo trascrivo qui, ammesso che a qualcuno possa interessare.


http://ilpostodelleparole.typepad.com/blog/2014/03/claudio-g-fava.html



L'OSSERVATORE GENOVESE

Cari amici,
inevitabile puntata della mia rubrica domenicale. Confesso di essermi abbandonato ad un subitaneo moto di nostalgia per le mille e mille parole di Jack London assorbite in gioventù.


VISTO CON IL MONOCOLO

LA LEZIONE INSUPERABILE OFFERTA DA JACK LONDON
Come promesso volevo occuparmi di Papa Francesco, poi ho letto l’elenco di “Forbes” sugli uomini più importanti del mondo nel 2013 e ho visto che occupa il quarto posto dopo Putin, Obama e Xi Jinping. A questo punto ho deciso di riflettere ancora una volta prima di abbandonarmi a valutazioni che forse potrei rimpiangere, e mi è venuto istintivo pensare che durante tutta la mia carriera non ho praticamente mai provato quel turbamento del foglio bianco, quell’incertezza fondamentale su cosa e come scrivere che colpisce tante persone che dello scrivere fanno la loro attività fondamentale. Al tempo stesso ho sempre provato una grande ammirazione per quelli che scrivevano tanto e senza molte incertezze. Da Victor Hugo, che in piedi davanti ad uno “scriviritto” dava vita a creature enormi come “I Miserabili”, a Zola, che ogni mattina si metteva allo scrittoio come un impiegato per produrre la prevista quantità di cartelle. Ma fra tutti, quello che mi ha sempre impressionato, è uno scrittore che ho molto amato da ragazzo e per il quale conservo ancora un posto speciale nel mio cuore. E cioè Jack London. In soli quarant’anni di vita (1876-1916) è riuscito ad accumulare esperienze e attività per venti persone diverse. È stato strillone, pescatore di ostriche, lavandaio, cacciatore di foche, pugile, cercatore d’oro. I suoi studi sono stati abbastanza irregolari, ma dopo i vent’anni incomincia a scrivere. Alimenta il suo straordinario talento naturale con disordinate letture che ne fanno un socialista convinto (quando ce n’erano pochi negli Stati Uniti) e, pur quasi sempre in preda ad un profondo alcolismo, riesce a guadagnare molto denaro collaborando a riviste di successo e pubblicando un numero notevole di libri. I romanzi sono almeno 20, le raccolte dei racconti 19, 6 i libri di saggi, generalmente politici, gli articoli moltissimi: fra i titoli che hanno affascinato intere generazioni ricordo “Il richiamo della foresta”, “Il lupo dei mari”, “Zanna bianca”, “Prima di Adamo”, “Il tallone di ferro”, il semi-autobiografico “Martin Eden” (forse  London ne imitò il suicidio ?), “Radiosa Aurora”, “La peste scarlatta”, “Il vagabondo delle stelle”. Una lezione insuperabile per chi voglia far mestiere di scrivere.

22 marzo 2014

“STORIE DI CINEMA" DI TATTI SANGUINETI


Trasmissione settimanale su Iris mossa da quell' inquieto e sontuoso interesse per la “Settima Arte” che è tipico di uno dei più personali e originali critici cinematografici italiani.

Da qualche tempo il nostro amico Tatti Sanguineti – so che molti lettori del Blog lo seguono con attenzione ed interesse – anima una settimanale rubrica televisiva sul canale Iris (numero 22 del digitale terrestre). Essa si chiama “Storie di cinema”, credo che ogni puntata duri circa mezz'ora e Tatti  si abbandona alla sua vena divertita, ironica e sapiente nell'evocare momenti maggiori e minori di quella che un tempo si chiamava la Settima Arte. La rubrica va in onda ogni martedì dopo il film di prima serata delle ore 21 e viene poi replicata al sabato alle 10:50 e al sabato notte fra le 23 e le 0:30 (in ogni caso converrà che chi è interessato controlli le ore nei programmi pubblicati dai giornali e dalle riviste).
Martedì 18 marzo è andata in onda una puntata dedicata al “Peplum” (la parola latina con cui la critica francese definì i filmoni in costume greco – romano che ebbero molto successo nel nostro cinema qualche decennio fa). La puntata di martedì 25 marzo sarà invece dedicata a quel curioso personaggio che è stato l’attore Tomas Milian (da un lato giovane borghese tormentato e snob, dall’altro macchietta di poliziotto grevemente romanesco doppiato da Amendola).
Tatti mi ha anche detto quali dovrebbero essere i temi delle successive puntate. Egli rievocherà il grande sceneggiatore Luciano Vincenzoni (un caro amico del cui libro “Pane e Cinema” mi onora di aver scritto la prefazione), Diego Abatantuono (tipico esemplare di quegli attori che, “in stile Yves Montand”, hanno imparato a recitare recitando). Un altro personaggio evocato in una puntata settimanale di Tatti sarà Lello Liguori: sono curioso di apprenderne qualcosa di più visto che quello che conosco io (di nome) era noto come “inventore” del Covo di Nord Est a Santa Margherita Ligure. Un successivo appuntamento di Tatti dovrebbe essere con Georges Simenon, suppongo per i riflessi cinematografici molto ampi che ha avuto la sua immensa opera di narratore.

Come vedete si tratta di appuntamenti interessanti. Mi auguro che possiate seguirli e che Tatti via via mi comunichi il suo calendario, man mano che la trasmissione prosegue.

19 marzo 2014

A DOMANDA RISPONDE

Rispondo adesso agli ultimi commenti pervenuti, esattamente il 6 e il 10 di marzo, con una lunga divagazione sui "polar" degli anni '50.

Quelli del primo gruppo sono sette, stimolati dalla mia risposta: “Lettera (tardiva) a Renato Rosati”. Nell’ordine: interessanti le osservazioni di Enrico che ricordano alcuni “polar” famosi, alcuni dei quali hanno origine da romanzi decisivi nella storia del poliziesco francese. Alludo soprattutto a “Grisbi” e a “Rififi” (titoli originali, molto più intriganti: “Touchez pas au Grisbi” e “Du Rififi chez les hommes”).
Il primo è tratto da un romanzo di Albert Simonin, fondamentale nella storia del “polar” anni ’50 ma, soprattutto, in quella che riguarda la deliberata utilizzazione dell’”argot”, al tempo stesso parigino e malavitoso. In effetti Simonin resta una figura decisiva per tanti momenti della storia letteraria minore della Francia. “Grisbi” nel suo argot  significa il denaro o i preziosi che provengono da un “colpo”. La parola, a suo tempo, ebbe notevole fortuna. Simonin è morto nel 1980, a 75 anni, ormai passato di moda, nonostante avesse scritto e pubblicato opere sino agli ultimi anni, sempre attingendo alle sue memorie di parigino proletario, occasionalmente tassista ma anche giornalista. E, in particolare, redattore, durante il periodo di Vichy, di pubblicazioni collaborazioniste per le quali era stato condannato a cinque anni di reclusione (nel 1954 fu liberato da un decreto di amnistia). Quando uscì il libro lo lessi (in francese) molte volte, attingendovi tutto un mondo di parole e di azioni, irreparabilmente consegnate alla Parigi del passato. Varrà la pena di precisare che l’edizione francese di “Touchez pas au Grisbi” era chiusa da un vocabolario di argot intitolato “Dictionnaire pour les non affranchis”. Vale a dire, letteralmente, “Per i non liberati (dalla schiavitù)”. Cioè per le persone perbene, viste, nella logica del “milieu”, come potenziali vittime naturali . Va precisato che chi non faceva parte dell’”ambiente” (vedi sopra), era chiamato “un cave” ed è quindi il destinatario predestinao di ogni possibile offesa. In ogni caso la figura del gangster crepuscolare “Max le menteur” descritto da Simonin in tre romanzi -Jean Gabin offerse un risalto eccezionale in “Grisbi”- resta, con la sua furbizia di malvivente perbene, intristito dal passare degli anni, una figura di rilievo in tutta la storia del poliziesco francese. 
Anche Auguste Le Breton  (pseudonimo di Auguste Montfort, chiamato appunto “il bretone” a causa delle sue origini) ha rappresentato un momento decisivo nella storia del “polar” scritto, per scivolare poi lentamente in una organizzata banalità. Va detto che anche lui ha iniziato con l’autentico ritorno all’Argot della sua infanzia e della sua adolescenza scapestrata, consacrando all’argomento addirittura un dizionario, intitolato con un gioco di parole intraducibile in italiano, “Langue verte et noir dessins”. Nato nel 1913 (morì nel 1999), cresciuto in un orfanotrofio e poi in una casa di correzione, già a 18 anni frequenta piccole bande di teppisti e per alcuni decenni se la cava esercitando mestieri vari sino a diventare un “croupier” di case da gioco clandestine. Sembra che durante la guerra abbia partecipato alla resistenza e verso la fine degli anni ‘40, sospinto da una curiosa vocazione, abbia cominciato a scrivere. Inizialmente è attratto da descrizioni della sua gioventù avventurosa e le sue esperienze nel “milieu” (il primo libro, “Les hauts murs” è sostanzialmente autobiografico). Poi decide di attingere a quel che ha visto e udito e scrive un vero e proprio “polar”. Sarà “Rififi” (la parola in argot significa, o significherebbe, “tafferuglio”; "Les hommes" significa tassativamente "Gli uomini della malavita", gli altri non sono neppure presi inconsiderazione). Il romanzo è salutato da un successo immediato, al punto che la parola che dà il titolo al libro (ed al film che ne verrà tratto) diventa immediatamente famosa e finirà col tempo con l’essere accettata dal vocabolario Robert, il che significa che fa ormai parte del patrimonio della lingua francese. Le Breton, come Simonin, attinge all’argot corrente ed a quello della malavita, ma in lui il vocabolario sembra più aperto all’invenzione mentre quello di Simonin dà l’impressione di riposare su una maggiore attendibilità di lessico. Anche egli, come Le Breton, ha pubblicato un vocabolario di argot, intitolato prima, nel 1957, “Le Petit Simonin illustré, dictionnaire d’usage” e riedito nel 1968 con il titolo “Le Petit Simonin illustré par l’exemple”. Sia lui che Le Breton, trascinati dal successo, hanno scritto diversi libri (li elencherò, parlandone più ampliamente, solo se qualche lettore mi chiederà di farlo) da cui sono nati molti film di grande successo. Ricordo che il primo della serie per Simonin è stato appunto “Grisbi”, diretto nel 1953 dal grande Jacques Becker. Quasi per caso il film consentì a Lino Ventura, ex-lottatore divenuto organizzatore di incontri di lotta, un esordio significativo che testimoniò di un naturale, e insospettato, talento d’attore. Anche Le Breton scrisse poi molto (forse ancora più di Simonin) e venne largamente utilizzato dal cinema, dopo che l’inatteso Jules Dassin, già regista di punta di un certo cinema “duro” degli Stati Uniti, aveva diretto con grande successo il film tratto da “Rififi” (centrato su un eccellente attore belga, Jean Servais, il quale non ha avuto il successo che meritava). I primi libri di Le Breton sono stati portati sullo schermo e lui stesso poi ha dato origine ad una serie di romanzi tutti legati al nome di “Rififi” (a New York, sulla Senna, a Praga), in cui ha sfruttato il successo del film rendendolo una sorta di marchio di genere.

Si tratta di due personaggi (appunto Simonin e Le Breton) e di una collana di libri e di film che sembrano irrimediabilmente collocati nel passato. Ma che io, per ragioni di età e di antiche esperienze di lettore, continuo ad avvertire vicinissimi a me.

Venendo agli altri contributi mi pare interessante quel che ha scritto Enrico e in particolare la sua allusione ai film italiani “carcerari” come “Nella città l’inferno” e, “Detenuto in attesa di giudizio”. Ve ne sono credo molti altri sul tema anche se spesso risolto in chiave comico-farsesca. Fra i tanti esempi mi viene in mente “Ladro lui, ladra lei” (1958) di Luigi Zampa dove Sordi, fedele alle tradizioni famigliari esercita con impegno la propria professione di ladro, andando regolarmente in prigione dove è accolto come se andasse all’albergo, in uno spirito di grande partecipazione collettiva. Fra le varie osservazioni di Luigi Luca Borrelli (che perde l’alloro di “giovane del Blog” !) mi piace quel che ha scritto di Melville. Trovo, in particolare, divertente la definizione (nata per ribadire “un solco” stilistico esagerato) secondo cui “Melville sta a Platini come Di Leo a Furino”: paragone calcisticamente impeccabile, che mi sembra rivelatore di un sottofondo juventino…Per quel che riguarda il fatto che io possa essere conosciuto dai ventenni grazie alle loro scorribande in rete, resta il fatto che la documentazione rinvenibile sia nella sostanza abbastanza scarsa. Un contributo decisivo potrebbe aversi se la Rai permettesse di attingere alle mie apparizioni sul teleschermo: da calcolarsi in centinaia, perché non solo limitate a presentazioni di film in senso stretto ma in numerose apparizioni in rubriche (penso a “Dolly” e a “Set”) ed in molte altre testimonianze di diversa natura. Purtroppo le Cineteche Rai non concedono, nemmeno a richiesta dei “protagonisti” l’uso del materiale. Che viene conservato non so per quali posteri. Ringrazio Rosati per il suo secondo intervento e gli confermo che la sua e-mail è stata inserita nel cosiddetto “elenco privilegiato” con gli indirizzi delle persone a cui viene comunicato ogni mio nuovo apporto sul Blog. Vengo infine all’intervento di Giulio Fedeli. Faccio osservare che egli dice di essere nato nell’anno di “Labbra proibite” (“Quand tu liras cette lettre”, 1953) con una sorta di civetteria al contrario perché si tratta dell’unico film fra quelli diretti da Jean-Pierre Melville che il regista abbia disconosciuto…Credo che Rosati e Borrelli possano compiacersi del successo che hanno ottenuto (le parole di Fedeli ne sono una testimonianza) mentre ringrazio le due segnalazioni bibliografiche. Il libro di Denitza Bantcheva mi tenta particolarmente. Cercherei di procurarmelo se sapessi dove ospitarlo in una biblioteca che ormai ha rotto gli argini. Ringrazio Rosellina, come sempre fin troppo affettuosa. La segnalazione della frase di Alberto Sorrentino su di me durante la rubrica di Fabio Fazio mi è giunta da diverse parti, come dico anche nella mia rubrica sul “Mercantile” pubblicata nel Blog il 17/03/2014. Per quel che riguarda la “Grande Bellezza” meditavo di scrivere qualcosa ma non ho ancora deciso…Infine un nuovo grazie a Rita M. per i suoi complimenti…
P.S.
Due ulteriori osservazioni che riguardano quel che ha scritto Giulio Fedeli. In senso stretto Rui Nogueira è arrivato prima di me, seppure per un problema di mesi. Il suo splendido libro, del 1973, su Jean-Pierre Melville (pubblicato in Italia, con molti anni di ritardo, da Le Mani con una mia prefazione) viene prima del mio articolo sul regista, che rappresentò una novità nella critica italiana, pubblicato nel numero maggio del 1974 della "Rivista del Cinematografo". L'ho ripreso nel 1979 nel mio libro "Le Camere di Lafayette", che è di fatto introvabile da molti anni. Se non lo utilizzerò in un libro antologico su di me sarei tentato di ripubblicarlo per intero nel Blog. Aspetto pareri dei lettori...


17 marzo 2014

L'OSSERVATORE GENOVESE

Cari amici, 
vi avviso che ho messo nel Blog l'abituale rubrica domenicale sul "Corriere Mercantile".
Come vedrete essa possiede un forte carattere personale!
Molti cordiali saluti.


VISTO CON IL MONOCOLO


PER FORTUNA SORRENTINO MI DIFENDE

Francamente volevo centrare la rubrica di oggi sull’anno di “lavoro” compiuto in questi giorni da Papa Francesco. Poi è subentrato un fatto curioso, di cui all’origine non sapevo niente. E cioè che Paolo Sorrentino, ricevuto da Fabio Fazio a “Che tempo che fa”, parlando occasionalmente del flusso disordinato e incontrollabile di film nella televisione di oggi abbia detto, pressappoco, che quando lui era ragazzo, Claudio G. Fava “era una specie di idolo perché creava un’aspettativa sul film che si andava a vedere…”. Un amico mi ha telefonato al mattino dicendo con voce allarmata “Hai saputo? Ma non hai sentito niente?!”. Alla mia età parole del genere fanno sempre pensare al peggio. Lì per lì mi è venuto un accidente, poi ho capito, ho telefonato a Fazio (non ci vediamo mai, ma lo conosco dai tempi del suo esordio alla Rai nel 1982, e con me è sempre gentilissimo) che mi ha confermato tutto. Gli ho chiesto se potevo avere un dvd, lui mi ha spiegato che non era necessario perché si poteva trovare tutto subito in internet (la mia ignoranza tecnologica è ripugnante). Ho controllato, ho sentito l’inattesa frase di Sorrentino (che non ho mai conosciuto), mi sono doverosamente stupito e ho deciso di chiedere a Claudio Trionfera, vecchio collega e da anni Capoufficio Stampa della Medusa, un indirizzo per ringraziare doverosamente il regista. Fatalmente la sua frase mi ha portato ancora una volta a riflettere sui miei ventiquattro anni di Rai (di cui sono tuttora, forse ingenuamente, orgoglioso) e sulla crudeltà con cui l’azienda si comportò con me al momento di andare in pensione. Un certo Celli arrivò con i cosiddetti “professori” come nuovo Responsabile delle Risorse Umane (ai tempi di Cavour e di Giolitti si diceva semplicemente Servizio del Personale, ma questo non è abbastanza per i nuovi tecnocrati) ben deciso a mandarmi via al più presto. Come tutti i principali dirigenti di una rete ero ai suoi occhi misteriosamente colpevole. Sapevo di essere invece uno di quelli che in lunghi anni di lavoro avevano salvato la baracca. E venni ingiustamente colpito alle spalle. In vent’anni non l’ho mai dimenticato. Per fortuna c’è gente (Sorrentino compreso) che si ricorda di me.


10 marzo 2014

L'OSSERVATORE GENOVESE

Ecco l'abituale puntata della mia rubrica domenicale sul Corriere Mercantile. In questa occasione ho provato un'infantile piacere a vedere che quasi, a caso, avevo fatto centro con la mia citazione su Borges...Prego controllare.

VISTO CON IL MONOCOLO.

AVEVO RAGIONE SU PAPA FRANCESCO.

Sono un po’ spaventato perché, ogni tanto, quel che accade dà ragione a cose che erano frutto di mie fantasticherie. Nella puntata di “Visto con il monocolo” del 22 aprile 2013 avanzavo delle ipotesi sulla psicologia di Papa Francesco (sempre senza numero) in qualche modo influenzata (al di là dell’origine piemontese dei nonni) dal potenziale peronismo che condiziona tutta la vita del suo paese Concludevo chiedendomi se nella mescolanza di “elementi tradizionali e…innovatori” tipici di Papa Bergoglio non agisse “una forma di insolita convivenza…proprio frutto del suo essere argentino (Un po’ Maradona, un po’ Borges)”. Nella chiusura del mio testo il nome del calciatore evocava la palese partecipazione sportiva del Papa, che da sempre – ne è socio con la tessera numero 88.235- fa il tifo per il San Lorenzo de Almagro, una delle cinque squadre più popolari di Argentina insieme con il Boca Juniors, il River Plate, il Racing e l’Independiente (non a caso uno dei soprannomi dei giocatori è “los cuervos”, cioè “i corvi”, per ricordare l’importanza di un sacerdote, padre Lorenzo Massa, nella fondazione del club). Invece il nome del grande scrittore era una mia fantastica evocazione intesa a implicare una delle grandi vette culturali dell’Argentina. Ebbene sul “Corriere della Sera” del 28 di febbraio è apparso un articolo di Antonio Spadaro, direttore de “La Civiltà Cattolica”- famosa rivista quindicinale della Compagnia di Gesù, ancor più importante da quando anche il Papa è un gesuita- in cui vengono rievocate le esperienze del ventottenne Jorge Mario Bergoglio, professore di letteratura presso un liceo gesuita, il “Colegio de la Immaculada Conceptiòn”. Egli nel 1964/65- era ancora un “maestrillo”, cioè un gesuita in formazione- creò per i suoi allievi un corso di scrittura creativa, che culminò in un volume di “Cuentos originales” scritti da otto alunni, con una prefazione di Jorge Luis Borges, che aveva allora 65 anni ed era già famoso nel mondo. Come abbia fatto Bergoglio per contattarlo e per ottenere una sua operosa collaborazione non lo so proprio. Ma certamente è una manifestazione di estrema capacità manovriera, ed anche una prova della mia “preveggenza”. 

6 marzo 2014

A DOMANDA RISPONDE

LETTERA (TARDIVA) A RENATO ROSATI

Caro Renato,
purtroppo rispondo con ritardo alla sua lettera pubblicata a commento del mio post “A domanda risponde” del 17 febbraio. Francamente non me ne ero accorto (non so come mai, visto anche che è considerevolmente lunga). Per fortuna è stato Lorenzo Doretti a farmi rilevare il mio errore ed ora cerco di riparare alla dimenticanza.
Lei mi chiede “quanto è sottile la linea di demarcazione che separa il noir italiano di ambientazione metropolitana dalle storie di vita del nostro Paese…Ambientate tra gli anni del dopoguerra e quelli del boom economico?”. È una domanda al tempo stesso invogliante e molto complessa, a cominciar dal fatto che parlare di “un noir italiano di ambientazione metropolitana” è già una presa di posizione. Visto che il primo noir in senso stretto è stato un appassionante frammento di cinema americano fra guerra e dopo guerra nella valutazione della critica francese. Un ulteriore frammento della sua domanda riguarda il rapporto (potenziale) fra i film pasoliniani di concitazione periferico-proletaria (“Accattone” e “Mamma Roma”) e “Una vita violenta” (tratto da un romanzo di P.P. Pasolini) e, ancora, il rapporto fra il “noir metropolitano italiano di chiara derivazione francese” e i film prima citati. 
Anche qui bisognerebbe arrivare ad una (sperabile) unificazione del vocabolario. Come ricordavo prima furono alcuni critici francesi a usare un espressione totalmente francese per indicare un fenomeno totalmente americano (uno degli “inventori” fu un curioso poeta svizzero residente in Francia ma totalmente formato in Italia, ed addirittura nato a Barletta: Nino Frank, personaggio minore ma straordinario). Parlare di “noir italiano” significa procedere ad un enorme allargamento del significato originario, e, anzi, dire che il “noir metropolitano italiano” è di derivazione francese, significa procedere anche qui ad una sorta di “annessione” culturale non so quanto giustificata. Il “noir” francese è un prodotto composito, che tende a sparire ed a riapparire, generazione per generazione e in cui si mescolano non solo un certo gusto dell’ambiente e della società (spesso in chiave apertamente metropolitana e, quando possibile, parigina) ma anche un’evocazione “etnica” spesso estremamente caratteristica. A volte ci si imbatte in alcuni tipici risvolti: la venatura della malavita corsa oppure di quella araba consentono caratteristiche invenzioni del genere e di genere, e via variando.
Infine la citazione di Fernando Di Leo implica una sorta di mia potenziale colpevolezza. Non so perché ho sempre trascurato il suo cinema, forse considerandolo una specie fragorosamente balistica di quella variazione poliziesca italiana che il sottilissimo critico Giovanni Buttafava aveva giustamente battezzato “il poliziottesco”. A indicare cioè un filone di cui avevo colto sin dall’inizio il carattere apertamente apprensivo, tipico della società italiana dell’epoca costretta a risvegliarsi bruscamente di fronte a fenomeni fino a quel momento impensabili. Rapine clamorose, sparatorie, potenziali colpevolezze nel seno della polizia, eccetera, bruscamente introdotte nel panorama del nostro cinema da un film del 1972 “La polizia ringrazia” di Stefano Vanzina ovvero Steno, padre dei due fratelli. Ma anche un genere che con l’andar del tempo avevo considerato fin troppo ovvio, e al più una manifestazione di produttiva furbizia nostrana, così da poter andare in giro per l’Italia riproponendo sempre lo stesso meccanismo città per città. 
Mi accorgo di avere sin qui parafrasato le sue domande probabilmente senza fornire attendibili risposte. Ma vorrei prima consultare il mio amico Renato Venturelli (ho già avuto occasione di scrivere che lo considero il massimo esperto italiano di noir). 
Intanto la ringrazio per le sue manifestazioni di stima e di affetto che probabilmente sono un po’ esagerate: in casi del genere si scrive sempre, pudicamente, “non le merito assolutamente” (ma come ha potuto conoscere le mie manifestazioni di entusiasmo per Jean-Pierre Melville? In genere sono contenute in scritti di molti anni fa e in un ciclo televisivo portato a termine non so quanti anni prima della sua nascita).
Tornerò sull’argomento. Se lei mi fornirà la sua e-mail provvederò ad includerla nell’elenco “privilegiato”, vale a dire composto da persone a cui invio un breve avvertimento ogni qualvolta apporto un nuovo contributo al Blog. 
Intanto molti cordiali saluti.

5 marzo 2014

PRECISAZIONI

UNA PRECISAZIONE DI LUISA MORANDINI

Mi ha scritto Luisa Morandini figlia di Morando, ringraziandomi per gli elogi al  vocabolario "di famiglia" e per i ricordi dell'Hotel Sorriso del Lido pubblicati nel Blog, per farmi presente un importante particolare riguardante il suo lavoro. Lo ricopio qui testualmente:

(...)Premesso che il Morandini lo facciamo "solo" Morando e io (Lia non ci lavora, e fino a quest'anno - a parte mio figlio Michele - non avevamo avuto la possibilità finanziaria di avere alcun altro autore), tutti i 4/500 film che aggiungiamo ogni anno ce li dividiamo tra noi (solo corti e serie TV sono stati fatti con la mano di miei ex studenti, giustamente incoraggiati con il nome). Cosa di cui Morando si è sempre (più o meno scherzosamente) lamentato.
Dall'anno prossimo, finalmente  (autotassandoci) avremo una piccola mano da Antonello Catacchio. (...)

Capisco che Luisa volesse precisare i confini di competenza nella confezione del vocabolario, visto l'immenso lavoro (20.000 film nell'edizione cartacea e 25.400 in quella digitale) che il dizionario implica e che fino adesso è ricaduto tutto su Morando e sua figlia. Luisa mi ricorda anche un anniversario molto importante e per il quale io sono a disposizione.

L'OSSERVATORE GENOVESE

Cari amici,
come al solito, ma con qualche giorno di ritardo, ecco la mia rubrica di domenica 2 marzo sul "Corriere Mercantile". Il tema che ho affrontato, lo dico impudicamente, mi sembra di notevole importanza. La ristrettezza dello spazio non mi ha consentito di trattarlo così come avrei voluto. Ad esempio ho dovuto trascurare ogni riferimento ai cosiddetti "Tatari di Crimea", essenziali per comprendere quel che sta succedendo non solo in Crimea, ma anche nell'Ucraina propriamente detta. Non è possibile riassumere qui la complicata vicenda. Mi limiterò a ricordare che nel 1792, con il  trattato di Iassy (Iaşi) la Crimea era stata acquisita definitivamente allo stato russo. Da allora, credo, cominciò una migrazione russa che con l'andar del tempo ha definitivamente messo in minoranza l'originale popolazione tatara. Che parla una lingua chiamata "crimeano", appartenente al gruppo di sud-ovest (oghuz) delle lingue turche, e in gran parte professa la religione mussulmana di confessione sunnita. Nel corso dei millenni i Tatari hanno conosciuto vicissitudini di ogni tipo. Ma l'ultima, e forse la più tragica, è quella verificatasi durante la seconda guerra mondiale quando Stalin, accusando l'intera popolazione di essere al servizio della Germania nazista (forse perchè alcuni tatari aveva formato un reparto militante nell'esercito tedesco, la "Wolgatatarische Legion")  fece deportare l'intero gruppo etnico nell'interno dell'immenso "impero" sovietico. In gran parte i Tatari vennero concentrati nel lontanissimo Uzbekistan. Diaspora che causò un enorme perdita di vite umane. Di fatto da allora la comunità tatara si trova in netta minoranza rispetto alla componente russa del paese che, nel giro di più di due secoli, è diventata largamente maggioritaria (complessivamente la popolazione della penisola ammonta a circa a 2.000.000 di persone). Nonostante ciò, dai tempi di Chruščëv (quando esisteva ancora l'URSS) la Crimea venne attribuita all'Ucraina ed all'Ucraina è rimasta quando quest'ultima è diventata uno stato indipendente, quasi diviso a metà fra ucraini propriamente detti e russi. Il che spiega la semi-realizzata invasione delle truppe russe, poi bloccate all'ultimo momento. E palesemente accolta con entusiasmo la popolazione (ovviamente da quella russa e non da quella tatara).
Ho cercato qui di ridurre al minimo l'immenso deposito del passato storico che grava sulla Crimea, e quindi indirettamente sulla Russia e sull'Ucraina. Ma ho dato vita, nel mio (estremamente)  piccolo, ad un minimo di quella divulgazione che solo da pochissimi giorni la stampa e la televisione italiana stanno cercando di operare, dopo non aver spiegato niente per mesi. Fra i mille particolari che ho appurato mi sembra esservene uno che, se è vero, è clamorosamente sconcertante. Sembra che nella capitale Kiev (2.758.000 di abitanti) la lingua prevalentemente usata sia il russo e non l'ucraino, nonostante che la città si trovi in quella parte del paese largamente di lingua ucraina. E' una notizia sbalorditiva come lo sarebbe se si apprendesse improvvisamente che la lingua abitualmente parlata a Roma è il francese ed a Parigi il tedesco. Su questo paradosso, all'interno di un paese che mi sembra essere tutto un paradosso, non ho trovato ancora una riga nei quotidiani italiani né una voce nei telegiornali.
Ed ora ecco la rubrica:

VISTO CON IL MONOCOLO

LE LINGUE BATTONO LE IDEOLOGIE

Ho notato che la stampa quotidiana (non solo quella italiana ma anche quella francese e anglofona) nutre spesso una curiosa indifferenza verso alcuni problemi linguistici fondamentali, sia nelle rispettive nazioni che altrove. Questo nasce a volte da un esasperato nazionalismo: si pensi alla Francia che fra l ‘800 e il ‘900 ha praticamente distrutto alcune sue lingue minoritarie ma importanti come l’occitano o quelle “straniere” come il Bretone, che è un idioma celtico, o il corso, che, con buona pace dei corsi, è un super-dialetto italiano, fra il toscano e il meridionale. 
Ma spesso accade qualche cosa di meno spiegabile: una sorta di rimozione collettiva per motivi ancora più oscuri. In questi ultimi mesi ne abbiamo avuto una riprova molto evidente. Riscontrabile negli articoli e nelle corrispondenze (televisione compresa) sulla crisi ucraina. Per mesi siamo stati inondati di informazioni sulla situazione politica sempre più grave, sugli scontri partitici sempre più aperti, sino ad arrivare di fatto alla guerra civile ed al ripudio (ed alla fuga) del presidente in carica. Analisi minute ci hanno informato sugli scontri ideologici in atto, senza fare mai parola del retroterra etno-linguistico assolutamente determinante che presiede la crisi ucraina. Solo nelle ultime settimane abbiamo cominciato a leggere notizie sul vero sottofondo che la determina: l’intreccio spesso rabbioso dell’invasione polacca e di quella russa sul fragile territorio ucraino e la sostanziale divisione linguistica che separa di fatto il paese: da un lato, diciamo da Odessa a Donetsk, una popolazione dal 40% a oltre il 50% di lingua russa e non ucraina, credo studiata come una lingua affine perché slava, ma ben distinta e diversa. Dall’altro, sino a Lviv, un succedersi di zone dove il russo è parlato da meno del 20% della popolazione. Divisione che trova una conferma puntuale nell’esito delle votazioni presidenziali del 2010: nella parte “ucraina” del paese Iulia Timoschenko, pro-europeista, riceve il 45,47% dei voti. Nella parte opposta Victor Ianukovich (poi eletto, ora rifugiato in Russia) riceve il 48,95% dei voti. 
Perché questa tardiva “intrusione” di un problema fondamentale? Vorrei saperlo.
Claudio G. Fava
(battute 2.208)

1 marzo 2014

“LA TV CHE MI PIACE” di Alessandra Comazzi.


Venti anni di ricordi della nota critica televisiva de La Stampa.

Segnalo a tutti  la recente uscita di un libro di Alessandra Comazzi che, appunto, ha il titolo sopra riportato, e unisce un’ampia antologia di sue recensioni, di ritratti di personaggi televisivi, di rievocazioni di programmi d’epoca, e via citando. Un simpatico riandar con la memoria ai lunghi anni di lavoro in quello che da sempre è stato il suo giornale, prima come redattrice e poi capo servizio degli spettacoli, successivamente, come ora, collaboratrice di riguardo. Con la sua colonnina di valutazioni e segnalazioni quotidiane, che le consentono di commentare sagacemente l’attualità senza più quell’obbligo di “desk” pesante e continuo, come ben sa chi ha lavorato in una redazione.

Il libro di Alessandra è edito direttamente da “La Stampa” (prezzo euro 9,90)  e lo consiglio per l’ampiezza e la complessa articolazione delle citazioni e dei rinvii. Credo di dover aggiungere che nella mia segnalazione c’è anche un motivo di forte vanità personale. Infatti in quella parte del libro che lega una serie di lettere dell’alfabeto a personaggi tipici del piccolo schermo (“B” come Buongiorno eccetera) nel capitolo “Cinema in tv” c’è una pagina intera dedicata a me e intitolata appunto “F come Claudio G. Fava” . Ringrazio Alessandra per le cose che scrive ed anche perché mi ringiovanisce di tre anni, precisando che sono nato nel 1932 (per la verità sono nato nel 1929 e, nei limiti del possibile, ringalluzzisco). E mi auguro che questa mia breve nota possa essere utile per i lettori del Blog. 

A DOMANDA RISPONDE.

PRIME OPINIONI SUI DIZIONARI DI CINEMA.

La pubblicazione delle mie note sui Dizionari di Mereghetti e di Morandini ha provocato già gli interventi di tre fedelissimi del “Gruppo di ascolto” del Blog. Rosellina ribadisce la sua fedeltà al Morandini. Lo stesso fa Enrico, che un tempo li acquistava entrambi e che ora, soprattutto per motivi di spazio (ne so qualcosa anch’io!) si limita al Morandini. L’ evocazione del Farinotti (ne fa menzione anche, con toni perplessi, Luigi Luca Borelli) ha carattere gioiosamente retrospettivo. Ho inviato a Mereghetti l’articolo pubblicato sul Blog. Mereghetti mi ha ringraziato con una e-mail precisando che, quello che io indico come “il nucleo ristretto dei suoi collaboratori”,  ne rappresenta anche la totalità. Vale a dire che non ve ne sono altri: “pochi ma buoni” come scrive Paolo. 
Non mi pare di avere altre osservazioni da fare sui tre interventi, come sempre graditissimi.