Blog - Crediti


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30 agosto 2013

A DOMANDA RISPONDE

Rispondo qui ai numerosi "commenti" giunti sul Blog durante il mese di Agosto.
Spero di non aver dimenticato nessuno e che, comunque, se avrò commesso degli errori, "mi corriggerete".
Benedizioni a tutti.



Rispondo in ordine di data, cominciando ovviamente dai più “anziani” ai post che mi sono giunti nel mese di Agosto. 
Il primo di Agosto, per l’articolo “Esiste l’anti-sionismo degli ebrei”, ho pubblicato una nota di SG che depreca l’uso di chiamare alcune persone con il titolo della funzione più recentemente esercitata (tipicamente “Presidente” per chi è stato Presidente del Consiglio). È un uso non solo italiano ma sicuramente anche francese (anche da loro i “Monsieur le President” si sprecano). E forse anche di altri popoli latini (non ne sono sicuro). In particolare nel caso di Sergio Romano chiamarlo “ambasciatore” è, mi pare, un giusto riconoscimento del fatto che la carica che ha rivestito in Russia (lei mi dice per soli tre anni) è il punto di arrivo di una carriera perseguita dopo aver vinto ad un concorso al Ministero degli Esteri e via via ribadita grazie a progressivi miglioramenti di “status” (segretario di Legazione, Consigliere di Legazione, eccetera). È quindi la dimostrazione che il soggetto in questione ha percorso onorevolmente una carriera sino al gradino massimo. È un po’ quello che capita con i militari. Il generale Rossi che va in pensione appunto con il grado di Generale (molto spesso è un Colonello promosso proprio in funzione del cosiddetto trattamento di quiescenza) come lo vuole chiamare: “signor Rossi ?”. Nel rivolgersi a lui si usa la gentilezza di ribadire la preventiva esistenza di una carriera che ha avuto una serie di scatti, si presume meritati. Da Sottotenente a Generale di Brigata sono, per l’esattezza 7. E vengono riepilogati tutti nell’appellativo. Per quello che riguarda gli Stati Uniti non saprei dare una risposta, anche se mi sembrerebbe curioso udire un giornalista rivolgersi a Clinton chiamandolo “Mister Clinton”. Ma non escludo che questo accada in omaggio alla diversa colloqualità della lingua inglese (e americana). In cui, data l’esistenza di un solo pronome, il “voi” e cioè lo “you”, è molto facile che il vostro interlocutore vi richieda di “dargli del tu” e, cioè, di chiamarlo con il nome proprio.
Per quel che riguarda Enrico, gli faccio osservare che la “letale efficienza dell’esercito israeliano e dei suoi Servizi Segreti” come scrive lui stesso fu indubbiamente un motivo di stupore e di ammaestramento dalla nascita dello Stato di Israele (1948) sino ai primi anni settanta, quando si impose in tutto il mondo il mito dell’infallibilità del “Mossad”. E cioè del più importante, a carattere civile, dei tre Servizi specializzati israeliani (gli altri due sono, come è noto, il Servizio militare, l’Amman, e quello propriamente destinato al contro-spionaggio, lo Shin-Bet). Dopo di allora anche le spie israeliane hanno dovuto, far registrare come tutti i “Servizi”, qualche colpo a vuoto, essendo composte da esseri umani.
In quanto a Luigi Luca Borrelli mi fa piacere apprendere che il film di Renoir che egli ama di più (io propendo sempre per “La grande illusione”) è “La regola del gioco”. Se egli lo ha visto in italiano il merito è mio perché è uno dei tanti film stranieri che non erano stati importati nel nostro paese e che io ho fatto acquistare e doppiare dalla Rai (non ho mai avuto l’autorizzazione di allestire almeno una edizione “parallela” in originale con i sottotitoli italiani). Sul tema si veda la mia rubrichetta “Salvate la Tigre”, che ho tenuto per circa un anno su Film TV, e che riguardava appunto i “recuperi” di film da me operati alla Rai, a diverso titolo (film totalmente inediti in Italia, da me importati, doppiati e trasmessi. Oppure film manchevoli di alcuni frammenti, da me recuperati, eccetera). Non mi è stato più chiesto di continuare “Salvate la Tigre”quando è stato sostituito, come direttore, Aldo Fittante, il quale aveva inventato la rubrica, titolo compreso; andandosene via, aveva chiesto la mia solidarietà. Che mi è parso doveroso concedergli, anche se non l’ho mai incontrato di persona ed ho avuto con lui contatti solo telefonici.
Mi fa piacere che Rosellina ami “La grande illusione”.
Per quanto riguarda “Bollicine” gli dirò che la sua stessa perplessità nel parlare al telefono con le redazioni dei grandi giornali l’ho avvertita anche io parecchie volte. Soprattutto con quelli di importanza nazionale con i cui redattori è di fatto possibile parlare se si conosce un numero interno, con il cosiddetto “passante”. Un tempo non era così. Il collegamento telefonico è forse più facile con i piccoli, e spesso antichi, quotidiani di provincia. Confesso che la prima volta che andai per lavoro negli Stati Uniti, negli anni ’80, confesso che rimasi sbalordito dall’efficienza totale di tutti i centralini immaginabili. Dopo pochi secondi che il telefono squillava ecco subito una precisa voce femminile che diceva “Can I help You ?”. Non so come funzionino le cose adesso nell’era dei “telefonini” ma forse l’antica caratteristica si è mantenuta. 
Passiamo ai commenti del 5 di Agosto, dovuti al brano “Claudio- disse mia moglie- c’è Berlusconi al telefono”. Rosellina dice che preferisce i termini “esterrefatta” e “incredula” di fronte alla carriera di Berlusconi. Per onestà vorrei precisare che essi testimoniano della stupefazione che provai, soprattutto nei primi anni, di fronte alla “incarnazione” politica di un uomo che avevo conosciuto, soprattutto attraverso i suoi aiutanti, come un abile e spregiudicato avversario nei mercati internazionali. Sono aggettivi in cui la stupefazione è palese ma che, non implica necessariamente, la deprecazione.
Enrico è ancora più a disagio di quanto non lo sia io di fronte  a tante caratteristiche pubbliche e semi-pubbliche del nostro paese.
In quanto a PuroNanoVergine gli faccio osservare che in trent’anni la realtà del panorama televisivo nazionale è profondamente cambiata, come del resto tutta la società italiana (che, ad esempio, nel giro di tre decenni ha scoperto l’utilità immediata del massacro familiare, in una nazione che mi sembra in testa all’elenco degli assassinii più feroci e più imprevedibili).
Per questo non so se la incredulità che desta in lui l’invenzione di un ciclo di film sulla psicanalisi in prima serata con dibattito, sia del tutto riconducibile alla perversa concorrenza dei privati e particolarmente di Mediaset (Ex Fininvest). Semmai la colpa risale in modo netto (ho vissuto tutto quel periodo terribile e so di cosa parlo) ai vari Governi della Repubblica. L’Italia (contrariamente alla Francia, alla Gran Bretagna, alla Germania, eccetera) è passata dal monopolio più rigido e intransigente alla libertà televisiva più sfrenata nel giro di una notte. Senza, cioè, che venissero tempestivamente apprestati quei blocchi, quei puntelli, quelle garanzie giuridiche e burocratiche che in altri paesi hanno consentito il passaggio da un regime, sicuramente più funzionale ma anche totalmente assurdo, ad un altro più ricco di libertà e di concorrenza. Da noi si è passato da una sorta di mono-televisione plumbea ad un mondo in cui tutti quelli che riuscivano ad allestire uno studio o a manovrare un tele cinema trasmettevano quello che volevano. Senza il minimo riguardo per nessuno e per niente, compresi i diritti televisivi più rigidi (essenziali per la tutela della proprietà per lo sfruttamento delle singole opere). Berlusconi si è abilmente insinuato in un universo televisivo nazionale fatto tutto di screpolature ed ha immediatamente compreso, da vero uomo d’affari, come si andava configurando un mercato nuovo, stravolto nelle sue iniziali forme tradizionali. Non è un caso che egli dovette intervenire per salvare letteralmente una Rete Televisiva della Mondadori che stava mandando a bagno l’intera casa editrice (è quella Rete Quattro il cui Telegiornale fu per anni riservato alle esibizioni di Emilio Fede). 
Passando ai commenti del 12 di Agosto (dopo la pubblicazione di “Un giorno o l’altro impareremo l’italiano anche noi”).
Vedo che Rosellina Mariani può intervistare persone che sono al tempo stesso “toscane e intelligenti”. Me ne compiaccio. Sono gradite anche le variazioni toscaneggianti di cui si compiace Enrico. “Ti do una labbrata” non è solo fiorentino. Mi ricordo che Alfredo Biondi (genovese e genoano di elezione ma pisano di origine) una volta citò l’espressione attingendo ai suoi ricordi infantili. In quanto ai toscanismi ostentati da Vianello e Tognazzi me li ricordo anche io (“Taracchi te tu t’attacchi” è rimasto fondamentale). Non so le loro voci quanto apparissero completamente attendibili alle orecchie di un toscano vero, ma è certo che si tratta di uno di quei tanti risvolti della comicità italiana anni ‘60/’70, che sembrano addirittura geniali rispetto a quella odierna. La cosa curiosa è che Vianello era, si romano ma di famiglia credo veneta (era figlio di un ammiraglio), Tognazzi era cremonese e un terzo complice, Valter Chiari, era, si, figlio di pugliesi ma nato a Verona e cresciuto a Milano. C’era nella comicità “dialettale” del tempo una componente settentrionale (che arrivò sino a Tino Scotti, “ghe pensi mi!”, “ghe” nome, “pensi” cognome, “mi”, MI, targa, Milano!). Adesso che ci penso mi pare che i primi tre, fra i migliori della loro generazione, abbiano aderito tutti alla Repubblica Sociale Italiana, e, in qualche caso, credo con entusiasmo. Mi sono chiesto tante volte come la cosa abbia potuto succedere (basti pensare alla macchietta goffamente fanatica di militante fascista disegnata da Tognazzi- inaspettatamente a fianco di un grande del teatro francese, Georges Wilson, dal nome irlandese da parte di madre-  ne “Il Federale” di Salce). 
Veniamo adesso ai commenti del 16 di Agosto. Mi fa piacere che PuroNanoVergine abbia avuto la possibilità, grazie al Blog, di approfondire l’esistenza di Michel padre di Jacques Audiard! Ringrazio Rosellina per il suo perenne interessamento a quel che scrivo. Per quel che riguarda Luigi Luca Borrelli (mi fa piacere che citi un critico finissimo come André Bazin, di cui nessuno si occupa più ormai) e la sua curiosità su “Colpo Grosso al Casinò”, mi risulterebbe che “Colpo Grosso al Casinò” (“Mélodie en sous-sol”) sia stato girato in bianco e nero e nel 1994 sia stato, come si dice, “colorizzato”. Sembra che questa ultima edizione sia stata amputata di ben 14 minuti rispetto a quella originale. Sembra anche che la copia “colorata” sia stata trasmessa in televisione per la prima volta nel 1996 su Canal+. So che negli anni ’90 ebbe una certa voga in America (e forse, per imitazione, anche in Europa) l’abitudine di “colorare” le pellicole in bianco e nero in modo da farle accettare ad un massiccio pubblico nuovo. Composto in gran parte da persone che avevano fatto qualche piccolo sacrificio per comprarsi un televisore a colori e che consideravano con disprezzo i film in bianco e nero come un goffo relitto del passato. Tutti hanno definito Verneuil uno “stimabile artigiano”. Ma sono persuaso che sia qualcosa di più. 
Mi compiaccio per i gradimenti vari di PuroNanoVergine (che scopro chiamarsi anche Moreno, nome che fa pensare vagamente ad un torero), di Rosellina e di Luigi Luca Borrelli. Mi ha messo una pulce nell’orecchio con l’osservazione sugli incassi “contradditori” della coppia Gabin-Belmondo. Una prima osservazione (devo controllare di nuovo tutti i titoli) va sicuramente fatta: i due avevano sicuramente grande successo ma con due pubblici totalmente diversi. Da un lato Gabin aveva sommato ai suoi vecchi ammiratori dei film “realistici” degli anni ’30 quelli degli anni ’50 e ’60, dove egli ondeggiò fra grandi caratterizzazioni poliziesche e pezzi di bravura semi-comici. Belmondo era legato ad un pubblico giovanile, fulminato dalla sua apparizione esplosiva in “Fino all’ultimo respiro” e dalle sue successive variazioni fra lo snobistico, l’avventuroso, il comico “moderno”, eccetera. Anche il pubblico di Delon attingeva in parte a quello degli altri due ma aveva una sua componente specifica. Ad esempio una forte presenza femminile affascinata dal modo di apparire di Delon sia sullo schermo che, fuori dallo schermo, nella sua vita privata (in realtà molto pubblica).
Saluto il ritorno da Parigi di Giulio Fedeli. Non concordo sulle riserve riguardanti Gabin che era sicuramente un grande attore “involontario”, il quale aveva imparato non so come a recitare e si era poi imposto con parti diverse in epoche diverse. Sicuramente Gabin ha prestato il suo servizio di leva nella “Royale” (credo di aver visto una sua foto in divisa con i gradi, forse, di “quartier-maître”, equivalente a caporale dell’esercito). Quando prestò servizio nelle Forze Francesi Libere di De Gaulle-si era rifugiato negli Stati Uniti, vi interpretò due film ma poi da li si arruolò volontario, uno dei pochi attori francesi a farlo- Gabin era ormai quarantenne e, come gli capitò quasi sempre sembrava più vecchio della sua età. Tornò a far servizio in marina e fu capopezzo su una petroliera militare, attaccata nel Mediterraneo da aerei e navi tedesche. Sempre con il grado di “Second-maître” passò poi nel “Régiment Blindé des Fusiliers-Marins” e fu nominato “Capocarro” del blindato “Souffleur 2” (Secondo Squadrone). Faceva quindi parte della “2e Division Blindée”del famoso generale de Hauteclocque detto Leclerc, che liberò Parigi e terminò la guerra nel cuore della Germania a Berchtesgaden. Fu il più anziano “capocarro” di tutta la divisione, partecipò a tutte le sue battaglie ma (non so perché) si rifiutò di partecipare alla sfilata finale sui Campi Elisi dove sarebbe stato celebrato. Naturalmente aveva anche spazio per la vita privata. In quegli anni frequentò brevemente Ginger Rogers, divorziò dalla seconda moglie e visse (fino al 1947) una famosa relazione con Marlène Dietrich. Vedo che Rosellina ha già risposto a Giulio Fedeli e chiudo qui il frammento riguardante il 17 Agosto.
Giungendo ai commenti del 19 Agosto prometto a Rosellina che, prossimamente, scriverò le mie osservazioni sul “Presidente” di Simenon in rapporto al film che ne ha tratto Verneuil. Mi piacerebbe, certo, occuparmi dell’Egitto ma credo di non avere la competenza necessaria. In quanto alle interviste telefoniche richieste da Anonimo (alla Martini, a Fofi, a Enrico Medioli ed a Gloria de Antoni) ci sto pensando. Salvo Medioli li conosco tutti abbastanza bene e quindi, in teoria, non dovrei avere enormi problemi. Ma come è noto, in omaggio a Trapattoni, non bisogna mai dire “gatto se non ce l’hai nel sacco”.
Cercherò di tirare in ballo ancora una volta il caro e tempestoso Luciano Vincenzoni.
Spero di aver risposto a tutti (se ho dimenticato qualcuno scrivetemi).
Cordiali saluti generali e particolari

27 agosto 2013

L'OSSERVATORE GENOVESE

Ecco la solita rubrica domenicale pubblicata questa volta sul Blog con un giorno di ritardo. A parte fornirò alcune risposte agli ultimi post pervenutimi.
Molti saluti a tutti.

VISTO CON IL MONOCOLO


CHE IMPRESA AIUTARE LE IMPRESE

Mentre le notizie pubbliche e private d’Italia peggiorano ogni giorno, continuo a risentire in televisione un ritornello che viene, seppure con tonalità diverse, intonato da quasi tutte le parti: dal centro destra e dal centro sinistra, dalla destra e dalla sinistra, in qualche caso più complesso persino dalle estreme. Generalmente si tratta di una invocazione, pronunciata con tonalità che vanno dal dolore, alla supplica, all’irritazione e, quasi, alla minaccia: “non dimentichiamoci le imprese”, “diamo mezzi alle imprese”, “interveniamo a salvare le imprese”. Con questo termine non si intende alludere a colpi di forza o, comunque, a interventi avventurosi. Ma si vuole esplicitamente indicare le Società, le Ditte, gli Enti produttivi. In breve tutte quelle agglomerazioni che un tempo erano considerate espressioni tipiche del capitalismo. E cioè i vari tipi di Società che devono produrre manufatti, ordigni, oggetti, singoli o plurali, da inserire nel cosiddetto “mercato”, e pertanto da vendere a consumatori di diversissima stazza: dai piccolissimi alle cosiddette multi-nazionali. Quando eravamo ragazzi da alcuni ci veniva fatto rilevare che uno qualsiasi dei possibili e vari sistemi di finanziamento delle “imprese” era comunque un modo tipico per istigare alla produzione di quel che veniva definito il “plusvalore”. Cioè, secondo Marx quella quantità del lavoro quotidiano che di fatto non veniva retribuita dal capitalista e che pertanto ingigantiva di continuo, aumentando senza cessa il frammento di ricchezza che lui “rubava”. Era dunque questo, del “plusvalore” il peccato originale della società in cui ci trovavamo. Adesso, da molti degli eredi di quelli che in quei tempi praticavano il verbo marxiano, ci sentiamo intimare, con toni disperati, di provvedere di corsa a rimpolpare la quota di plusvalore di cui “tutte” le famose “imprese” usufruiscono. Non il minimo segno di dubbio, non il minimo segno di vergogna da parte di chi ora ci incita ad “investire” e mezzo secolo fa cercava di convincerci di quanto questa operazione fosse abbietta. É questo il nodo distintivo del far politica all’italiana. Mentire sul presente e quindi sul passato. È proprio una brutta cosa.


19 agosto 2013

L'OSSERVATORE GENOVESE

Cari amici,
puntuale appuntamento del Lunedì con la mia rubrica di Domenica sul Corriere Mercantile. Adesso che posso occuparmi un po' più a fondo del Blog, sono curioso di sapere che cosa può veramente interessare i miei lettori. Ad esempio un brano come quello su "Il Presidente" di Henri Verneuil può interessare a qualcuno o stimola soltanto PuroNanoVergine che in qualche modo ne è rimasto coinvolto?
Vi sarei grato di darmi qualche risposta al riguardo. Questa mattina dovrebbe giungermi una copia del romanzo di Simenon . Qualcuno può trovare stimolante un raffronto fra il film e il libro (che non leggo da decenni e che pertanto mi risulterà, in certo senso nuovo)?
Molti saluti a tutti.

VISTO CON IL MONOCOLO
LO STRETTO DI GIBILTERRA 
TERRA INGLESE IN SPAGNA

Ricordo ai lettori (che li conosceranno sicuramente) i dati principali del Trattato di Utrecht (in Olanda), molto importante nella storia europea. Firmato nel marzo e nell’aprile del 1713 pose fine alla guerra di successione spagnola, provocando molte conseguenze. Ad esempio i Borboni si installarono sul trono di Spagna (ci sono tornati con Juan Carlos) e i Savoia ebbero la Sicilia e, di nuovo, la contea di Nizza. E la Spagna dovette cedere alla Gran Bretagna il possesso totale di Gibilterra. Per secoli “La Rocca” è stata fondamentale per il controllo inglese del Mediterraneo. E anche se è tramontata “la politica delle cannoniere” e il contesto politico è molto diverso, la Spagna non ha mai cessato di invocare (contro la lettera di un trattato) il ritorno di Gibilterra. Ne faccio cenno perché proprio in questi giorni i due Governi si stuzzicano a vicenda. Al confine di La Linea (1200 metri!) i doganieri spagnoli sono rigidissimi nel controllare il traffico, che è un intenso andirivieni: almeno 12 mila spagnoli vanno ogni giorno a lavorare a Gibilterra e migliaia di “gibraltarians” vanno in Spagna dove hanno comprato casa perché costa meno. A Gibilterra sono stati lanciati in mare dei blocchi di cemento per proteggere il porto ma gli spagnoli sostengono che danneggiano gravemente i loro pescatori. E via dicendo (compresa la sosta di una portaerei della Royal Navy) secondo uno schema collaudato dai secoli. Che non si capisce se è serissimo o anche un po’ buffo (le due famiglie Reali sono imparentate …) visto che ritorna da 300 anni a intervalli regolari. Dal canto suo la Spagna ha un problema forse meno urgente ma nel fondo molto simile. E cioè le due cittadine, Ceuta e Melilla, che da lungo tempo sono una “enclave” spagnola in terra di Marocco. E che anche qui danno origine ad rivendicazioni. C’è un particolare: gli abitanti di Gibilterra non vogliono assolutamente diventare spagnoli e l’ultima volta che il problema è stato proposto con un referendum hanno votato “no” alla Spagna credo al 98%. Fra i 30 mila abitanti (parlano inglese, spagnolo e il “llanito”, un “pidgin” ispanico pieno di anglicismi) almeno il 20% è di origine genovese. Potremmo rivendicare Gibilterra …

(Battute 2206).

(Titolo originale: Churchill sarebbe orgoglioso dei fedeli abitanti di Gibilterra).  



17 agosto 2013

RISPOSTA A PURONANOVERGINE

E QUALCHE PRECISAZIONE SU AUDIARD.

Approfitto del post inviato (16 agosto) da PuroNanoVergine (grazie per i complimenti) confermando che Michel Audiard (1920 - 1985) è il papà di Jacques e che, tutto sommato, è più noto del figlio. In quanto all’opera di Michel (che dal 1950 al 1978 ha trovato anche il tempo di pubblicare 10 romanzi) vorrei ricordare che in molti casi i suoi dialoghi alla moda (che attingevano furbescamente al linguaggio corrente ed alla tradizione del teatro di “boulevard”) sono stati determinanti nel successo dei film. Nei prossimi giorni cercherò di rileggere il romanzo di Simenon (credo di non averlo più avuto nelle mani da decenni) ma sin da adesso sono quasi sicuro che tutta la parte, diciamo retrospettiva del film, e in particolare il discorso alla Camera di Gabin (raro pezzo di bravura), sia un’invenzione di sceneggiatura e quindi, in modo decisivo, risalga a Audiard dialoghista (se dovessi essermi sbagliato cercherò di correggermi).
Senza citare tutti i titoli dei singoli film, alcuni dei quali sono stati grandi successi di cassetta, vorrei ricordare che Audiard ha lavorato per quasi 40 anni, cioè dal 1949 al 1985, con un ampio manipolo di registi spesso presenti di diritto nell’elenco dei più redditizi nel cinema francese. Mi limiterò a ricordare André Hunebelle, Christian – Jaque, ovviamente Henri Verneuil, Gilles Grangier, Denys de La Patellière, Henri Decoin, Jean Delannoy, Julien Duvivier, Jacques Deray, Pierre Granier – Deferre, Georges Lautner, Yves Allégret, Philippe de Broca, Josè Giovanni, Robert Enrico, Claude Miller, Claude Sautet, eccetera. In quanto agli incassi propriamente detti – in Francia si calcola in “entrées”, cioè in biglietti venduti - va ricordato che dal 1953 al 1983 i film a cui ha lavorato Audiard hanno fatto incassare una somma enorme. Il più redditizio, “Fate largo ai moschettieri” (1953) di Andrè Hunebelle realizzò 5.534.739 “entrées”, quello che ha reso meno è “Quando torna l’inverno” (1962), proprio di Henri Verneuil, che ha reso “soltanto” 2.416.520 “entrées”. Va detto che in questi (quasi) quattro decenni di attività Audiard (lo ricordo: è morto a soli 65 anni) ha trovato anche il tempo per dirigere 8 lungometraggi, di cui naturalmente ha firmato sceneggiatura e dialoghi, e di concedersi ben 7 apparizioni come attore. Come si vede una carriera fittissima di impegni, per cui mi pare giusto che egli sia ricordato anche dagli spettatori più giovani.

16 agosto 2013

“MOVIOLA PERSONALE”

Recupero il titolo di una mia vecchia rubrica di un tempo (nel mondo di oggi anche la stessa moviola è vecchia) per parlare di un film d’altri tempi, come me, che rivedendolo mi ha (quasi) divertito …


JEAN GABIN FRA CLEMENCEAU E BRIAND


Nel Novembre del 2012 la Cineteca di Bologna fece uscire un DVD del film “La verité sur Bebé Donge”, di Henry Decoin, con Jean Gabin protagonista, e un testo allegato (uno dei tre brani presenti nella pubblicazione è mio, e non è il più bello). Rappresenta  la prima puntata di un ampio ciclo di film in lingua originale sottotitolata, corredati da brani critici e dedicato, come si deduce dal titolo del film, ad opere cinematografiche tratte da romanzi di Georges Simenon. Tutta l’iniziativa è animata dalla responsabile delle attività editoriali della Cineteca, Paola Cristalli, la quale probabilmente riuscirà, fra qualche tempo, a portare a termine un’operazione equivalente riguardante “Panique” del 1946 (titolo italiano “Panico”) di Julien Duvivier con uno strepitoso Michel Simon. Da tempo, pur senza aver nessuna autorità istituzionale, insisto con la signora Cristalli perché rientri nel ciclo anche il film “Il Presidente” (“Le President”, 1960) diretto da Henri Verneuil (nato nel 1920) ma so che le difficoltà contrattuali sono tali e tante nell’acquisto dei diritti sui film-mi ci sono scontrato per ventiquattro anni alla Rai - che non mi faccio molte illusioni. Poiché appunto il mondo dei diritti (e dei rovesci) è in Italia molto variato, ed apparentemente incoerente, ho ritrovato invece senza problemi “Le President” su YouTube. È un edizione francese scorrevole visivamente e, mi sembra, completa nella stesura.
Pochi giorni fa me la sono rivista e, ancora una volta, ne ho ricavato un impressione straordinaria. Evidentemente in questo influiscono anche le “raisons d’âge”. Il libro fu scritto nel 1957 da Simenon, che allora abitava in Svizzera, nel Cantone di Vaud, in una lussuosa villa di Echandens, dove restò fino al 1962. Nel 1963 si fece costruire un immenso bunker in un comune vicino, Epalinges, dove abitò fino al 1973 e dove crebbero i suoi figli. Il romanzo fu pubblicato in Francia da Presses de la Cité nel 1958 e apparve in Italia nel 1960 da Mondadori. Il film si inserisce in un epoca in cui ero trentenne e scattante, anche se largamente influenzato - insieme a Morando Morandini, uno dei pochi italiani- dai “Cahiers du Cinéma”. I quali ci insegnavano a diffidare di buona parte del cinema francese venuto prima di loro, e che essi chiamavano “Le Cinéma de Papa”. E fra i loro obbiettivi penso rientrasse sicuramente anche Verneuil. Considerato allora un “modesto mestierante” e dotato in realtà (ce ne rendiamo conto adesso) di un grande talento in grado di restituirci un cinema pienamente romanzesco animato da grandi interpretazioni. Egli si chiamava Achad Malakian ed era giunto a Marsiglia nel 1924 all’età di 4 anni, in una famiglia di profughi armeni che fuggivano dalla Turchia. Con uno pseudonimo convenientemente francese Verneuil si fece robustamente strada nel cinema “commerciale” ed, a partire dal 1959 si installò felicemente nel successo di cassetta con “La vacca e il prigioniero” (1959) in qualche modo aggrappato al mito di Fernandel. Da allora si può dire che per molti anni (Verneuil morì a Parigi nel 2002) è rimasto nel gruppo di testa del box office, alternando tutti i generi di successo: nel 1960 il dramma para-politico appunto con “Il Presidente” di cui parlerò meglio fra poco. Nel 1962 il bozzetto ironicamente paesano con “Quando torna l’inverno”, che l’anno scorso ho presentato a Class TV. Nel 1963 il “nero” di genere con “Colpo Grosso al Casinò”. Nel 1964 “Il bellico (la disfatta francese a Dunkerque)” con “Week-end a Zuydcoote”. Nello stesso anno il giallo di movimento con “100.000 dollari al sole”. Nel 1967 il semi-falso western messicano con “I cannoni di San Sebastian”. Nel 1969 il film sulla “pègre”, da Auguste Le Breton, con il “Clan dei Siciliani”. Nel 1971 la tipica rapina di gioielli con conseguenze avventurose grazie a “Gli scassinatori”. Nel 1973 Verneuil entra nel genere di spionaggio, allora di moda, con l’ingegnoso “Il serpente”, da un romanzo di Pierre Nord. Nel 1976 il thriller con “Il cadavere del mio nemico”. Nel 1979 il giallo fantapolitico con “I … come Icaro”. Via via, con il passare del tempo rallentando la sua attività, Verneuil diresse relativamente pochi film: due, ad esempio, negli anni ’80: “Mille miliardi di dollari” (1981) e “L’oro dei legionari” (1984). Per congedarsi poi, in una sorta di commossa solitudine, con due film dell’inizio degli anni ’90, che rappresentano entrambi un omaggio alle sue origini e alla sua famiglia armena: “Mayrig” (1991) e “Quella strada chiamata paradiso” (1992).
Fra i suoi film “buoni” mi sembra che “Il Presidente” sia uno dei più felici. Come è noto il romanzo è centrato su un uomo politico francese, Émile Beaufort. E' un misto di Georges Clemenceau, che fu Presidente del Consiglio dal 1906 al 1909 e poi dal 1917 al 1920 e di Aristide Briand per ben dieci volte Presidente del Consiglio, dal 1909 al 1929. Beaufort, da un ventennio, dopo essere stato sconfessato dal mondo politico, si è ritirato in esilio in una lussuosa villa che ha comprato in quella stessa zona di campagna ove lui, di modesta estrazione, è nato e cresciuto. La crisi finanziaria, di cui egli ha pagato le conseguenze politiche nel momento in cui era ancora Presidente del Consiglio venne funestata da un grave “incidente” operativo. Una difficile e nascosta operazione di svalutazione della moneta venne anticipata e tradita dal capo di gabinetto del Presidente, l’intelligente e servizievole Philippe Chalamont (impeccabile interpretazione di Bernard Blier), genero di un grande banchiere. Prima di cadere Beaufort dettò a Chalamont una lettera in cui questi si riconosceva colpevole di un grave gesto: aver anticipato al suocero la natura della grande operazione finanziaria che, per avere successo, doveva restare immersa sino all’ultimo in un segreto totale. Chalamont, prima dell’”esilio” di Beaufort è entrato in politica, si è fatto eleggere deputato, è riuscito a scontrarsi all’Assemblea Nazionale con il suo vecchio “padrone”, salendo via via d’importanza nel mondo politico. Vent’anni dopo il suo grave gesto ai danni di Beaufort e della Francia Chalamont ha forti possibilità di essere chiamato dal Presidente della Repubblica a formare il Governo (siamo, lo si ricordi, nella cosiddetta IV Repubblica, prima quindi, della “rivoluzione costituzionale” operata da De Gaulle e da Debré). Corre ad umiliarsi davanti a Beaufort per riavere la lettera che lo inchioda. Il vecchio Presidente lo rifiuta e Chalamont è costretto a rinunciare all’invito di formare il governo. In realtà il Presidente, che è riuscito a sbarrargli la strada, la lettera la brucia, probabilmente per cancellare una parte decisiva del passato non solo di Chalamont ma anche suo. E nessuno lo saprà mai.
Verneuil riesce a trarre dall’impianto, e dall’ atmosfera, del romanzo di Simenon una descrizione minuta, convincente, molto attenta (come usava un tempo) ai particolari di genere ed alla recitazione non solo dei protagonisti ma anche dei comprimari e delle figure di sfondo. Allinea dietro alla macchina da presa non solo due primi attori autentici (Jean Gabin che è Beaufort e Bernard Blier che è Chalamont) ma tutta una piccola antologia di semi-protagonisti e di caratteristi del cinema francese di cinquant’anni fa: Renée Faure è la segretaria-governante di Beaufort devota ma anche infida, Alfred Adam, l’autista, Henri Crémieux il Ministro delle finanze. Così come Governatore della Banca di Francia appare Louis Seigner (un grande del teatro e del cinema d’Oltralpe, una delle cui nipoti, Emmanuelle, ha sposato Roman Polanski).  E via via, giusto per collocare la vicenda nel tempo e nello spazio, una serie di volti  e di parti minori ma essenziali fra cui gli appassionati riconoscono attrici ed attori di tutto rispetto (si pensi che appare per poche inquadrature, nei panni di un ministro, un attore notissimo e quasi celebre come Antoine Balpêtré, che, sia detto incidentalmente, è il padrino di Jacques Perrin).
Naturalmente al centro del film c’è il mattatore Gabin. Il quale dà una lezione da manuale di recitazione all’antica. In casi del genere provo ogni volta un senso di stupore: Gabin non ha frequentato scuole di recitazione, così diffuse in Francia, ma, perfino un po’ riluttante, è arrivato allo spettacolo attraverso il “music – hall”: infatti per anni se la cavò benissimo come ballerino e perfino come primattore, cantando a fianco di Mistinguette (o Mistinguett). Venne poi sospinto nell’area ristretta del divismo grazie a quell’insieme di caratteristiche apparentemente contrastanti tra di loro che rendono alcuni attori profondamente amati dal pubblico nel corso dei decenni. Si pensi a Marlon Brando, a Marcello Mastroianni, ad Alain Delon, ad altre figure equivalenti, di diverso valore professionale ma di eguale, profondo e magnetico richiamo fra gli spettatori. In questo senso Gabin è uno dei primi e dei più amati. E’ stato un divo dagli anni’ 30 e, dopo la guerra (a cui, sia detto incidentalmente, ha partecipato da volontario nelle file della seconda divisione blindata dell’esercito di De Gaulle) ha ripreso, almeno a partire da “Grisbi” nel 1954 il dominio su un pubblico vastissimo che gli è rimasto fedele sino alla morte, avvenuta nel 1976. 
A vederlo nel “Presidente” sembra invece che abbia alle spalle anni e anni di vecchio palcoscenico. Il suo gusto per una recitazione profondamente verista e, a causa dell’accento “faubourien”, popolana all’antica. Nel film appare a tratti, ancora Presidente del Consiglio, pressappoco cinquantenne, politico battagliero ed eloquente. E a tratti settantenne, rinchiuso in una vecchiaia campagnola che in fondo Gabin amava anche per sé stesso. In entrambe le parti egli è convincente in un modo straordinario. Lui stesso, e l’universo francese piccolo e grande che Verneuill gli ha confezionato intorno, si sente palesemente a suo agio come sempre accadde a questo ballerino popolano quando gli capitò di disegnare figure di uomini potenti (si pensi a “Le grandi famiglie” di Denys de La Patelliére, tratto da un romanzo della trilogia di Maurice Druon). Per convincersene a pieno è sufficiente guardare nel film il suo pezzo di bravura quando si congeda di fatto dal Parlamento e dalla politica con un discorso magistrale, al tempo stesso retorico e scintillante di veleni polemici, in cui sembra a tratti di respirare l’aria delle polemiche politiche francesi di molti anni fa, quando si accusavano “Le 200 famiglie”. Vi si avverte, in modo quasi divertente per un amatore, il sapore furbissimo delle contaminazioni verbali e delle risposte fulminanti, tipiche di un grande dialoghista d’epoca come Michel Audiard. Dal 1949 al 1985, anno della sua morte,  egli lavorò alla sceneggiatura o ai dialoghi (o a entrambe le cose) per ben 119 film, pressapoco con una media sbalorditiva: più di 3 film all'anno!

12 agosto 2013

L'OSSERVATORE GENOVESE

Cari amici,
come ogni Lunedì riporto nel Blog il testo pubblicato alla domenica della mia rubrica Visto con il Monocolo che appare nel "Corriere Mercantile".
Fra poco qualche altro contributo più corposo.
Molti saluti a tutti.


VISTO CON IL MONOCOLO

UN GIORNO O L’ALTRO IMPAREREMO L’ITALIANO ANCHE NOI

Vorrei precisare: in ciò che mi accingo a scrivere non c’è nulla di polemico, anzi. Se ripenso agli anni di guerra non ho dubbi. Per sfuggire ai bombardamenti di Genova finimmo (è troppo complicato spiegare purché) col passare l’inverno 1942/1943 ad Arezzo. Dove mi trovai benissimo. Frequentai la terza Media in ambiente molto toscano-quasi tutti i miei compagni di classe venivano dal Casentino- sicché mi arricchii nella voce di venature vernacolari: imparai a dire, ad esempio, “lo vidi anno” per dire “l’ho visto l’anno scorso”, oppure “so di molto” per dire “non ne so proprio nulla”. Ma sono trascorsi settant’anni ed il mio fondo biologico ligure-piemontese ha ovviamente ripreso il sopravvento. Mi affascina sempre la rutilante ricchezza del parlar toscano ma non ho perso la reazione perplessa che tanti italiani del nord provano istintivamente in presenza di uno di loro che parla, ovviamente in modo sciolto (perché la nostra lingua è anche il “suo” vernacolo). Lo stridore è meno forte oggi che molto tempo fa, poiché con il ripudio dei dialetti l’uso dell’italiano come idioma relazionale, da eccezione è divenuto regola. E anche in Toscana ha finito col trionfare lo sciatto “italiese” radio-televisivo, rigonfio di umori romaneschi, che ormai è divenuta la lingua nazionale. Tuttavia il collante toscano resta vivo, con quei facili echi di dialogo che a noi fanno irresistibilmente pensare a prosatori minori dell’Ottocento (mi viene in mente una bambina di contadini che si rivolse alla nostra cameriera di Mortara dicendole: “Oh Maria, dormigliona costì”, provocando una viva stupefazione). Per cui di fronte ad un oratore toscano le mie reazioni restano sempre le stesse, coriacee e antiquate reazioni di un settentrionale. In questi ultimi tempi, dovendo per ragioni di salute restare quasi sempre in casa, ho visto molta televisione, molti telegiornali e perciò molto Matteo Renzi. Ed ogni volta, dopo averlo attentamente ascoltato mi sono chiesto (come per tanti nella storia, da Spadaro a Fanfani e a Benigni): “È anche intelligente o è solo toscano?”.
Quando, dalla Linea Gotica in su, sapremo rispondere accettando la prima ipotesi vorrà dire che l’unità d’Italia sarà compiuta.

5 agosto 2013

FILM USCITI A GENOVA NEL LUGLIO 2013

Il collega Guido Reverdito mi ha inviato la tabella dei film usciti a Genova nel Luglio 2013, in attesa di ricevere dai membri del Gruppo Critici (nella scheda definita i loro nomi saranno, come sempre riportati in alto)  i voti assegnati ai film suddetti. Quando l'operazione sarà terminata pubblicherò nel Blog appunto la scheda finale con i voti.

ELENCO FILM

Alex Cross
Crew 2 Crew – A un passo dal sogno
Dino e la macchina del tempo
Eco Planet - Un pianeta da salvare
ESP 2 - Fenomeni paranormal
Facciamola finita
Gli stagisti
Italian Movies
La Notte del Giudizio
Now You See Me - I maghi del crimine
Oggetti smarriti
Pacific Rim
Pain & Gain - Muscoli e denaro
Parental Guidance
Paura e desiderio
Questi sono i 40
Rabbia in pugno
Se sposti un posto a tavola
Springsteen & I
The East
The last exorcism - Liberaci dal male
The Lone Ranger
The Lost Dinosaurs
Titeuf, il film
To the Wonder
Uomini di parola
Violeta Parra - Went To Heaven
Viramundo - Un viaggio musicale con Gilberto Gil
Wolverine: l'immortale

L'OSSERVATORE GENOVESE

Come ogni lunedì riporto nel Blog il testo della mia rubrica domenicale sul "Corriere Mercantile". Forse è inutile precisare che il piccolo aneddoto descritto nel testo è rigorosamente vero. Naturalmente i miei soliti limiti di spazio (2.200 battute equivalgono, pressapoco a 20-21 righe) mi hanno costretto, ancor più del solito, ad essere asciutto e stringato. Se avessi avuto qualche parola di più a disposizione avrei aggiunto, in fondo, alla parola "simpatia" forse due aggettivi: "esterrefatta" e "incredula". 
Molti saluti a tutti.

VISTO CON IL MONOCOLO 
Sono fra i molti italiani che hanno seguito in televisione la proclamazione del verdetto della Corte di Cassazione nei confronti di Berlusconi (non dispongo ancora dei dati dell’Auditel ma penso che fossimo numerosi). Scrivo queste note al venerdì e perciò non so come si presenterà la situazione alla domenica. Ma mi è tornata, quasi con violenza, nella memoria l’unico mio (lungo) incontro con Berlusconi. Avvenne nel 1983 (il suo ingresso in politica era ancora lontano) quando il tragico arresto di Enzo Tortora-un amico che non sono stato capace di difendere come meritava- con la subitanea scomparsa di “Portobello”aveva aperto un vuoto pericoloso nel palinsesto di Rai Due. Per sostituirlo il direttore Pio De Berti mi incaricò di inventare un ciclo televisivo di film di prima serata che in qualche modo riguardavano la psicanalisi, da rilegare con dibattiti ad opera di letterati e, soprattutto, di psicanalisti (i più famosi psicanalisti italiani per anni mi hanno salutato affettuosamente pensando che io fossi un cultore della materia, mentre in realtà non ne sapevo e non ne so niente). Inventai il titolo “La camera dell’inconscio” e decisi di realizzare la trasmissione in diretta a Milano (altrimenti le seccature d’ufficio mi avrebbero seguito anche sul set). E vi andai al sabato per molte settimane di seguito. Un giorno a Roma suonò il telefono di casa e mia moglie mi disse inaspettatamente: “è per te, è Berlusconi”(che era allora il leone rampante della televisione privata e l’avversario fisiologico della Rai sui mercati internazionali ma io non l’avevo mai visto). Voleva parlarmi, io gli risposi che andavo a Milano ogni settimana e fissammo un appuntamento (mi ricordo, negli uffici della Villa di via Rovani). Arrivai puntuale, mi ricevette subito e, se ricordo bene, mi fece parlare per circa due ore. Evidentemente voleva accertare se era il caso di assumermi (probabilmente non avrei accettato). Non mi ricordo che cosa ci siamo detti, credo di averlo irritato fumando, e alla fine mi salutò dicendomi che si sarebbe fatto vivo, e sapevamo entrambi che non era vero. Non l’ho mai più visto ma ho sempre seguito, devo dire con simpatia, la sua carriera. Sono un essere umano.

1 agosto 2013

ESISTE L'ANTISIONISMO DEGLI EBREI

Il 15 Luglio scorso nella rubrica di risposta del “Corriere della Sera” curata da Sergio Romano era apparsa la seguente lettera di un signore che si chiama Franco Cohen e che io trascrivo letteralmente.

I MOVIMENTI PACIFISTI NON SONO SEMPRE PACIFICI

Sono indignato dal fatto che i «pacifisti» si agitino quasi esclusivamente quando si tratta di episodi che riguardano Israele. Viceversa, silenzio assoluto quando si tratta di episodi estremamente più efferati in cui Israele non è coinvolta. Trovo inaccettabile che questi signori scendano in piazza e scrivano frasi virulente contro Israele per l'episodio della nave Mavi Marmara che causò purtroppo la morte di 9 attivisti, mentre nessuna manifestazione di sdegno si dispieghi per episodi infinitamente più cruenti: vogliamo parlare degli 80.000 uomini, donne e bambini massacrati in Siria? Così come nessun sdegno di fronte all'assassinio di un prete copto davanti alla sua chiesa in Egitto. E omertà assoluta di fronte al massacro di 42 studenti cristiani in Nigeria. E si potrebbe citare un'infinità di altri tristi casi simili: stragi in Iraq, lapidazioni in Iran, ecc. Agli occhi di qualsiasi osservatore imparziale risulta evidente che Israele è oggetto di una odiosa discriminazione. Mi sembrerebbe lecito che le persone o i «movimenti» venissero definiti dai media con una definizione appropriata: nel caso specifico non ipocritamente «pacifisti», ma semplicemente «anti-israeliani (e di conseguenza antisemiti).
franco.cohen@yahoo.it,

Ed ecco la risposta di Sergio Romano alla lettera di Cohen:

Caro Cohen 
Il pacifismo di massa risale agli anni Trenta del secolo scorso ed è il risultato dell'impatto della Grande guerra sulle generazioni successive. Film come «All'ovest niente di nuovo», dal romanzo di Erich Maria Remarque, «Westfront 1918» di G. W. Pabst e «La Grande illusione» di Jean Renoir contribuirono, soprattutto nelle grandi democrazie, alla nascita di una pubblica opinione che rifiutava la guerra come mezzo per la risoluzione delle controversie internazionali. Uomini come il francese Aristide Briand e il tedesco Gustav Stresemann (entrambi insigniti del Premio Nobel per la pace nel 1926) ebbero il merito di costruire progetti politici che cercavano di realizzare quegli obiettivi. Sin dagli inizi fu chiaro, tuttavia, che nel pacifismo di massa vi era una componente ideologica. Chi manifestava contro la guerra ne attribuiva la responsabilità alla classe dirigente degli Stati borghesi, capitalisti, autoritari o pseudo-democratici. Il fenomeno divenne ancora più evidente all'epoca dell'aggressione italiana contro l'Etiopia e della guerra civile spagnola. Non furono pochi i pacifisti che corsero ad arruolarsi nelle Brigate internazionali per combattere contro i franchisti.Più tardi, dopo la fine della Seconda guerra mondiale, i pacifisti trovarono una nuova motivazione ideale nella campagna antinucleare. Ma di lì a poco ci accorgemmo che i loro appelli e manifesti erano firmati da intellettuali comunisti o filosovietici e che Mosca stava facendo del suo meglio per favorire le loro agitazioni. Di fatto, quindi, erano semplicemente contrari alla bomba atomica americana in un momento in cui l'Unione Sovietica non era ancora riuscita a dotarsi della stessa arma.Il fenomeno si ripetè in altre forme e circostanze quando l'Urss, verso la fine degli anni Settanta, cominciò a stanziare nuovi missili nucleari nei suoi territori occidentali. La Nato annunciò che avrebbe fatto altrettanto in cinque Paesi dell'Alleanza e il pacifismo europeo scese in piazza per manifestare, anche violentemente. Ma l'obiettivo della sua indignazione erano i missili della Nato, non quelli dell'Urss.Dietro il pacifismo, quindi, vi è molto spesso un pregiudizio politico, un partito preso, una lealtà ideologica. Non è escluso quindi che dietro certe manifestazioni contro la politica israeliana nei territori occupati vi sia una ostilità preconcetta contro lo Stato d'Israele. Ma la tesi secondo cui ogni critica indirizzata a Israele sarebbe una manifestazione di antisemitismo mi sembra, nel dialogo fra punti di vista diversi, un'arma impropria, quasi un tentativo di chiudere la bocca a qualsiasi interlocutore critico. Non dimentichi che anche nel mondo ebraico il sionismo suscitò una forte opposizione e che gli ebrei critici di Israele sono ancora oggi numerosi.

Il giorno stesso  ho scritto a Sergio Romano la seguente e-mail (ho fatto male ad inviargliela perché tanto lui non mi risponde mai: lo fece solo una volta, privatamente sulla mia e-mail, mandandomi una riga di ringraziamento. Non lo farò più). Come si vedrà dal mio testo, rimasto appunto senza risposta, avevo formulato qualche osservazione e qualche dubbio. Ve lo lascio leggere:

Egregio ambasciatore,

duplice risposta alla lettera di Franco Cohen riguardante pacifisti, anti-israeliani e anti-semiti. Prima osservazione cinefilica: lei cita i film “All’Ovest niente di nuovo” di Lewis Milestone (1930, da Remarque), “Westfront 1918” di G. W. Pabst (1930, da Johannsen) e “La grande illusione” di Jean Renoir (1937, scritto da Spaak e Renoir). I primi due sono belli e chiaramente pacifisti, il terzo è un capolavoro-in assoluto il film che io amo di più- ma dire che è “solo”pacifista significa limitarlo: l’invito alla pace alla fine del film è esplicito. Ma al tempo stesso  Gabin, Dalio, Fresnay e Stroheim hanno combattuto e vogliono continuare a combattere, incarnazione perfetta della rassegnata testardaggine di milioni di soldati della prima guerra mondiale. Seconda osservazione Franco Cohen sostiene che essere anti-israeliani significa di conseguenza essere anti-semiti. Proprio in questi giorni mi sono imbattuto in uno scrittore, Jacob Cohen, tutto dedito alla propaganda anti-israeliana e, credo, ad attaccare i potenziali collaboratori ebrei del Mossad nei vari paesi della diaspora (per entrambi il cognome Cohen, “Sacerdote”, mi sembra tipicamente, e gloriosamente, ebraico). Ma questo secondo Cohen non è solo. Mi limito a ricordare il movimento religioso fondato nel 1938 a Gerusalemme, da ebrei di origine ungherese e lituana, chiamato “Neturei Karta”, (in aramaico “Guardiani delle città”). Sembra conti diverse migliaia di famiglie, inalbera volentieri la bandiera palestinese e si oppone al sionismo, e quindi all’esistenza stessa dello stato di Israele, considerato, nella sostanza una deviazione provocatoria perché, secondo il Talmud, non è possibile creare uno stato ebraico fino a che non venga il Messia della casa di Davide. La diaspora avrebbe infatti le caratteristiche di una punizione divina per i peccati commessi. Anche il secondo Cohen, anche i Neturei Karta, sono anti-semiti? Mi sembrerebbe una conclusione paradossale. 
Claudio G. Fava


immagine di peter
Forse ho sbagliato esordendo con osservazione di carattere cinematografico, (dipende dal mio troppo amore per Jean Renoir) che esulava dal tema fondamentale della lettera di Cohen (Franco), e forse ha distratto l’attenzione di Sergio Romano, il quale riconosce appunto che “gli ebrei critici di Israele sono ancora oggi numerosi”. Ma il problema sostanziale rimane. Forse sembrerò incoerente. Ma esistono, come dicevo nella mia lettera, in Israele ed anche a New York, diversi rabbini estremamente ortodossi nel culto e nel modo di vestirsi e di pettinarsi, che sono rabbiosamente ostili ad Israele e totalmente favorevoli alla causa degli arabi. Sono appunto quei “Neturei Karta” (di cui ho fatto cenno nel mio intervento) i quali lamentano (non so assolutamente se è vero) di subire da parte dei sionisti, e pertanto, credo, dallo Stato israeliano, pressioni di ogni tipo, e addirittura violenze, imprigionamenti e torture. Essi rifiutano di essere definiti “estremisti” e ultra-ortodossi. Sostengono infatti che la proibizione di stabilire uno Stato ebraico (ne parlavo appunto nella lettera a Sergio Romano) è contenuta nel Talmud ove si afferma anche che debbono essere cittadini leali delle nazioni in cui vivono. L’esilio, infatti, avrebbe il carattere di una punizione divina per i peccati commessi e pertanto “non può essere aggirato da politiche di uomini ma solo da preghiera, buona volontà e spirito di penitenza.” In sostanza, secondo i “Neturei Karta”, la terra attualmente occupata dallo Stato di Israele “appartiene a coloro che vi avevano sempre abitato” e cioè i palestinesi, gli ebrei e gli arabi in genere, visto che in quella parte del mondo tutti convivevano pacificamente da secoli. Essi accusano anche lo Stato di Israele di essersi, come dire, drappeggiato addosso un mantello religioso, usando nomi che appartengono al culto per indicare i partiti politici e presentando dei rabbini nelle strutture dei partiti stessi. Pertanto evitano di partecipare alle attività civili israeliane, per cui rifiutano elezioni, assistenza sociale, supporto finanziario, eccetera. Arrivano al punto di rifiutarsi di toccare banconote o monete ove vengono raffigurate immagini di sionisti famosi come Theodor Herzl e Chaim Weizmann, mentre non rifiutano banconote o monete che raffigurano persone da loro considerate più accettabili, come Albert Einstein e Moses Haim Montefiore, famoso banchiere britannico di origine livornese. Un loro esponente, il rabbino Morsche Hirsch, è stato addirittura ministro di Yasser Arafat, appunto per rappresentare gli ebrei anti-sionisti.
Confesso che fino a qualche tempo fa ignoravo praticamente l’esistenza stessa del problema. L’ho appresa quasi per caso, facendo le ricerche sullo spionaggio israeliano,  ed ecco perché la lettera del Cohen italiano mi ha molto incuriosito. Visto che né Romano né Cohen (a quest’ultimo avevo inviato per conoscenza il mio intervento) mi hanno dato retta, mi auguro che qualche lettore del Blog, ancor meglio se ebreo, possa intervenire fornendomi pareri e valutazioni. Il problema di fondo rimane, e rimane quindi da chiarire quale sia il peso reale dei militanti di “Neturei Karta”, sia in Israele che nel resto del mondo. Comunque il fatto stesso che essi esistano dimostra che l’equazione della equivalenza assoluta fra anti-sionismo e anti-semitismo non può essere accettata per ragioni di logica e di buon senso.

Resto in attesa di eventuali illuminazioni o, se del caso, di correzioni.