Blog - Crediti


L'audio e i video © del Blog sono realizzati, curati e perfezionati da Lorenzo Doretti, che ha anche progettato l'intera collocazione.
L'aggiornamento è stato curato puntualmente in passato da diverse collaboratrici ed attualmente, con la stessa puntualità e competenza, se ne occupano Laura M. Sparacello ed Elisa Sori.

31 dicembre 2013

L' OSSERVATORE GENOVESE


Come al solito riporto nel Blog il mio articolo di domenica scritto per l'abituale rubrica sul "Corriere Mercantile". Mi accorgo adesso che nel testo ho omesso per errore il nome del regista della prima edizione di "The Secret Life of Walter Mitty" che era Norman Z. McLeod. Nato nel 1898 morì a Hollywood nel 1964. Ha meritato anche una stella della celebre "Walk of Fame". 
Fu uno di quei registi praticoni che lavorarono spesso in film di notevole successo soprattutto in America.
E' ricordato anche perché ha lavorato con i Fratelli Marx (per brevità indico solo i titoli originali) e cioè "Monkey Business" (1931) e "Horse Feathers" (1932). Fu uno dei numerosi americani della sua generazione che, poco più che ventenne, combatté in Francia come pilota da caccia della "U.S. Army" durante la Prima Guerra Mondiale.


VISTO CON IL MONOCOLO

WALTER MITTY È SEMPRE DI SCENA

In genere, visto che ho ossessionato i lettori del Mercantile per decenni, tengo fuori il cinema da questa rubrica. Ma oggi c’è un piccolo avvenimento marginale che è tuttavia significativo. Un tempo quando si procedeva al remake di un film, all’epoca importante, si citavano subito e ampiamente titolo, regista e attori della precedente versione. In occasione delle feste è uscito un film diretto e interpretato da Ben Stiller “I sogni segreti di Walter Mitty” (“The secret life of Walter Mitty”), ma solo tardivamente e occasionalmente stampa e televisione hanno ricordato che è appunto un remake (anzi un doppio remake). Tratto da un racconto del 1939 di James Thurber famoso disegnatore e umorista del New Yorker, il personaggio di Walter Mitty che lo anima è diventato un simbolo nei paesi anglosassoni (“un personaggio con la psicologia di Walter Mitty…”). In realtà è un piccolo uomo, un correttore di bozze,  attraversato dalla voglia di diventare simile ai grandi personaggi della mitologia avventurosa. La sua figura venne affidata nel 1947 a Danny Kaye (1913-1987). Kaye, un po’ attor comico un po’ parodista musicale, fu negli anni ’40 e ’50 un idolo americano, grazie, anche, alla sua capacità di recuperare lingue e motivi famosi. Fu popolare anche in Italia: il suo frenetico eloquio era in generale “tradotto” dal grande doppiatore Stefano Sibaldi. All'epoca il film non piacque molto a James Thurber (capita spesso agli scrittori con film tratti da loro opere), ma piacque al pubblico. Walte Mitty, grande pilota, che incollava personalmente sulla sua carlinga i simboli con la svastica per accreditarsi un nemico abbattuto, divenne celebre. Si capisce come in un mondo periodicamente dominato dalla civiltà delle immagini, la figura di Walter possa essere riproposta, come accadde con “Sogni mostruosamente proibiti” del 1982 dove il personaggio di Mitty incontrava quello di Paolo Villaggio, con l’inevitabile regia di Neri Parenti, in un abbinamento sulla carta assolutamente giustificati. Non so quel che potrà valere il film di Ben Stiller ma non vi è dubbio che nella ritualità celebrativa nel film si ritrovino due antichi miti del cinema: il divismo celebrativo e il divismo parodiato.


24 dicembre 2013

L'OSSERVATORE GENOVESE

Come d'abitudine solita pubblicazione della mia rubrica domenicale sul "Corriere Mercantile". Mi fa piacere che sia stata l'occasione per pubblicare una fotografia di Daniele Varé, diplomatico e scrittore ormai largamente dimenticato, ma famoso quando io ero un ragazzo. Le sue testimonianze sulla Cina (una Cina totalmente d'altri tempi sono godibilissime ancora oggi, soprattutto se si tiene conto di che cosa era quel paese un tempo, quando appunto Varé gli dedicò il romanzo "Il creatore di celesti pantaloni"). Buon Feste a tutti.

VISTO CON IL MONOCOLO

PER SCRIVERE IN FRANCESE UNA BOTTIGLIA COL TAPPO
La maggior parte delle grandi società non ha più un amministratore delegato ma un CEO (Chief Executive Officer). Perché per delle ditte italiane, venga usato un termine strettamente americano non è detto. Ma è implicito del fatto che quel che viene citato in inglese sembra automaticamente più credibile che in italiano. Un atteggiamento su cui si sono gettati tutti voracemente, con i politici in primo piano. Perché dire “Election Day” invece di “Giorno delle Elezioni”? Perché “Spending Review” invece di “Esame della Spesa”? Rimando al futuro un elenco delle assurdità bilingui che ci infettano. Le ho evocate per ribadire il passaggio definitivo, in Italia, di una lingua straniera di cauzione. Un secolo fa il francese era da noi quel che è ora l’inglese. E andava bene per tutte le occasioni (un elegante negozio genovese si chiama da sempre “Montres & Bijoux”. Significa “Orologi & Gioielli”). Uno straordinario e precedente storico è stato ricordato da Daniele Varè ne “Il diplomatico sorridente”: ai primi del maggio 1915 al Ministero degli Esteri si pose il problema urgente di preparare un’accettabile dichiarazione di guerra. La quale doveva essere, ovviamente, redatta in francese (era impensabile dichiarare la guerra all’Austria in italiano o in tedesco: sarebbe stato un gesto sconveniente e maleducato). Ma al Ministero ci si chiese: chi era in grado di maneggiare il francese in modo adeguato? Tutti risposero: “il Marchese Fassati di Bàlzola”, ormai in pensione (mi sembra fosse lui e se no era un altro Marchese: in carriera all’epoca erano quasi tutti nobili). Una sera Fassati venne convocato, e gli fornirono i necessari documenti informativi. Lui accettò e poi disse: “Voglio una bottiglia”, “Una bottiglia?”. “Si, col tappo”. Il personale di servizio trovò la bottiglia col tappo e il Marchese andò dal caffè Aragno a farsela riempire di caffè caldo. Poi andò a casa e per tutta la notte redasse la dichiarazione di guerra. Al mattino un usciere venne a ritirarla. “L’Italia” scrisse Varè “andò in guerra e il Marchese andò a letto”.

Vent’anni dopo tutti si dichiararono guerra nella lingua che preferivano. Il francese di Luigi XIV era morto. In un angolo c’era l’inglese.

17 dicembre 2013

L' OSSERVATORE GENOVESE

Con un po' di ritardo pubblico la solita rubrica domenicale sul Corriere Mercantile. A proposito della quale ho ricevuto una gentile e-mail di Alessandro Lombardo, Consigliere Scientifico della Fondazione Ansaldo. Gli ho chiesto l'autorizzazione di pubblicarla nel Blog e se me la darà avremo occasione di ritrovarci.
Spero, a presto.

VISTO CON IL MONOCOLO

QUANDO GENOVA ERA GRANDE

Bene ha fatto Maurizio Maggiani a cogliere il senso di incredibile tristezza che viene dalle immagini dell’Ansaldo così come sono state di recente rievocate in una mostra fotografica allestita a Genova. Si respira in quel che ha scritto lo stupore nel ritrovare l’immenso passato industriale di una città ormai completamente scomparsa. Ma il suo stupore è forzatamente quello di un uomo che ha conosciuto Genova da adulto, già intaccata da una totale decadenza. Egli (come Arrigo Petacco) è nato a Castelnuovo Magra, simpatica cittadina che mi è cara perché per tante estati sono andato a presentarvi dei film diventando amico di due inarrivabili animatori culturali locali, Giorgio Baudone e Paola Moro (nella biblioteca comunale c’è anche un “fondo” a mio nome!). Ma per chi a Genova è nato e cresciuto l’emozione ancora più grande è la tristezza ancora più acuta. Nel giro di pochi decenni abbiamo assistito non solo alla scomparsa di una classe operaia che fu tipica in Italia ma anche a quella di più generazioni di imprenditori che, fra pregi e difetti, erano stati fra i protagonisti della storia non solo nazionale ma anche europea. Giorgio Calabrese, uno dei più famosi parolieri italiani (da Bindi a Mina a Aznavour), quando da giovane cercava di diventare un agente marittimo andava a giocare a bocce alle Mura dello Zerbino per poter incontrare così qualcuno dei grandi armatori del tempo. Questi (che avevano capito tutto) o gli dicevano: “guardi non è il caso” oppure si lasciavano andare: “so che ha qualcosa in testa me lo dica”. Lui faceva la sua proposta (un carico così e così, per il tale porto, dal tale giorno) e loro, il comportamento era eguale in tutti, ci pensavano un po’ e poi dicevano “No” e allora il discorso era fermamente chiuso. Oppure “Si, si può fare”. “Capisci” mi diceva Calabrese, “avrebbero fatto partire sulla parola di un ragazzo di venti anni, una nave da carico che valeva milioni e rendeva milioni”. E se io dicevo: “ma, Commendatore, e per il denaro?” la risposta era: “passi poi con comodo in ufficio”. Sono vissuto al Mercantile ai tempi di Ernesto Fassio e so di cosa parlo.
Dove sono finiti gli eredi di Rubattino, di Gaslini, di Piaggio, dei Perrone che fabbricarono i cannoni del 1918? So che non so rispondere.

(battute: 2.262)

9 dicembre 2013

NOTA INTEGRATIVA DELLA MIA RUBRICA PUBBLICATA SUL MERCANTILE

Qui di seguito troverete alcune precisazioni, le quali fanno riferimento al testo (pubblicato successivamente a queste righe introduttive a causa del meccanismo grafico proprio del Blog). Nell'originale mi stupivo della pronuncia sdrucciola di Cuperlo ma non avevo spazio per approfondire il tema (a causa del solito sbarramento delle 2.200 battute).

In realtà ho fatto qualche ricerca in internet e mi sono accorto che altri hanno avvertito la stessa perplessità. Vi è chi ha avanzato l’ipotesi che sia frutto dell’italianizzazione dello sloveno “Koper” o del croato “Kuper”, cioè Capo d’Istria. Altri pensano che l’originale fosse un cognome ungherese, anch’esso italianizzato a forza, come capitò largamente a Trieste durante il fascismo. In ogni caso l’unica città in cui si trova il cognome Cuperlo sembra sia proprio Trieste, dove l’uomo politico è nato.
Per quel che riguarda la collocazione come attore in uno sceneggiato seriale, bisognerà precisare che pensavo a qualche prodotto medio di Rai Uno, con la tradizionale mescolanza di scrupolo ma anche di approssimazione etnologica nell’attribuzione delle parti agli attori. La citazione di Dollmann come potenziale “rimando” a Gianni Cuperlo “attore” potrà sembrare maligna ma in realtà nasce solo dal desiderio di trovare un’attendibile equivalente “romanzesco”. Eugen Dollmann (1900-1985) fu in effetti un personaggio curiosissimo, confinato tutt’ora in una sorta di nube storiografica, in cui si mescolano realtà e fantasia. Sembra che all’origine non fosse particolarmente nazista (fra l’altro non aveva mai prestato servizio militare) ma è certo che Hitler lo nominò “standartenführer”, cioè Colonello delle SS, a quanto sembra conquistato dalle sue conoscenze della storia italiana, e in particolare della storia dell’arte. In origine si dice che si sia  laureato in filosofia, come lo è invece sicuramente Giuseppe Civati detto Pippo, il quale ha appunto conseguito il dottorato di ricerca, e in particolare sembra si sia prevalentemente preoccupato di filosofia risorgimentale. Ho terminato il mio articoletto dicendo che chiunque avesse vinto avrebbe comunque vinto il monoscopio, cioè l’immagine televisiva fissa che un tempo imperversava nel piccolo schermo e che probabilmente i più giovani non hanno mai visto. Non ci voleva molto a pronosticarlo: Renzi ha imperversato televisivamente da diversi mesi a questa parte, ed il meccanismo di “pescaggio”, tipico in casi del genere, è ancora una volta una riprova della fondamentale e decisiva importanza di una immagine micidialmente ripresa dal “piccolo schermo”.

L'OSSERVATORE GENOVESE

Abituale operazione del lunedì mattina per inserire nel Blog la mia rubrica domenicale sul Corriere Mercantile. Dato che, forse più di altre volte, la necessità di costringere il testo entro la gabbia delle 2.200 battute mi ha obbligato ad omettere qualche annotazione particolare, mi sono preoccupato di redigere, appunto nell'interesse stesso del Blog, una precisazione ed una conclusioni finali. 
Cordiali saluti a tutti

VISTO CON IL MONOCOLO

GLI UOMINI POLITICI E IL PASSAGGIO IN TV
Per ovvi motivi ho sempre tenuto la politica fuori dalla rubrica. Oggi faccio quella che potrà apparire un’eccezione, ma in realtà non lo è: solo un (ulteriore) riconoscimento dell’importanza decisiva della televisione nella nostra esistenza. In giornata (dalle 8 alle 20) avranno luogo le elezioni per l’assemblea nazionale e, soprattutto per il futuro segretario del PD. Io non ho mai avuto rapporti di nessun genere con il Club a cui i candidati sono iscritti, per cui le mie osservazioni nascono dal mio lungo passato di spettatore e di piccolo protagonista televisivo. In occasione dell’apparizione di Civati, Cuperlo e Renzi su Sky venerdì 29 Novembre bene ha fatto una vecchia conoscenza come Aldo Grasso (noto critico tv del Corriere della Sera) a recensire l’avvenimento al pari di ogni altra importante trasmissione in rete, dando ad ognuno di essi un triplice voto per “stile”, “linguaggio” e “contenuti”. Chi li ha visti “in scena” avrà colto l’estrema “normalità” televisiva del loro linguaggio e del loro comportamento. Consapevolmente o no essi si sono mossi con la precisione minuta e il calcolato abbandono di persone profondamente modellate dal piccolo schermo degli ultimi decenni. Hanno rivelato l’automatica dedizione degli attori di uno sceneggiato seriale. Il più anziano, Cùperlo (perché sdrucciolo?), anni 52, avrebbe potuto benissimo essere, ad esempio, un raffinato e colto gerarca nazista (ve ne sono stati alcuni) in stile Eugen Dollmann, ambigui testimoni di un impero in decadenza. Dei due “giovinetti” (hanno entrambi 38 anni) l’uno , Matteo Renzi, in preda alla obbligatoria disinvoltura dei toscani, fa pensare, per l’aggressiva scorrevolezza dell’eloquio, ad uno di quei protagonisti delle vendite “totali” di beni di consumo, tipiche un tempo delle grandi televisioni private. L’altro, Pippo Civati, appare totalmente progettato in funzione del piccolo schermo: barba disseminata, capelli controllati, gesti rattenuti. Due hanno accenti settentrionali e Renzi, ovviamente, quello fiorentino, quasi a prendere le distanze, con palese alibi culturale, dalle tonalità romano-meridionali di tanta televisione “bassa”.

Chiunque vincerà avrà comunque vinto il monoscopio.

3 dicembre 2013

L' OSSERVATORE GENOVESE

Solito rito del giorno dopo (questa volta sono due giorni dopo!) con la pubblicazione nel Blog della puntata domenicale della mia rubrica sul "Corriere Mercantile".
Approfitto dell'occasione per far presente a tutti quelli che hanno scritto (son ben 9) a proposito del mio ricordo di "Chicco" Pavolini (Savio), che prossimamente risponderò a tutti. In particolare faccio presente a Giulio Fedeli che il vecchio amico Baldo Vallero, per anni una colonna della cinefilia torinese, mi ha scritto proprio l'altro giorno per avere informazioni su un film di Helmut Käutner del 1946, uscito poi nel 1947 nella zona inglese della Germania post-bellica.
Come si dice, il mondo è piccolo.
Faccio anche presente a tutti che dei tre libri che mi hanno ossessionato in questi ultimi tempi, due sono di fatto terminati e consegnati agli editori (ci vorrà qualche piccola correzione ma si tratta di cose secondarie rispetto alla mole complessiva delle opere). Il terzo libro è tuttora "in lavorazione", e mi porterà via ancora molte ore di lavoro.
Tutto sommato dovrei disporre di più tempo libero per dedicarmi meglio al Blog, che negli ultimi mesi ho un po' trascurato.
Molti saluti a tutti.

VISTO CON IL MONOCOLO

I CALCIATORI COSTEGGIANO TUTTA LA NOSTRA VITA
Ancora una puntata di devozione calciofila (chiedo scusa in anticipo a Rosellina). Mi è capitato per caso di vedere un elenco dei 16 migliori marcatori (di reti) di tutti i tempi in serie A. E ho scoperto, a riprova della mia vecchiezza, che li avevo visti giocare tutti (i più anziani sul campo, altri in televisione. A riprova della misteriosa fascinazione che il calcio ha sempre esercitato sul maschio italiano medio (adesso anche su molte donne, giornaliste sportive comprese). Il primo in classifica è Silvio Piola (1913-1996) con 274 reti. Seguito da Francesco Totti (230), da Gunnar Nordhal (225), dal grandissimo “Peppino” Meazza (1910-1979) con 216 reti (meriterebbe un poema lui da solo). Vengono poi Altafini (216), Baggio Roberto (205), Kurt Hamrin (190), Signori (188), Del Piero (idem), Batistuta (184), Di Natale (180), Boniperti (178), Amadei (174), Savoldi (168), Gabetto (167) e Gilardino (165), uno dei pochi ancora in attività ed attualmente al Genoa. Il grandissimo Piola ha avuto una carriera così lunga che ho fatto ancora a tempo, nel primo dopo guerra a vederlo giocare nella Juventus e nel Novara. Le sue lunghe gambe prensili, quel suo stare con le spalle alla porta, la grande forza fisica e al tempo stesso l’estrema furbizia gli consentirono di giocare ad alto livello sino ai 40 anni. Totti è cosa ancora del giorno d’oggi, nota a tutti. Nordhal (ci rivelò l’eccellenza del calcio svedese di allora, insieme a Gren ed a Liedholm) impressionò per la forza fisica e la violenza del tiro, sintomi della buona salute fisica tipica di una giovinezza che non aveva conosciuto la guerra. E poi, via via tutti gli altri, ognuno dei quali è carico di una notevole quantità di ricordi, spesso legati ad un’Italia lontanissima e scomparsa. Da Boniperti che ho visto esordire (ha un anno più di me), straordinario insieme a Sivori ed a John Charles, ad Amadei, morto da pochi giorni (il 24 Novembre). Ricordo la sua voce al Ferraris che pregava i tifosi di fare un’offerta per chi era colpito dall’alluvione del Polésine, che egli ingenuamente pronunciava Polesìne. 
Da questi nomi, come da quelli di tanti registi molto amati, sento scaturire buona parte della mia esistenza.