Blog - Crediti


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27 novembre 2013

MA L'AMORE NO

Un omaggio che nasce dal cuore in memoria del caro amico Francesco Savio (Pavolini) detto "Chicco".

Cercando di mettere ordine nella mia bibliotechina casalinga, e via via schedando libri che non avevo mai neppure pensato di schedare, saltano fuori sorprese di ogni tipo. Alcune graditissime. Ad esempio pochi giorni fa mi è tornato tra le mani, dopo decenni, un libro di cinema molto importante, sia per l’argomento e il modo di trattarlo che per il rilievo assunto per la personalità dall’autore. Si tratta di un libro che è opera di un amico. Si intitola “Ma l’amore no”, edito da Sonzogno nel 1976, ed è corredato da un sommario giustamente esplicativo che dice: “Realismo, formalismo, propaganda e telefoni bianchi nel cinema italiano di regime (1930-1943)”.
Il libro non è soltanto, come ho scritto prima, molto importante ma è anche una testimonianza toccante di una presenza al tempo stesso amichevole e tragica. E cioè quella del suo autore, Francesco Savio (1923-1976), che me lo volle dedicare con una frase esageratamente lusinghiera: “al mio amico e maestro” firmata: “Chicco”, che era il diminutivo con cui solitamente lo chiamavano gli amici ( lo obbligai anche ad aggiungere alla dedica il mio nome e cognome, altrimenti la frase sarebbe parsa quasi incomprensibile) Chicco era appunto un personaggio straordinario, segnato da una fine terribile e proveniente da una famiglia su cui la tragedia si era già accanita. Il cognome Savio fu una sua invenzione per non usare quello vero che egli odiava ( me lo disse una volta: “Non usare quel cognome che io detesto”). In effetti si chiamava Pavolini ed era il figlio di Corrado Pavolini (1898-1980), che fu poeta (lo si avvicinò addirittura a Cardarelli), saggista,autore teatrale e sceneggiatore cinematografico. Penso sia stato fascista come quasi tutti nell’ambiente letterario e giornalistico dell’epoca, ma senza fanatismi. Il fanatico, in realtà, in famiglia c’era e fu quell’Alessandro Pavolini (1903-1945), fratello minore di Corrado, squadrista della prima ora ma anche scrittore elegante e colto che, in un soprassalto mortale di incontrollata faziosità, divenne durante la repubblica di Salò segretario del Partito Fascista Repubblicano. E fu fondatore di quelle Brigate Nere che della Repubblica sono state le truppe moralmente meno difendibili. La ventata rabbiosa di aggressiva ferocia che contraddistinse soprattutto la parte finale della vita di Alessandro Pavolini è rappresentata da mille avvenimento e da un “piccolo” aneddoto famigliare. La moglie di Corrado, e quindi la madre di Chicco, era ebrea e si chiamava Marcella Hannau (lavorò, poi, con lui, che ne era Caporedattore, in quella pubblicazione preziosa e purtroppo dissolta, che fu l’”Enciclopedia dello Spettacolo”). Nel 1944, ovviamente prima dell’arrivo degli alleati a Roma, Corrado Pavolini scoperse che Alessandro aveva in animo di fare arrestare la cognata (madre di Chicco) appunto perché era ebrea. Allora, secondo quello che mi raccontò egli stesso, suo padre chiamò il fratello al telefono e gli disse: “Ho saputo che vuoi fare arrestare Marcella. Facciamo una cosa: vieni in casa nel primo pomeriggio e troverai lei, me e i miei due figli, che sono i tuoi nipoti. Così potrai farci arrestare tutti insieme”. Evidentemente davanti ad una frase del genere perfino ad Alessandro Pavolini tornò momentaneamente la ragione e rinunciò all’arresto. Questo terribile passato aveva così profondamente segnato l’animo e la mente di Chicco che egli cercò in ogni modo di far dimenticare il suo vero cognome (non tutti, evidentemente, in famiglia hanno avuto la stessa sofferente sensibilità. Suo fratello Luca, conservando senza problemi il cognome Pavolini, fu un militante comunista ed arrivò sino a dirigere l’Unità dal 1975 al 1977). Infatti  Chicco (dopo aver frequentato l’Accademia e tentato la carriera d’attore) si rese noto come, critico e storico del cinema di alto livello appunto con lo pseudonimo di Francesco Savio. A questo titolo curò la Mostra di Venezia, alcune delle più belle retrospettive dell’epoca (in un mondo senza DVD e senza Youtube migliaia di film potevano essere visti solo dai fortunati frequentatori di Cineteche o presenti in alcune specifiche e preziose manifestazioni internazionali). E più largamente dedicò al cinema una minuta, semi-nascosta e straordinaria opera di analisi e di recupero. Moltissime sono le pubblicazioni e i temi che egli curò e sviluppò, mi limiterò a ricordare “Cinecittà anni Trenta” (nata dalla stessa ricerca che portò alla creazione del libro di cui sto parlando) quando negli anni ‘70 intervistò praticamente tutti i superstiti del cinema italiano del passato, lasciandoci una documentazione senza pari, frutto di scrupolo filologico ma anche di grande passione di parte. Oppure nella stessa ottica di ricerca uno straordinario libro in cui analizzò, gesto per gesto e movimento per movimento, molti film di Chaplin del periodo iniziale della carriera, per i quali non esistevano “trascrizioni scritte”. Furono mesi di furiosa solitudine davanti alla moviola negli uffici londinesi del British Film Institute (al punto che durante un periodo di ferie gli lasciarono addirittura le chiavi di un appartamento con tutti i tesori cinematografici contenuti). I suoi meriti per anni furono conosciuti e apprezzati soprattutto dagli appassionati, fino a quando, verso la metà degli anni ’70 raggiunse finalmente la notorietà che meritava, grazie ai suoi libri ed al fatto che ha ottenuto la rubrica cinematografica di un importante settimanale. Proprio in quel momento, nel 1976, egli si uccise. Se le notizie dell’epoca furono esatte lo fece con una decisione particolarmente sinistra, insinuando la testa nel forno a gas della cucina. Quasi a ribadire la vocazione mortale che avvelenava la famiglia, pochi mesi dopo si uccise anche sua moglie (che non ho mai conosciuto). Un particolare sinistro è che Chicco aveva evidentemente così a lungo meditato la sua morte al punto di preparare (ed evidentemente pagare, visto che venne pubblicato) il suo necrologio per il “Messaggero”. Esso cominciava con una frase spaventosa: “oggi Francesco Savio ha scritto la sua ultima recensione”…
Potrei continuare con i ricordi. Ad esempio ho visto al suo fianco, per diverse sere, nella sede romana dell’ANICA, tutti i documentari che il giornale LUCE aveva dedicato al fascismo: da quello, se ricordo bene ancora muto, sul matrimonio di Galeazzo Ciano con Edda Mussolini alle ultime puntate nell’estate del 1943: all’epoca la televisione non dispensava molto materiale del genere e quell’occasione, dovuta ad una benemerita iniziativa di Ernesto G. Laura, rimase indimenticabile per gli appassionati di recente storia italiana. Ma mi limiterò qui a parlare di quel suo libro, “Ma l’amore no” di cui ho fatto cenno all’inizio. Credo doveroso ricordare per i più giovani che era anche soprattutto il titolo di una famosa canzone che provocò molte lacrime (anche le mie, di studente di terza media, nel 1943, sfollato ad Arezzo) fra gli spettatori di un film del 1942 di Mario Mattoli, all’epoca notissimo: “Stasera niente di nuovo”. Interpretato da Carlo Ninchi e da Alida Valli, che in quell’occasione si improvvisò anche cantante, il film resta un esempio molto importante della quadrilogia di Mario Mattoli detta dei “film che parlano al vostro cuore” . Gli altri titoli erano “Luce nelle tenebre”(1941), “Catene invisibili”(1942), “Labbra serrate”(1942). Giustamente Chicco scelse quella canzone tipica, scritta da Giovanni D’Anzi (quello di “Oh mia bella Madunina”) come implicito riassunto di tutto un lungo momento della storia del cinema sonoro italiano, iniziato con “La canzone dell’amore” (1930) di Gennaro Righelli e terminato sostanzialmente con l’armistizio dell’8 settembre 1943. Come ribadisce lo stesso Savio “fra il 1930 e il 1943 sono stati prodotti in Italia- ma girati talvolta a Berlino, a Parigi, e in Spagna- 722 film a soggetto”.  Di fatto tutto un mondo (del cinema ma anche dell’Italia) si esaurì in quei 13 anni. I film censiti da Francesco Savio sono 720. Per 228 di essi i “dati tecnici sono stati desunti alla moviola dai titoli di testa, e cioè dalla stessa copia, positiva o negativa, nitrata o ininfiammabile”. Un lavoro enorme che consentii all’autore di fornire un quadro straordinariamente completo dei dati tecnici e artistici di ogni film e che poteva essere compiuto, di fatto di persona, sugli originali dell’opera. Un’ operazione che riusciva possibile a un numero relativamente basso di privilegiati. Pertanto nel libro i singoli film si trovano incolonnati in ordine alfabetico con note d’ambiente e critiche d’epoca.
Il che significa che, in ordine alfabetico da “Abbandono” (1940) di Mario Mattoli (con Corinna Luchaire, Maria Denis, Camillo Pilotto, Enrico Glori, Osvaldo Valenti) a “La zia smemorata di Carlo” (1941) di Ladislas Vajda (con Dina Galli, Osvaldo Valenti, Carlo Campanini), c’è tutto un mondo. E, soprattutto tutta l’Italia, che va da quella di Benito Mussolini, quasi ancora con le ghette, a quella dell’8 settembre, con lo stesso Mussolini rinchiuso all’Hotel Campo Imperatore, sul Gran Sasso, e Vittorio Emanuele III e Badoglio incolonnati per imbarcarsi, dopo la sosta a Crecchio presso i Duchi di Bovino,  sulla Corvetta “Baionetta” a Ortona a Mare, e raggiungere Brindisi. Il bello, il brutto, il banale, il servile, l’ovvio, il furbesco ma anche l’ingegnoso e il (quasi) geniale, che animarono il cinema italiano durante quei tredici anni decisivi sono tutti riassunti qui. Basta sfogliare il libro per provare un’emozione speciale e particolare. Che non riesco a restituire perché dovrei qui allineare decine se non centinaia di titoli. Operazione che non intendo fare adesso (non escludo di recuperarla in futuro, se vi fossero specifiche richieste dei lettori).
Il libro non avrebbe senso senza la sottile, raffinata, appassionata personalissima lunga introduzione di Francesco Savio, che si estende in corpo piccolo per più di venti pagine. Analizzarla tutta sarebbe affascinante ma troppo esteso, c’è anche un toccante rinvio ad una dolorosa storia di famiglia: suo nonno, Paolo Emilio Pavolini fu un famoso filologo e linguista, padrone di moltissimi idiomi dal Sanscrito al Finlandese. Membro dell’Accademia d’Italia lasciò la famiglia per una giovine e bella ragazza nordica e consegnò al nipote la sua tessera di libero ingresso in tutti i cinematografi d’Italia “per S.E. ed accompagnatori”: grazie ad essa Chicco portava al cinema tutti i compagni di classe. Parlava del nonno con grande tenerezza: “un’estate- mi disse una volta- volle insegnarmi il malese delle isole. Per quel che riguarda la decisiva introduzione al libro mi limiterò a riportarne qui le prime righe, che danno già il senso di quelli che erano l’animo e la tecnica, l’intenzione e l’applicazione di un autore raro e (tragicamente) solitario. Ecco dunque:
“Certo giorni mi chiedo se è decente parlare di un film senza averlo toccato almeno una volta, senza averne aspirato il profumo, o fatto pila delle sue bobine. Mi chiedo, anche, se non basterebbe aprire al pubblico le Cineteche, e tenervi delle visite guidate: a sinistra, secondo scaffale, il negativo di Darò un milione; a destra il controtipo positivo di Giacomo l’idealista e di Ragazzo. A misura che il tempo trascorre, ed i film cosiddetti da museo mi diventano d’anno in anno più fraterni, godibili e attuali, tutto questo gran discorrere del cinema come d’un fenomeno inscindibile dal suo contesto storico mi arreca un crescente imbarazzo. Eccoli, i film, verebbe da esclamare: sta tutto chiuso la dentro, nelle spire ravvolte intorno al “nucleo”. Non domandate loro altro segreto, se non quello custodito dall’emulsione. Ma è pur vero, e bisogna riconoscere, che un ombra delle antiche proiezioni resta come inchiodata ai fotogrammi (non so: la “coda” di un Giornale-Luce, di un Topolino o di un prossimamente); e che i film di una data temperie serbano l’eco, affievolita e impropria, di un costume, di un clima, di un gusto”.

Già da questo incipit si può cogliere l’impasto profondo di slancio poetico e di amore “tecnico” che reggevano la cinefilia di Chicco. In un’epoca in cui, non esistendo l’immenso mondo digitale, e con una televisione che stava appena abbandonando l’avarizia in fatto di cinema, il gusto fisico di maneggiare, scrutare, “aggiustare”, far scorrere la pellicola (“I film- aveva l’abitudine di dire- si vedono da soli e in moviola”) era determinante. E, come accadde con lui, lo strumento per far vibrare appunto intorno all’immagine l’infinito tremore della poesia.

25 novembre 2013

L'OSSERVATORE GENOVESE

Abituale recupero, al lunedì, della mia rubrica domenicale sul Corriere Mercantile. L'accusa di essere un "Laudator temporis acti" è una di quelle in cui più facilmente si incorre superata una certa età. Sarei curioso di sapere quali sono le opinioni dei lettori. Cordiali saluti a tutti.

VISTO CON IL MONOCOLO

FORSE È VERO /CHE È MEGLIO IL PASSATO?
Circa venti secoli fa Orazio, fra le tante cose geniali, diede anche origine ad un’espressione divenuta immortale. Un vecchio, egli scrisse, è assediato da molte insidie, opera timidamente, rimanda tutto e diventa “laudator temporis acti, se puero”. Cioè loda il tempo andato, quando era fanciullo, e depreca quello presente, sempre deludente. Ci cadono tutti i vecchietti, ed io come gli altri. Ma mi chiedo spesso se non abbiamo ragione a lodare il bel tempo che fu, in presenza dello sfascio totale che ha investito l’Italia di oggi quasi ad ogni livello (e, per venire a Genova in particolare, al dramma della AMT, che mentre scrivo queste righe, sta formalmente arrestando la città intera). Forse è per questo che ho cominciato a pensare al passato con maggior lucidità. Nel dopo guerra (io ho assistito a comizi di entrambi) De Gasperi e Togliatti divisero l’Italia con un’asprezza totale, contrapponendosi con una durezza che, vista adesso, restituisce ai due uomini una nobiltà shakespiriana: l’uno decisivo per il dopoguerra italiano, l’altro appesantito da un passato terribilmente ambiguo. Ma entrambi, a rivederli adesso, attori di primo piano di una immensa tragedia mondiale. Per venire più vicino a noi, ripenso a due uomini politici genovesi, che nello stesso modo furono nettamente contrapposti: Gelasio Adamoli (sindaco dal 1948 al 1951), Vittorio Pertusio (sindaco dal giugno 1951 al maggio 1960 e poi dal febbraio 1961 al febbraio 1965). Visti allora sembravano lodevoli ma modesti politici di provincia. Ripensati adesso acquistano una statura straordinaria, per quello che hanno rappresentato e per quello che sono riusciti a fare a Genova. Adamoli, (nato a San Potito Ultra, Avellino, cresciuto a Teramo, laureato a Genova e divenuto profondamente genovese nonostante un volto che faceva pensare ad un attore messicano d’epoca) si impegnò molto per la ricostruzione della città, e in particolare del Carlo Felice. Pertusio, avvocato brillante e simpatico, fu in realtà un amministratore di alto livello (si pensi alla Sopraelevata, che bene o male ha salvato la città, o a Corso Europa). Entrambi, rivisti adesso sembrano quasi due giganti.
O sono laudatore del tempo passato?

18 novembre 2013

A DOMANDA RISPONDE

Molti i commenti giunti dal 26 Settembre ad oggi. Ho cercato di rispondere a tutti. Nella lunga parte finale del mio testo troverete un mio sfogo, forse un po' ridicolo, a proposito dei miei "meriti" Rai su cui alcuni degli scriventi si soffermano affettuosamente ma che, a suo tempo, trovò nell'azienda una indifferenza totale, fra lo sprezzante e il crudele


Sono contento di vedere che è piaciuto il ricordo di Vincenzoni. Ringrazio Simone Storace per la segnalazione del link su cui vedere un’intervista con il nostro amico Luciano:


Ringrazio anche S.G, per l’indicazione del sito su cui ascoltare due puntate di Hollywood Party:

Passiamo ai commenti pervenuti il 27 Settembre. Sia Rosellina che Enrico hanno apprezzato la lettera di Pier (Luigi Ronchetti). L’idea che “la classe operaia va in Paradisino avrebbe strappato un sorriso anche a Volonté” mi sembra divertente, tenuto conto della programmatica cupezza del volto dell’attore. Un particolare su di lui mi ha sempre colpito. Egli è stato giustamente (forse a volte anche per motivi politici) molto popolare in Francia. Tante volte mi sono sentito dire: “un acteur italien que j’aime beacoup c’est Djan Maria Volònte”. Sempre il mio interlocutore faceva un terribile sforzo per non accentare l’ultima sillaba dell’ultima parola, pronunciandola appunto come se fosse stata scritta “Volònte” con l’accento sulla “o”. Non so perché ma questo errore, in gente che normalmente pronuncia tutti i cognomi italiani con l’accento sull’ultima sillaba (Mussolinì, Rossellinì, Paolorossì,), veniva compiuta sempre da tutti. Io mi affannavo a ripetere: “Il faut le prononcer Volonté, exactement comme le mot français” ma nessuno mi dava mai retta.
Passiamo adesso ai commenti del 4 ottobre. Vedo che tutti gli intervenuti (il Principe Myskin, Rosellina, Giorgio, Enrico e Luigi Luca Borrelli) hanno apprezzato l’omaggio a Giuliano Gemma. Faccio osservare al Principe che il grado di Gemma nel “Deserto dei Tartari” era probabilmente quello di “maggiore” e non quello di “maresciallo”, che è il grado più ambiguo di tutta la carriera militare. Perché può indicare sia il più elevato dei sottufficiali che il più elevato degli ufficiali. Talmente elevato che in molti eserciti non esiste neppure. Ad esempio da noi non c’è più il grado di “maresciallo d’Italia”, che fu tipico di Badoglio, Graziani, Messe, eccetera. Questo duplice significato giustifica un’arguzia che mi raccontava sempre mio padre. Quando, nella sua cittadina natale di Finale Ligure, il maresciallo Caviglia (forse il miglior generale italiano in assoluto) si recava alla stazione per prendere un treno, il locale maresciallo dei carabinieri vi si precipitava a sua volta per rendergli omaggio. E Caviglia lo salutava dicendo: “Buon giorno collega”. Fine dell’aneddoto militare.
Per quel che riguarda il 7 di ottobre ringrazio Rosellina, che è sempre troppo affettuosa e Giorgio. Per quel che riguarda il 9 di ottobre vedo che tutti (Rosellina, Eugenia Tarchini, Giorgio, Rita M. e Enrico) hanno gradito l’omaggio a Lizzani. Enrico ha rievocato la terrazza del Lido di Venezia. Presumo sia quella dell’Excelsior, dove ho passato tante ore e dove ho partecipato a diverse trasmissioni. Sono frammenti di un’esistenza, personale e professionale, che, per darmi in qualche modo una giustificazione, mi sforzo di ritenere che non sia stata completamente inutile.
Venendo ai commenti del 9 di ottobre ringrazio alcuni dei fedelissimi (Rosellina, Enrico e Rita M.) che hanno gradito l’omaggio a Marchesi. In particolare per quel che riguarda Marchesi e quel che Rita M. ha scritto a proposito di Oreste del Buono vorrei ricordare che fra tanti meriti di quest’ultimo non c’è solo quello del sostegno a Raymond Chandler ma più largamente a tanti nomi, momenti e frammenti delle narrative “basse” o intimamente “alte”, che da Oreste hanno ricevuto apporti critici ed editoriali definitivi per quel che riguarda il panorama italiano. Su di lui ci sarebbe da scrivere un romanzo. Basterebbe ricostruire il numero ed i nomi delle Case Editrici e delle Riviste  dove ha lavorato per avere un panorama quasi completo di tutto ciò che riguarda parecchi decenni dell’Italia libraria e giornalistica. “Io” si vantava spesso “sono l’uomo più licenziato d’Italia”. In realtà credo fosse spesso lui ad andarsene perché aveva un carattere giustamente puntiglioso. Mi ricordo i lunghi anni in cui ho avuto occasione di frequentarlo abbastanza spesso quando partecipavo, fra gli “esperti”, a quell’importante manifestazione sul poliziesco cinematografico e libresco che si chiamava “Mystfest” (significa “Mystery Festival”) di Cattolica. Aveva raccolto l’eredità del “Gran Giallo” inventato da Enzo Tortora e raggiunse una notorietà internazionale sotto la direzione prima di Felice Laudadio, poi di Irene Bignardi e infine di Giorgio Gosetti. Il quale Giorgio dirige ormai da molti anni, insieme a Marina Fabbri, il “Noir in Festival” di Courmayeur che, dopo una sosta a Viareggio, si è definitivamente stabilito in Val d’Aosta,  proseguendo appunto l’esperienza iniziata in Romagna e continuata poi in Toscana. È tutto un mondo del cinema e del giornalismo legati al Giallo e al Nero in cui sono vissuto per anni e che mi piacerebbe rievocare. Qualche anno fa mi sono imbattuto per caso in un cantautore che avevo conosciuto quando era un diligente liceale, che frequentava il cinema “Ariston” di Cattolica perché sua mamma era l’Assessore alla Cultura del comune. Si chiama Samuele Bersani. Forse tornerò sul tema che riguarda Del Buono e la ventura di quel genere che Alberto Tedeschi introdusse nel panorama librario d’Italia e che, dal colore delle copertine delle collane della Mondadori, venne chiamato “Giallo”.
Fra i vari commenti del 14 di Ottobre sono contento di vedere che il brano di Valerio Caprara su Lizzani è piaciuto. In futuro, sempre con il permesso dell’autore, ho intenzione di saccheggiare il suo sito in presenza di articoli di particolare interesse cinematografico. Ringrazio tutti per gli auguri per il mio compleanno e prendo nota di quel che mi scrive Enrico a proposito della notizia apparsa su Film Tv. Secondo la rivista fu addirittura Carlo Lizzani, definito “provetto ballerino di Boogie Woogie e di Twist” (ma quest’ultimo ballo, nato negli anni ’60, evidentemente non c’entra) a far da controfigura a Gasman nella sequenza di ballo in “Riso amaro”. Devo dire che è una notizia stupefacente.
Per quel che riguarda i commenti del 21 di Ottobre mi fa piacere che il brano di rubrica su “Le signorine dello 04” abbia destato interesse. In particolare per quel che riguarda Enrico ho appreso con stupore che, molti anni fa, era lecito telefonare dall’Inghilterra all’Italia a carico del destinatario (mi pare insuperabile la frase “es Milanopoli que non respond”). Ho sempre creduto che questo meccanismo, antico ed abituale da sempre negli Stati Uniti, esistesse in Italia solo per quel che riguarda le telefonate di lavoro a carico del numero telefonico di un giornale. Si chiamava il centralino dei telefoni, si diceva “signorina vorrei fare una R” (significava “rovesciata”) a carico del giornale “xyz” che ha il seguente numero “xyz”. La centralinista chiamava il giornale e se otteneva una risposta favorevole vi metteva in comunicazione. L’ho fatto per anni e anni e ho sempre creduto che fosse un privilegio professionale. Evidentemente mi sbagliavo.
Veniamo ai commenti del 28 ottobre (quando ero bambino si faceva festa a scuola perché era l’anniversario della “Marcia su Roma”!). Mi fa piacere che il convegno di Alessandria del 19 Novembre sul tema “Il cinema e la Prima Guerra Mondiale”, abbia destato qualche interesse. Non potendo partecipare di persona grazie a Lorenzo Doretti ho registrato un DVD di 46’. Una volta passato il giorno del convegno, lo riprodurrò nel Blog. Sempre del 28 ottobre sono i commenti che riguardano la nostalgia di Pizzul che era al centro di una puntata della mia rubrica sul “Mercantile”. Molto gradito il commento di Enrico che ricorda qualche frase tipica dei tele radiocronisti di un tempo, da Martellini a Ciotti (personaggio bizzarro a fianco del quale partecipai a ben due serie di puntate di una trasmissione di Gloria De Antoni e Oreste De Fornari intitolata “Pacem in terris”. Finite le riprese Ciotti era velocissimo nell’impadronirsi dell’unica automobile, con autista, a disposizione, per farsi accompagnare a casa lasciando con un palmo di naso, come si dice, me e quello straordinario personaggio del giornalismo italiano che è Giovannino Russo. Di questo ultimo mi piacerebbe riparlare. Gradite anche le rievocazioni di alcuni tipici “relatori” di “90o Minuto” (Bubba, Castellotti, Carino, Giannini, Necco, eccetera). Necco era un personaggio assolutamente bizzarro. Come cronista di calcio scivolava in tutte le possibili imboscate alla retorica, e se ricordo bene una volta, proprio a causa del calcio, fu “gambizzato”, come si scriveva allora, da una revolverata. Una volta ebbe occasione di partecipare con lui ad una trasmissione che non ricordo, ed ebbi la sorpresa di scoprire che era inattesamente colto. Mi dimostrò che aveva ragione lui a dire “sismo” e non “sisma”, come dicono e scrivono tutti, per la rigida derivazione della parola dal greco. E svelò un inaspettato interesse ed una inaspettata competenza in fatto di archeologia (anzi lui mi disse che era laureato in archeologia) ho fatto un rapido controllo in internet e ho scoperto che effettivamente condusse dal 1993 al 1997 la rubrica “L’occhio del Faraone”, per la quale ha realizzato e messo in onda 360 documentari e servizi sull’archeologia nell’area mediterranea (Pompei, Grecia, Egitto, Turchia, eccetera). Sembrerebbe anzi che sia riuscito a ritrovare il famoso tesoro di Troia rinvenuto nel 1873 da Heinrich Schliemann e che si riteneva fosse stato distrutto nel 1945 durante i bombardamenti di Berlino. Pare che Necco, con molte ricerche in tutte le aree orientali dell’Europa divisa dalla guerra fredda, abbia individuato i ladri ed il nascondiglio del tesoro di Schliemann, facendolo esporre nell’aprile 1996 nel Museo Puškin  di Mosca. Sul tema Necco ha anche scritto un libro, intitolato appunto “Giallo di Troia”.
Come vedete a questo mondo non si cessa mai di imparare qualche cosa.
Venendo ai commenti successivi registro la solita piacevole testimonianza di Rosellina a proposito di Luigi Magni (4 Novembre) e passo al 5 Novembre con molte graditissime testimonianze su di me (ancora Rosellina, Giorgio, bash, Enrico, Carlo Gatti, Rita M. e Giulio Fedeli). Per quel che riguarda quest’ultimo prendo sul serio la proposta di occuparmi di Frank Sinatra, che è una splendida testimonianza di una curiosa legge dello spettacolo. E cioè che si impara a recitare recitando. È un’esperienza fondamentale che lo avvicina ad un altro famoso “canterino”, Yves Montand (curiosamente anche egli di origine italiana),  il quale come cantante fu bravo quasi subito mentre come attore imparò praticando il mestiere. Agli inizi era pessimo e alla fine della carriera era diventato un interprete sottile, complesso,  intenso e raffinato, contribuendo a darci dei ritratti di alto livello dell’uomo francese medio-alto soprattutto per ciò che riguarda gli anni ’70 (nato nel 1921 morì nel 1991).
Visto che la maggior parte degli interventi sono occasionati dalla pubblicazione dell’e-mail dei signori Clavarino e Bassi a proposito dei miei meriti professionali nei miei ventiquattro anni di Rai, colgo l’occasione per evocare (credo che sia la prima e probabilmente sarà anche l’ultima volta) il momento doloroso, e quasi umiliante, del mio rapporto con l’azienda nell’ultimo periodo di lavoro. È un argomento che cito con imbarazzo, perché in fondo ero e sono rimasto affezionato alla Rai, ma che è richiamato da una mia lettera del 21 Maggio 2008 al professore Pier Luigi Celli allora Direttore generale della L.U.I.S.S. ma in passato Direttore del Personale della Rai (i burocrati hanno inventato l’espressione Direttore delle Risorse Umane, espressione che mi fa rabbrividire come se evocasse un campo di concentramento). Nella lettera, che sembra non sia mai stata ricevuta, si fa cenno ad un mio articolo apparso sul Secolo XIX, con cui allora collaboravo, ed a Celli se ne spedisce copia insieme alla mia e-mail. Per non farla troppo lunga mi limito a riportare qui la sola lettera a Celli, che bene o male coglie il cuore del problema. E cioè il modo indegno con cui l’azienda, pochi mesi prima che io compissi i sessantacinque anni previsti, dal contratto giornalistico, si liberò di me quasi fossi un peso morto. Contemporaneamente nei confronti di una persona politicamente più gradita come Angelo Guglielmi-mese più o mese meno è mio coetaneo- il suo contratto era stato automaticamente prorogato di due anni. Naturalmente il professor Celli non mi ha mai risposto (forse non gli è mai pervenuto nulla) e in fondo io me lo aspettavo. La sua responsabilità, come Direttore delle Risorse Umane (!), era ed è evidente. E le sue frasi, che io richiamo esplicitamente nel testo, riguardavano un suo intervento in un dibattito, in cui avevo appunto dichiarato che lui e gli altri dirigenti giunti alla Rai intorno al 1993, avevano, si, “salvato il bilancio, ma distrutto l’azienda”. Alludendo appunto all’epurazione indiscriminata che era stata effettuata negli alti gradi considerati in blocco responsabili della crisi (quando, spesso, erano invece quelli che avevano tenuto in piedi la Rai grazie ad una professionalità duramente acquistata nel corso degli anni).
Ecco qui dunque il testo della mia e-mail del 21 Maggio 2008 ( a cui ne ha fatto seguito un’altra del 4 Giugno che qui tralascio per brevità e per non creare confusioni). Anche il testo dell’e-mail che riproduco contiene evidentemente ripetizioni rispetto a ciò che ho scritto adesso, ma preferisco lasciarle invece di mettere tutto a soqquadro inseguendo complicate cancellature.

Genova, 21 Maggio 2008

Egregio Prof.
Pier Luigi Celli
Direttore Generale
L.U.I.S.S. “Guido Carli”
Viale Pola, 12
00198 Roma





L’anno scorso, quando vennero rese note le sue dichiarazioni riguardanti il disastro che la classe dirigente di cui faceva parte aveva causato alla RAI nell’intento di pareggiare le finanze, pubblicai nel “Secolo XIX” l’articolo che qui le allego in fotocopia. Mi sono procurato anche la registrazione della sua frase, pronunciata per radio, il cui senso è: “Abbiamo salvato il bilancio, ma abbiamo distrutto la RAI”.
A suo tempo spedii la fotocopia dell’articolo a diverse persone e decisi di non mandarglielo per una sorta di delicatezza, visto che a un certo punto si parlava di persone chiamate i di lei “scherani”. Adesso leggo che si fa di nuovo il suo nome come direttore generale della RAI ed a questo punto voglio togliermi la soddisfazione, supposto che lei ne abbia voglia, di farle leggere quel che avevo scritto (…) e vada alla sostanza. Per rendersi conto che dopo quattordici anni la ferita è ancora viva. Sapevo di aver portato all’Azienda un contributo decisivo e, in particolare per quel che riguarda RAIDUE, in tredici anni da capo-struttura, di aver collaborato in modo determinante alla saldatura del palinsesto (vi fu un periodo in cui fornivo dal Lunedì al Venerdì il 60 % dei programmi, ed eravamo sei strutture in organico!). E ancora oggi ricordo per contrasto la furiosa incertezza degli ultimi mesi, il vuoto di impegni e di ordini che aveva preso subitamente il posto del lavoro ossessivo svolto per quasi ventiquattro anni…al punto che accettai di andar via in estate, anziché a Ottobre – sono nato il 17 Ottobre del 1929 – solo per finirla al più presto. Parlai con lei in tutto una sola volta – mi ricevette usando contemporaneamente due telefoni – e non mi concesse più attenzione di quanta avrebbe potuto pretenderne il portatore di un giornale gratuito.
Da allora figuro negli archivi della contabilità RAI come “beneficato” (o qualcosa di simile) ed ogni volta che ho collaborato per molti programmi di RAITRE ho dovuto, ormai pensionato, invocare uno speciale intervento riservato al direttore generale, ultimo tocco di umiliazione.
So di aver contribuito in modo decisivo a riequilibrare il bilancio di RAIDUE – solo lo share della soap-opera l’ho portato da 200.000 contatti a più di 5.000.000 – senza che nulla l’Azienda facesse per aumentarmi in maniera significativa la retribuzione (ricordo che mi venne concesso un aumento importante soltanto quando il mio ex-direttore Mimmo Scarano cercò di portarmi via dalla RAI per andare a lavorare in un network, che peraltro fallì clamorosamente). Del resto entrai alla RAI nel 1970 come capo-servizio giornalistico e ne uscii ventiquattro anni dopo come capo-redattore!
In realtà non so bene perché le scrivo, ma curiosamente sento ancora intorno a me i favori, e vorrei dire l’affetto, di un pubblico molto ampio formato da adulti, che erano poco più che bambini quando presentavo i film in televisione (ed era appena la punta dell’iceberg di un enorme lavoro di ufficio che solo potevano intuire gli addetti ai lavori). Ma anche da giovani che non si sono ancora arresi all’idea che il cinema sia usato alla RAI con gli stessi criteri con cui a Genova si avvolge l’untuosa focaccia in una rugosa carta gialla... È proprio il peso toccante di questo quieto ma stringente riconoscimento che in certo senso mi induce a guardare al mio passato con un minimo di orgoglio, respingendo il sapore di sconfitta e di disprezzo che si respirava al terzo piano di Viale Mazzini, dove – come lei ricorderà benissimo  - era collocato il Servizio Personale. Al punto che gli amici della Cineteca Comunale di Bologna vorrebbero dedicarmi una “personale” con i film che ho importato, e fatto doppiare, nel mercato italiano, come puro esempio di un lavoro che nessuno mi aveva richiesto, ma che è una testimonianza della dedizione di cui si nutriva il nostro rapporto con l’Azienda.
Mi auguro che questa lettera inutile sia meno inutile di quanto possa sembrare e che, nel caso di un suo ritorno alla RAI, lei sia in grado di evitare, almeno in parte, gli errori del passato.

Claudio G. FAVA


L'OSSERVATORE GENOVESE

In omaggio alla tradizione pubblico nel Blog la mia rubrica domenicale sul "Corriere Mercantile" del 17 Novembre. Colgo l'occasione per far presente che la puntata precedente della rubrica, centrata sulla figura di Anna Maria Cancellieri, ha riscosso solo pareri negativi. A leggere le cronache di Lunedì mattina si direbbe che per la Sig.ra Ministro le cose si mettano male. Per quel pochissimo che vale, la mia simpatia è rimasta immutate e, salvo clamorose smentite del futuro, lo rimarrà.
p.s.
Mi sembra doveroso far presente che le parole in genovese contenute in "Un' Italia tutte di colf e di badanti" possono destare qualche imbarazzo in chi genovese non è. Per una lettura corretta del testo ricordo che, per una convenzione adottata da molto tempo, e che mi ha sempre lasciato perplesso, la lettera "o" deve in realtà leggersi "u", e quindi "Son" si legge "Sun". C'è un altro problema più comprensibile. Esiste in genovese un suono equivalente a quello del francese "j", come in "je", "jour", "jeunesse", eccetera. Tuttavia non si poteva trascriverlo usando la "j", perchè in italiano essa deve leggersi come la "i" normale, e sicuramente sarebbero nati dei malintesi. Allora si è deciso di rappresentarlo con la lettera "x". Che va appunto letta come la "j" francese prima ricordata. Un esempio tipico è una parola che è nel testo della canzoncina. E cioè "caxo", che significa "caso" e dove, pertanto, la "x" si legge come la "j" francese e la "o" si legge "u". Per fare un esempio paradossale Nino Bixio dovrebbe leggersi "Nino Bijo".
Spero di non avervi confuso troppo le idee e passo a ben distintamente salutarvi.

VISTO CON IL MONOCOLO

UN’ITALIA TUTTA DI COLF E DI BADANTI
Durante la guerra, sfollato in campagna fra Novi e Gavi, leggevo molti libri e sentivo molti dischi. La canzone sul retro del famoso “Ma se ghe penso” di Mario Capello s’intitolava “Ciassa de Pontexello”, cioè Piazza di Ponticello (ora è Piazza Dante). Con al centro una fontana, il famoso “Barchì”, ospitato a Piazza Campetto. La seconda strofa della canzone diceva letteralmente: “A dumenega adunansa de servette invexendè/ son vestie cun elegansa, e son tutte profumè/Pontexello, feghe caxo, a diventa trasformâ, in Monteuggio, Breummia (Bromi, frazione di Montoggio), Traxo (Traso, frazione di Bargagli), Martin d’Orba (San Martino d’Orba), Uè (Orero), Arquà (Arquata)”. E concludeva: “Cossa dixe anche a ciù bònn-a? Dixe mà da seu padronn-a”. Per ragioni di spazio non posso allegare anche la traduzione (è stato prezioso l’aiuto linguistico di Maria Vietz). Quel che mi sembra importante è che quell’elenco di piccoli paesi, a volte frazioni di paesi, situate o in Liguria o in Piemonte, è quasi automaticamente indicato come luogo di origine delle cameriere. Chi è vissuto all’epoca sa che questo è rigorosamente vero. Come in tutte le grandi città anche a Genova esse venivano dai paesini dei dintorni: vi esisteva all’epoca un proletariato, prevalentemente contadino, che sino agli anni ’50 ha fornito la base del mercato del lavoro “fisico” d’Italia. Non vorrei sembrare nostalgico di una società padronale che, come si dice, i tempi hanno mutato o annullato. Ma è certo che la sostanziale sparizione di uomini e di donne pone un interrogativo non casuale. Cosa è successo? Le famiglie da cui le cameriere di Piazza Ponticello provenivano sono totalmente scomparse? Anche se le nascite si sono ridotte il destino di centinaia di migliaia di uomini e di donne rimane misterioso. Hanno tutti e tutte rifiutato in blocco un lavoro servile divenuto umiliante nella considerazione dei più? Si sono tutti laureati in filologia romanza o in ingegneria elettronica? Nella pratica della vita italiana il loro posto è stato occupato da immigrati dei due sessi: Peruviani, Ecuadoriani, Ucraini, Filippini, Rumeni e Moldavi, un popolo intero di badanti che tiene in piedi un’Italia invecchiata e misteriosa.

11 novembre 2013

L'OSSERVATORE GENOVESE

Come al solito al Lunedì ecco la rubrica della domenica del "Corriere mercantile". Questa volta la puntata riguarda la "Cancellieri di Ferro" e non so se tutti saranno d'accordo (meglio così, sia detto incidentalmente). Dopo la rubrica provvederò a rispondere ai numerosi post giunti in questo ultimo periodo. Intanto cordiali saluti a tutti.

VISTO CON IL MONOCOLO

QUEL SORRISO UN PO' COSI' DEL MINISTRO CANCELLIERI
Non so come finirà questa lotta (un po’ goffa) sulle colpe teoriche della Signora Cancellieri Annamaria. Ma mi pare giusto dire che fra i protagonisti politici di questi ultimi anni è quella che mi è apparsa la più simpatica. Io ho abitato a Roma 25 anni e so quanto possano essere antipatiche certe donne (le impiegate ministeriali che escono dall’ufficio nell’orario di lavoro e vanno a fare altezzosi acquisti gastronomici, oppure  le borghesucce lamentose che sembrano perennemente colpite da catastrofi apocalittiche). Ma so anche quanto possano essere autentiche certe popolane ricche di buon senso e certe medio-borghesi pacate ma ferme nel carattere. È appunto la sensazione che comunica la signora Cancellieri, di cui fino adesso sapevo soltanto che era stata Prefetto a Vicenza, a Bergamo a Brescia, a Catania e per un anno, prima di andare in pensione, a Genova, dove sembra che se la sia cavata benissimo. Così come ebbe risultati positivi da Commissario straordinario a Bologna e a Parma. Ha giusto settant’anni (è nata a Roma il 22 Ottobre del 1943), l’atteggiamento ed il sorriso sono tipicamente capitolini ma privi del potenziale supplemento di beffa così fortemente avvertibile in tanti romani. Può darsi (non sono in grado di dirlo) che abbia avuto qualche gentilezza eccessiva verso la famiglia Ligresti, ma dà comunque la sensazione di appartenere a quella minoranza di servitori dello Stato che lo Stato lo servono veramente. Paragonate il suo sorriso a quello di tanti altri suoi colleghi o avversari, e poi tirate le somme: Monti sembra sempre in procinto di presiedere distrattamente una seduta di laurea, Enrico Letta ha il volto precocemente invecchiato del primo della classe che ha imparato il francese a Strasburgo, in piena Alsazia, Alfano è costretto dalla conformazione del volto a sorridere troppo spesso, Epifani esplica il sorriso faticosamente benevolente ereditato dalla CGL, Rosy Bindi dà sempre l’impressione di essere fortemente irritata perché ha dovuto troncare a metà la recita dell’Ave Maria.

Rispetto a loro Anna Maria Cancellieri emana la stessa bonomia persuasiva che fu tipica di Aldo Fabrizi e la stessa astuzia romana a fin di bene di Marisa Merlini.

5 novembre 2013

AFFETTUOSA TESTIMONIANZA DI UNO SPETTATORE DI ALTRI TEMPI

Ho ricevuto al mio indirizzo e-mail (che è riportato nella mia rubrica sul Mercantile) una lettera molto affettuosa di un mio spettatore televisivo dei vecchi tempi. Gli ho chiesto l'autorizzazione di pubblicarla nel Blog e lui me l'ha data, pregandomi anche di aggiunger alla sua firma quella di sua moglie.
Ecco dunque la sua lettera

Buongiorno, dottor Fava.
Ho trovato il suo indirizzo di email sul Corriere Mercantile.
Mi è parso irrinunciabile scriverle due righe, a nome mio e di mia moglie,
perchè siamo entrambi suoi antichi ammiratori.
Ricordiamo ancora con piacere le sue introduzioni ai film sulla RAI,
specie quelli parte di cicli memorabili.
La nostalgia è certamente per quelle serie di film ormai introvabili, a
fronte di demenziali programmazioni di cui non si capisce il senso; ma ci
mancano molto i suoi commenti pacati, acuti e dotti. Un vero piacere
culturale di cui ancora serbiamo chiarissima memoria.
Tutto qui.
Lei sappia che c'è almeno una famiglia italiana in cui Cludio G Fava è
sinonimo di competenza e buon gusto.
Pensavo le potesse far piacere.
Distinti saluti.
Alberto Clavarino, Elisabetta Basso.


4 novembre 2013

L'OSSERVATORE GENOVESE

Solito apporto del lunedì mattina: ecco il testo della mia rubrica domenicale sul "Corriere Mercantile". E' un periodo in cui mi occupo del Blog con forzata lentezza, ma in cui mi sto comunque cercando di creare per voi qualche cosa di più corposo della rubrica.
Cordiali saluti a tutti.

VISTO CON IL MONOCOLO

LA ROMA AUTENTICA DI LUIGI MAGNI
Ormai da parecchie settimane ho varcato il confine del primo anno di durata di “Visto con il Monocolo”: rarissimamente, se non in modo quasi occasionale, mi sono concesso citazioni e notazioni cinematografiche (è una specializzazione, chiamiamola così, che ho coltivato per tutta la vita, e non ho perciò voluto invadere i confini della rubrica). Ma oggi voglio fare un’eccezione commemorando un uomo che è morto pochi giorni fa (esattamente il 27 di Ottobre) e che per tutta la sua esistenza è stato appunto un uomo di cinema. Si tratta di Luigi Magni (era nato il 21 Marzo 1928): regista, sceneggiatore e occasionalmente anche autore teatrale e televisivo. In un cinema stabilmente radicato a Roma a partire dagli anni ’30, l’uso del romanesco come “koiné” popolar-furbesca, e la collocazione romana degli sfondi dei personaggi, sono diventati ormai da decenni uno stanco luogo comune del nostro cinema. È una cosa che mi ha sempre profondamente infastidito, anche se credo di aver sempre giudicato il “fenomeno Roma” nel cinema con una certa equità (non per nulla ho scritto un libro, diverse volte ristampato, su Alberto Sordi). Tuttavia ho sempre pensato che in mezzo a tanta Roma e a tanto romanesco d’accatto e di convenzione vi fosse solo un regista (oltre che diversi attori) in cui l’uso del vernacolo e la scelta degli sfondi capitolini apparissero totalmente giustificati. Si tratta appunto di Magni che, nonostante un cognome prevalentemente lombardo, era e si sentiva romano dalla testa ai piedi e pensava in romanesco (anche se poi parlava un italiano molto corretto) ha diretto le cose migliori evocando e rievocando una Roma puntigliosamente anti-papalina, immersa in un uso totale del romanesco. Dal suo primo lungometraggio, “Faustina” (1968) a l’ultimo, “La Carbonara” (2000), passando attraverso “Nell’anno del Signore” (1969); “Scipione detto anche l’Africano” (1971); “In nome del Papa Re” (1977); “Arrivano i Bersaglieri” (1980); “State buoni se potete” (1984); “In nome del popolo sovrano” (1990), eccetera, l’intera sua opera è immersa in questo esplicito gusto rievocativo. Nella sua parola (egli fu sempre con me gentilissimo) Roma era sempre, ma non fastidiosamente, presente.