Blog - Crediti


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30 aprile 2012

CURIOSITA' PERIFERICHE PER PAROLE ESOTICHE MA DI USO COMUNE

Ogni tanto son colto da piccole manie filologiche, per coltivar le quali posseggo soltanto la petulanza ma non la preparazione scientifica. Tant’è, proseguo nel mio cammino, austero ed infantile al tempo stesso. Ad esempio una delle varie, minuscole ossessioni di cui soffro è quella di capire perché in Italia ed in Francia per indicare l’esercito tedesco ai tempi del nazismo si prediliga la parola “Wehrmacht”. E‘una sorta di mania che fa di questo minimo, ma indubbio, errore di lessico una sorta di bandiera dell’approssimazione linguistica (come si sa in ogni lingua esiste una sorta di terreno franco in cui si compiono errori tollerati, purché in altri idiomi: si veda la Francia con i suoi sistematici “Guiseppe” e “Ossobucco” invece di “Giuseppe” e “Ossobuco”)). In sostanza la “Wehrmacht” - in tedesco significa, pressappoco, ”forza di difesa” - raggruppava tutte le forze armate che non dipendevano dal Partito Nazista (le S.A ma soprattutto le S.S.), e naturalmente le varie forze di polizia non militare. Comprendeva quindi l’Esercito (“Heer”), la Marina militare (“Kriegsmarine”, nel dopoguerra prima “Bundmarine” e ora “Deutsche Marine) e l’Aviazione Militare (prima , e credo anche adesso, “Luftwaffe”). Perciò scrivere indossava l’uniforme della “Wehrmacht” come si usa fare in Italia e in Francia, significa soltanto che la persona in questione non indossava quella delle formazioni del Partito, S.S. in testa. (Oppure quella dei pompieri o dei netturbini). Sembra una sciocchezza ( forse è veramente una sciocchezza)ma è un errore in cui cadono tutti. L’ho trovato l’altro giorno anche sul Corriere della Sera, nella rubrica di corrispondenza con i lettori tenuta da Sergio Romano, che è un ex-ambasciatore, un poliglotta ed un uomo di vasta cultura storica. Un’altra parola che mi ha sempre incuriosito e che molti giornalisti usano voluttuosamente è: “commando”. Inteso nel senso di reparto militare di specialisti, dotati di un specifico addestramento e destinati ad operazioni perigliose e difficili. Sembra che la sua notorietà sia nata ai tempi della guerra anglo-boera, di cui un primo frammento iniziò nel 1880 ed un secondo, quello che vide la definitiva vittoria britannica, terminò nel 1902. Sulla sua origine ho trovato in internet spiegazioni fantasiose ma curiose. Esse ci riportano ad un personaggio italiano di cui non avevo mai sentito parlare, e cioè il piemontese (di Alba) Giuseppe Camillo Pietro Ricchiardi (1865-1940). Il quale dopo aver frequentato Modena ed esser diventato ufficiale di cavalleria in Genova e in Piemonte Reale, ebbe poi una vita particolarmente avventurosa: istruttore nell’esercito del Siam, giornalista durante la guerra Cino-Giapponese del 1895, agente in Cina dell’Unione Industriale Italiani, mercenario nelle Filippine agli ordini del generale Aguinaldo, che combatté per l’indipendenza contro gli spagnoli e poi contro gli americani e credo sia stato anche il primo Presidente della Repubblica filippina. La quale venne poi annullata dagli Stati Uniti, prima di essere riesumata quando, pressappoco quarant’anni dopo, arrivarono i giapponesi. Dopo le Filippine Ricchiardi sarebbe andato in Sud-Africa a fianco dei boeri che resistevano agli inglesi e sarebbe diventato colonnello della Legione Volontaria Italiana, i quali combattevano appunto nelle file dell’esercito boero (francamente, non ne avevo mai sentito parlare). Sembra che sia stato lui ad aver catturato su un treno Winston Churchill, in Sud- Africa come giornalista (ma nelle sue memorie Churchill pare non faccia parola né di Ricchiardi ne dei Volontari italiani e dica di esser stato catturato da Luis Botha). Comunque sia, secondo alcuni, risalirebbe a lui l’invenzione della parola “commando” che non sarebbe altro che la parola italiana “comando” aumentata di una lettera, ed eventualmente scritta con la “k” nella lingua paraolandese dei boeri e cioè l’”Afrikaans”. Perché è usata da tanti e con tanta compiacenza? Non sono mai riuscito a spiegarmelo, così come mi è sempre parsa oscura l’esplosivo successo della parola “Blitz”. E’ di uso comune nei giornali quando si descrivono operazioni e incursioni poliziesche. In senso stretto “Blitz” in tedesco significa “lampo” o anche “fulmine”. Perché dunque scrivere “ieri a XXX ha avuto luogo un Blitz della squadra mobile di XXX ?”. L’unica spiegazione possibile è che sia una contrazione dell’espressione “Blitz Krieg” e cioè “Guerra Lampo”, espressione che, anche in italiano, ebbe molta popolarità nel 1939/40, dopo il crollo subitaneo dell’esercito polacco prima, e di quello francese poi, di fronte all’ appunto fulminea avanzata dei carri armati tedeschi. Resta tuttavia vagamente insensato l’uso attuale della parola e misteriosa la fortuna che essa continua a rivendicare negli scarni portafogli verbali dei cronisti. Per conto mio confesso che quando sento parlare di “Blitz” e ancor più di “summit” (altra parola usata generosamente per ogni riunione politica o poliziesca) mi sento male e penso che sia già fallito tutto.

6 - Alcuni film americani che conviene avere visto - L'uomo ombra

SESTA PUNTATA DELLA NUOVA RUBRICA DI RECENSIONI DI OPERE CINEMATOGRAFICHE DEL PASSATO PROSSIMO
“L'uomo ombra” di W.S.Van Dyke

Nel gennaio del 1934 apparve "The Thin Man" ("L'uomo ombra") quinto e ultimo romanzo di uno dei padri della narrativa "hard-boiled"americana, Dashiell Hammet (1894 – 1961). Nello stesso anno due intelligenti sceneggiatori, moglie e marito, Frances Goodrich e Albert Hackett, mutandone il tono ma conservando i dati dell' impianto generale, ne trassero un ottimo copione che in tredici giorni lo speditivo regista W.S. Van Dyke II tradusse in film. Successo immediato e insperato (è forse la data di nascita del cosiddetto "giallo – rosa"), ove venne lanciata la copia formata da William Powell (Nick Charles) e Myrna Loy (sua moglie Nora), lui un ex detective, lei una ricca e intelligente ereditiera. Amanti della vita comoda dell'eleganza e del lusso, forti bevitori entrambi (il proibizionismo iniziato nel 1919 era terminato in America proprio nel 1933) si trovano impigliati in enigmi gialli, che Nick finisce sempre col risolvere. I due sono accompagnati dal cane Asta, un Jack Russel Terrier, che divenne anch'esso popolarissimo. Il successo fu tale da indurre la MGM a realizzare altri 5 "seguiti" del primo film, e cioè, dall'anteguerra al dopoguerra, "Dopo l'Uomo Ombra"(After the Thin Man, 1936), "Si riparla dell'Uomo Ombra" (Another Thin Man, 1939), "L'Ombra dell'Uomo Ombra" (Shadow of the Thin Man, 1941), "L'Uomo Ombra torna a casa"( The Thin Man Goes Home, 1944), "Il canto dell'Uomo Ombra" (Song of the Thin Man, 1947). Complessivamente i primi 4 del ciclo sono diretti da Van Dyke, gli ultimi 2 da Richard Thorpe e Edward Buzzell. Si badi che L'Uomo Ombra non è, come tutti credono, Nick Charles (di origine greca, il suo vero cognome era Charalambides) ma un personaggio del primo episodio, Gilbert Wynant (William Henry), che si rivelerà essere un uomo molto magro ("Thin" diventato Ombra in italiano per un gioco complesso legato alla trama). Io ho rintracciato un cofanetto che contiene i 6 film e un settimo Dvd di notevole interesse perché allinea due interessanti profili di William Powell e Myrna Loy ed anche esempi del seriale televisivo ispirate alle avventure di Nick e Nora, con Peter Lawford protagonista. Ho trovato il cofanetto, prodotto dalla Warner Bros sul sito "Ibis.it" al costo di euro 32,90 più spese di spedizione e contrassegno. Per quel che riguarda il doppiaggio (rifatto nel 1970) mi riservo ulteriori ricerche. Per ora ho trovato che nei primi due film del ciclo la voce di William Powell era di Stefano Carraro e quella di Myrna Loy di Eva Ricca.

24 aprile 2012

UN ESEMPIO (IL MIO) DI GIORNALISMO ALLA ROVESCIA

Da qualche tempo io ho una piccola rubrica quindicinale nelle pagine sportive del Secolo XIX. Ho scelto il titolo, “Con la matita rossa e la matita blu”, a cui la redazione ha anteposto un occhiello che diceva “Il tifoso” e che adesso è stato modificato “Il supporter”, perché a me la parola tifoso, che continua a significare prima di tutto “malato di tifo”, non piace e non è mai piaciuta. Lo faccio perché mi diverto sin da bambino a seguire il gioco del calcio. Che ora, attraverso Sky, con le sue innumerevoli partite sparpagliate fra il sabato e il lunedì, è diventato tentatore ed ossessivo per chi nutre una certa debolezza per il tema. Faccio presente che sono stato prescelto poiché tutti sanno che sono nativamente genoano. Debolezza che risale a prima della guerra, quando un giorno mio padre venne a casa per il pranzo ed a tavola mi consegnò solennemente un piccolo rettangolo istoriato per accedere alla tribuna numerata dello stadio di Marassi (si chiama Luigi Ferraris dal nome di un ufficiale caduto durante la prima guerra mondiale). Per un bambino che poteva avere 7 o 8 anni quella consegna fu un momento liturgico di cui non mi dimenticherò mai. Una sorta di investitura cavalleresca, un po’ come quella di essere nominato Templiario in pieno Medioevo (sia detto incidentalmente la tessera riguardava le partite di una squadra chiamata Genova, perché il fascismo aveva imperiosamente modificato l’originario nome di Genova Cricket and Football Club. Ma forse io non lo sapevo neppure). Da allora, pur con lunghi momenti di disinteresse, quell’investitura ha evidentemente fermentato nel mio cuore e nella mia mente, lasciando delle tracce che si sono via via complicate man mano che approfondivo la storia della Società e il fatto che fosse stata fondata da un gruppo di inglesi i quali si trovavano nella città per motivi di lavoro. Tenuto conto dell’attuale situazione di Genova la cosa può sembrare inverosimile ma allora su 500.000 abitanti almeno 5.000 erano inglesi, ed erano venuti tutti perché la città, e non Milano e Roma, era l’approdo naturale dei cittadini britannici incaricati di svolgere un compito in Italia. Infatti non solo il porto, allora largamente il più importante di tutti, ma Genova, nella sua interezza, costituivano un punto di riferimento quasi automatico per le strutture industriali del mondo inglese. Per ricostruire il periodo storico, si ricordi che quando il Genoa, nel 1893 venne fondato, prima squadra di calcio in Italia, il Governo italiano era retto dal primo ministero Giolitti e quello britannico dall’ultimo ministero Gladstone, durante la quarta “Premiership” del politico inglese. Era il periodo finale del lungo regno della Regina Vittoria (morì nel 1901) che, nel bene e nel male, aveva segnato un momento decisivo nella storia dell’ Inghilterra e nel costume dell’800. Non è un caso che Kipling abbia pubblicato il primo “Libro della giungla” proprio fra il 1893 e il 1894 mentre “Capitani coraggiosi” risale al 1897 e “Kim” al 1901 (tipiche di quegli anni sono anche alcune poesie famose, come “Gunga Din” del 1892 e “If” del 1895). Questo antico rapporto con un passato, al tempo stesso lontano e vicino, credo che mi abbia sempre influenzato, consentendomi di stabilire istintivamente una sorta di parallelo fra i destini dell’Inghilterra e quelli del Genoa. La prima è una nazione spesso poco simpatica, ed a momenti addirittura antipatica, la quale però ha un piccolo difetto, che in realtà è un grande pregio. Vale a dire quello di non arrendersi nei momenti del pericolo decisivo. Lo dimostrò tante volte nel corso della sua storia e la più vicina a noi risale all’estate del 1940. Mezzo mondo la incitava a venire a patti con Hitler, le cui truppe avevano dilagato in Francia mettendo fuori combattimento in meno di due mesi quello che era considerato il più forte esercito del mondo. Ma Churchill seppe radunare intorno a sé tutte le energie necessarie e in 5 anni vinse un conflitto mondiale che sembrava totalmente compromesso. Così, nel suo piccolo, sempre che il paragone non risulti goffamente esagerato, anche il Genoa e i genoani hanno sempre rifiutato di arrendersi, sopravvivendo a tutto, in 119 anni di una storia ricca come poche di colpi di scena. La mia rubrica avrebbe dovuto apparire martedì 24 aprile, vale a dire due giorni dopo che la partita fra il Genoa e il Siena era stata funestata a Marassi da una irruzione di Ultrà ai quali erano riusciti a farla sospendere per 40 minuti facendosi consegnare da quasi tutti i giocatori. Martedì il Secolo uscì con molte pagine di sport dedicate a quel che resta un caso fino ad oggi unico nella storia del calcio italiano, con deprecazioni palesi e prese di posizione molto decise. La mattina del lunedì inviai la mia rubrica (prevista in 2600 battute) facendo cenno di quel che era avvenuto ed anche della seconda parte della domenica da me dedicata a seguire su due televisioni francesi i risultati delle elezioni subalpine. Soltanto adesso mi sono reso conto che, probabilmente, la mia rubrica non si accordava con la tonalità generale espressa dal giornale e rischiava di apparire quasi estranea e snobisticamente “escapiste”. Comunque non è stata pubblicata. E’ una delle poche volte, in più di mezzo secolo di mestiere, che fra migliaia di pezzi che ho scritto e firmato sono stato costretto a rendermi conto di un rifiuto. Ci ho pensato molto ed ho concluso che, probabilmente, i colleghi del Secolo avevano avuto ragione, sia perché chi impagina ha sempre ragione (se no i giornali non si riuscirebbero mai a portare a termine) sia perché nel mio sforzo di sincerità ho rischiato di sembrare estraneo alla commozione generale. Va detto che io sono persuaso di una cosa, e cioè il mutamento dei tempi e la caduta della compatta adesione ai grandi partiti abbiano profondamente influenzato quella parte della popolazione in un certo modo vedova di una militanza continua, sostituita ora dalla turbolenta presenza delle file della cosiddetta “tifoseria” organizzata. In ogni caso che io abbia sbagliato o no, ho ricevuto una lezione, difficile da assimilare alla mia età, su cui tuttavia dovrò probabilmente meditare. Perché, se ne hanno voglia i lettori del Blog, possano rendersi conto dell’accaduto, ho pensato di pubblicare qui in allegato il testo da me inviato al giornale. Vorrei che il mio intento fosse chiaro. Non c’è in me nessun sottinteso polemico ma se mai l’intenzione di ricordare a me e agli altri che il giornalismo è un mestiere difficile e che va sempre praticato con un forte senso di rigore (che poi le pretese degli Ultrà di ottenere le maglie dei giocatori, che sarebbero state indegni di indossarle, e non solamente, come sono, incapaci di giocare bene al pallone, abbiano un loro configurazione fra l’ottocentesco e il militaresco che andrebbe analizzata in un più ampio contesto sociologico, è ancora un altro paio di maniche). 
Ecco il testo della rubrica: 

UN POMERIGGIO DA RICORDARE 

E’ ben più di mezzo secolo che scrivo, come si diceva una volta, “su per le Gazzette”. Ho sparpagliato frivolmente nel mondo migliaia e migliaia di articoli eppure non mi è mai successo di stentare a trovare le prime parole introduttive, quelle che i vecchi cronisti all’antica chiamavano “l’incomincio”. Ma è accaduto questa volta. Come si inizia a parlare della tragicommedia del Ferraris, e come si continua? La cessione delle maglie raccolte mestamente da Marco Rossi e poi la coraggiosa ribellione di Sculli che sale ad abbracciare uno degli Ultrà ma che fa capire chiaramente che lui la maglia non se la toglie perché l’ha portata con onore (Gaia Piccardi, nel Corriere della Sera di oggi, scrive che è “il nipote del Boss di Africo Giuseppe Morabito detto U Tiradrittu”, che non so chi sia. A me il suo scoppio di aggressività calabrese ha ricordato piuttosto certi fanti della sua terra che, mentre i generali scappavano, si batterono disperatamente a viso aperto contro Garibaldi agli ordini di Beneventano del Bosco). Non so veramente che cosa muova i cuori e le menti degli Ultrà di ieri. Supponendo che siano in totale buona fede mi stupisco che non abbiano capito che i giocatori del Genoa giocano male non perché lo vogliono ma perché in maggioranza non sanno giocar bene e trascinano i pochi bravi (Frey, Palacio e il troppo vecchio Kaladze). Sempre nel Corriere di oggi Mario Sconcerti, che conosce Genova perché ci ha lavorato, scrive fra l’altro: “Il genoano ha un rapporto viscerale, assoluto, con i colori del Genoa, poco razionale. Essere del Genoa è essere della città, avere il mare davanti e la storia alle spalle”. E’ una sensazione che ho imparato da bambino e che poi, con il trascorrere dei decenni, si è fortemente attutita. Mi chiedo se gesti come quelli compiuti ieri a Marassi non la facciano scomparire totalmente. Fra l’altro il pomeriggio di ieri era segnato anche dalla chiusura delle votazioni francesi. Con il televisore, lasciando la terribile partita con il Siena, sono rimbalzato sulle due reti francesi che si vedono con i satelliti, “France 24” e “Tv5 Europe”ed ho seguito, come faccio sempre per l’Italia e per la Francia, la fine delle votazioni e l’inizio dei dibattiti. Ho sentito tutto, compresi gli interventi di Hollande, Marine Le Pen e Sarkozy. Alla fine, al di là dell’interesse specifico, ho in parte provato, come sempre quando i politici dicono comunque di avere tutti vinto, lo stesso senso di incredulità che avevo avvertito qualche ore prima guardando ad occhi sbarrati il triste spettacolo del Ferraris. Non è un mondo facile, il nostro. 

Claudio G.Fava. 

Battute 2.595.

21 aprile 2012

A DOMANDA RISPONDE

Rispondo qui ai post dei lettori ricevuti negli ultimi giorni. Raduno in un unico capitolo quelli inviati da Rosellina Mariani che mi offre il piacere di ricevere un’amplissima corrispondenza. Andando nell’ordine il 30 marzo mi scrive alludendo ad un mio precedente intervento: “Aspetto la risposta sulla tua grande cultura, intanto me la godo!”. E’doveroso precisare che la mia “grande cultura” non esiste: come quella di tanti giornalisti è formata da furbesche intercettazioni di occasionali motivi di cronaca e di moda. Inoltre va detto che da quando sono costretto, per feroci motivi di salute, a muovermi con una certa fatica mi riduco in genere a documentarmi attraverso il computer. Anch’io (per fortuna non sono il solo) finisco col dipendere da “Google” e da “Wikipedia”, come tanti liceali di oggi, pigliando per buono tutto quello che mi viene procacciato grazie allo spaventoso reticolato mondiale di internet. E’ la pura verità. Rosellina mi scrive anche che è contenta di ascoltare me e Steve Della Casa  parlare a Hollywood Party. Steve è un caro amico che con me è sempre affettuosissimo. Ci fu un periodo di alcuni mesi, circa 6 anni fa, in cui rimasi ricoverato all’ ospedale di San Martino di Genova. Steve, che percorre molto spesso la linea ferroviaria Torino – Roma e viceversa, aveva la gentilezza, quando arrivava alla Stazione Brignole, di saltare su un taxi, di venire a trovarmi all’ospedale e poi di riprendere un taxi, di tornare alla stazione e di ricominciare il viaggio (verso Torino o Roma) che in questo modo, data la lentezza dei treni italiani, diventava letteralmente interminabile. Mi fa piacere che Rosellina abbia apprezzato “Odio Implacabile” e che aspetti notizie su Schoendoerffer: un giorno o l’altro mi deciderò a scrivere il necrologio che egli ampiamente merita. Probabilmente riuscirò a trovare nel mercato dei Dvd francesi sia la “317°Section” che “Le crabe tambour”. Infine ringrazio ancora Rosellina che ci ha regalato un frammento di un suo brevissimo ma garbato incontro con Gianni Agnelli. 
Venendo ad altri corrispondenti, ringrazio Amarilli Bilitis, dal nome e dal cognome romanzescamente multinazionali che si compiace di trovare il mio nuovo post nel Blog. 
Sempre in data 10 aprile Rear Window (con il suo nostalgico logo raffigurante James Stuart che brandeggia la sua super macchina fotografica in “La finestra sul cortile”) mi dice di aver acquistato e gustato qualche mese prima “Odio implacabile” e che si ripromette di includere nella sua lista desideri di “Amazon” anche “Stasera ho vinto anch’io”. Come è evidente successivamente lo ho “recensito” nel Blog.
Ad “Anonimo” che il 12 aprile 2012 mi scrive a proposito di Bossi e mi chiede cosa vuol dire “Biribissi”, sono costretto a fare un’ammissione. Nonostante l’età avanzata conservo un gusto ginnasiale per i giochi di parole. Si dà il caso che, fra l’800 e il’900 vi sia stato uno scrittore di libri per ragazzi che si chiamava Paolo e portava l’impegnativo cognome Lorenzini. Vale a dire lo stesso di Carlo Lorenzini che, con lo pseudonimo di Carlo Collodi scrisse quel grande libro di favola che è “L’avventura di Pinocchio”. Carlo Lorenzini era lo zio di Paolo Lorenzini, il quale appunto si firmava anche “Collodi Nipote”. Il libro più noto di Paolo è una sorta di parodia de “Il Viaggio al Centro della Terra” di Jules Verne, centrata su due ragazzi che si chiamano appunto Sussi e Biribissi (che è appunto il titolo del libro) e che compiono anche essi un viaggio “cosmico” partendo dalle fogne di Firenze. Mi sono lasciato tentare dalla vaga assonanza tra Bossi e Sossi ed ecco perché ho aggiunto Biribissi.
In data 20/4/2012 PuroNanoVergine cita “Day of the Fight” come opera di esordio di Stanley Kubrick. E’ un documentario su un pugilatore medio leggero, di origine irlandese (si chiama Walter Cartier) che deve affrontare il pugile nero Bobby James. Dura 16 minuti ed è dello stesso anno di un altro documentario di Kubrick, “Flying Padre” centrato su un parroco cattolico del New Mexico costretto ad incontrare i suoi fedeli, sparpagliati in un immenso territorio, volando su un Piper Club che pilota lui stesso. Bisognerebbe fare un ulteriore ricerca per stabilire  quali dei due documentari, pur dello stesso anno, è apparso prima dell’ altro ed è quindi l’opera di esordio di Kubrick. Successivamente egli diresse nel 1953 un film di fiction di 72 millimetri, “Fear and Desire” ed un documentario sui marinai sindacalizzati di 30 minuti, intitolato “The Seafarers”. “Fire and Desire” ha come protagonista lo stesso Frank Silvera che sarà anche l’interprete principale del successivo film di Kubrick, “Il bacio dell’assassino” di 67 minuti che appunto ha al centro un pugile sfortunato che corre in aiuto della vicina di casa. Nel 1956 un Kubrick ormai maturo affronterà il lungometraggio con “Rapina a mano armata” ( The Killing) che lo rivelò al mondo, e in particolare ai critici americani che parlarono di un secondo Orson Welles.
Sempre PuroNanoVergine mi fa osservare che, abitando lui vicino alla sede milanese della Lega ha dato un’occhiata alla targa di Via Carlo Bellerio che porta una generica indicazione:”Patriota”. In effetti egli fu amico e sodale di Mazzini, il quale ebbe anche trasporti sentimentali verso una Giuditta Bellerio che non so se fosse la sorella di Carlo.
Per quel che riguarda Schoedoerffer ho già ringraziato Giulio Fedeli, che non vedo e non sento da decenni, il quale mi ha scritto un appassionato e informato post a proposito del regista e scrittore che entrambi abbiamo amato.

19 aprile 2012

5 - Alcuni film americani che conviene avere visto - Stasera ho vinto anch’io

QUINTA PUNTATA DELLA NUOVA RUBRICA DI RECENSIONI DI OPERE CINEMATOGRAFICHE DEL PASSATO PROSSIMO
“Stasera ho vinto anch’io” di Robert Wise

Il rapporto fra il cinema americano e la box è antichissimo e collaudato. Per restare nell’ambito del sonoro si va da “Il campione” (1931) di King Vidor con Wallace Beery e Jackie Cooper al “remake” di Franco Zeffirelli (1979) con Jon Voigh ed a molti altri titoli: “ Il sentiero della gloria” (1942); “Il grande campione” (1949); “Il bacio dell’assassino”(1955); “Il colosso d’argilla” (1956); “Lassù qualcuno mi ama” (1956) ancora di Robert Wise; “Città amara” (1972); la saga di “Rocky” dal 1976 - al 2006 con, e spesso di, Sylvester Stallone; sino ai più recenti “Cinderella man – Una ragione per lottare” (2005) e “The Fighter” (2010). Il quadrato della box si presta magnificamente alla mobilità ed alle variazioni stilistiche della macchina da presa. Fra tutti questi (e molti altri) film “Stasera ho vinto anch’io” di Robert Wise (1949) rappresenta uno dei risultati più alti: un aneddoto breve (72’), stringato, essenziale, lucidissimo nel dipingere l’onestà ostinata di un pugile al tramonto e un mondo della box povero e feroce. Wise (1914-2005) è stato un modesto e grande narratore, che spaziò dal cinema avventuroso al grande musical. Dal canto suo Robert Ryan, che abbiamo già visto in “Odio implacabile” fu un attore al tempo stesso scabro ed eloquente.

18 aprile 2012

L'ITALIA CHE MI LASCIA PERPLESSO



Ci sono ovviamente molti accadimenti che mi lasciano perplesso nell’Italia di oggi (e di ieri), come capita, presumo, ad ognuno di noi. Due cose mi hanno particolarmente colpito nelle cronache di questi ultimi giorni. L’una è quella che chiamerei “L’affaire Morosini” (detto in francese fa pensare un po’ al caso Dreyfus e un po’ ad un regolamento di conti fra corsi). L’altra riguarda due risvolti del mondo nostrano dei motori.
Il primo dei due risvolti concerne la Fiat. Due giorni fa l’amministratore delegato Sergio Marchionne ha festeggiato con esplicita gioia l’inaugurazione dello stabilimento serbo di Kragujevac (è una città di 190 mila abitanti a circa 120 Km di autostrada da Belgrado). Lo stabilimento non rappresenta solo “il punto di arrivo di oltre 3 anni di intenso lavoro” ed è “l’inizio di un nuovo ciclo e di una nuova vita per l’impianto”. Nella fabbrica verrà prodotta – sono previsti 2400 nuovi posti di lavoro – la nuova 500L, che, secondo il responsabile del Centro Stile della Fiat, rappresenta un grande passo avanti verso un modello di World Car che verrà anche esportata negli Stati Uniti. Il Centro Stile ha sede a Mirafiori, dove, sia detto incidentalmente, avrebbe dovuto essere prodotta la 500L. Che ora, come si è detto, vedrà la luce in Serbia, anche in seguito ad un piano di investimenti di un 1 miliardo di euro: 250 milioni coperti dal Governo serbo, 350 dalla Fiat e 400 da un opportuno finanziamento della BEI, la Banca europea per gli investimenti. Alla cerimonia di inaugurazione partecipavano, oltre ad alte autorità serbe, come abbiamo detto anche il famoso amministratore delegato della Fiat che, con il programmatico maglione e la barba saltuariamente biancastra, sembra sempre di più un barbone di lusso. 
Non c’è dubbio che con questa ulteriore, ultima operazione la Fiat ha fatto un ulteriore passo verso il disperato tentativo di far dimenticare che l’ultima lettera della sua sigla significa “Torino”. E’ un processo probabilmente inevitabile per salvare la Società dal pericolo di una tragica sparizione, in un mondo che assorbe sempre meno le troppe automobili prodotte. Ma è anche un momento di totale fuga verso l’esterno, anche antropologicamente ribadita dalla presenza di Marchionne che è nato in Italia, è andato in Canada all’ inizio dell’adolescenza e, a quanto ho capito, è ora cittadino svizzero con residenza in Svizzera. Ripeto. E’ un momento, forse inevitabile, del forzato adattamento della Fiat ad un mercato mondiale sempre più difficile. Ma mi fa anche pensare con grande nostalgia all’elegante e snobistica presenza di Gianni Agnelli, così internazionale nell’accento e così torinese nei fatti. 
L’altro avvenimento concernente il mondo dei motori è l’acquisto della Ducati, nota marca italiana di motociclette, da parte della Audi, che produce ampiamente in proprio ed ha già incamerato il marchio Lamborghini. Dal canto suo l’Audi appartiene al 99,50% alla Volkswagen (forse sbaglio ma non riesco mai a dimenticare che è una fabbrica voluta e creata per soddisfare un preciso desiderio di Hitler, il quale voleva appunto una”macchina per il popolo”). L’Audi controlla anche i marchi Bentley, Bugatti e SEAT. Come si vede la conquista tedesca dell’Emilia motoristica è oramai quasi perfezionata.
Io personalmente sono quanto più lontano possibile dal mondo dei motori possa esistere in Italia. Non ho più la patente da decenni e non guido stabilmente da più di mezzo secolo. Non ho mai possedute motociclette ed ho guidato solo una volta una Vespa, credo nel 1949. Inoltre, mentre seguo con febbrile e colpevole devozione, il mondo del calcio, in quello delle corse di Formula1 mi imbatto casualmente solo durante i telegiornali. Eppure, non so per quale residuo di infantile nazionalismo, la duplice “fuga” all’estero della Fiat e della Ducati, mi ha lasciato un sapore di amaro in bocca, assai consono all’atmosfera di casta frustrazione che si addice al Governo “tecnico” da cui siamo retti. 
Cambiando argomento un altro motivo di perplessità nei confronti della mia Patria (è una parola sempre meno usata, abitualmente si dice il Paese, come se si trattasse di andare a fare una gita in campagna) è rappresentata dal cordoglio ossessivo che si è scatenato dopo la morte del povero calciatore PierMario Morosini. Tutto, dalla sospensione del campionato di calcio alle onoranze funebri in un quartiere di Bergamo, ha assunto i sapori e i colori di una catastrofe nazionale. Si badi. Ho partecipato al dolore di tutti per la sparizione del giovane calciatore, pugnalato dal suo stesso cuore nel corso di una partita. Ho appreso con tristezza che i genitori erano già morti, che un fratello disabile si era suicidato e che della famiglia restava soltanto una sorella, disabile anche essa. Ma il tono generale della partecipazione pubblica e privata è stato sbalorditivo, quasi che Morosini fosse stato ucciso in un attentato e non colpito dalla micidiale tristezza dell’ esistenza, che incombe su tutti noi e che non riusciremo mai ad evitare. Speriamo che l’avvenimento serva almeno a predisporre controlli sanitari più rigorosi anche nei campionati meno importanti ed a predisporre l’uso di un defibrillatore in tutti i campi di calcio d’Italia. Ma i fatti di cronaca che veramente mi colpiscono e mi addolorano sono, ad esempio, le uccisioni di bambini ad opera di automobilisti pazzi, non di rado ladri e drogati, i quali assassinano e non hanno neppure l’umano risvolto di fermarsi per portare aiuto. 
Forse sbaglio? Credo di no ma ritengo che, comunque, sia uno sbaglio lodevole. 

16 aprile 2012

SOMMARIO DELLA RIVISTA "CINECRITICA"

Nei primi mesi del 1970, insieme a molti colleghi, allora membri del Sindacato Nazionale Giornalisti Cinematografici, decidemmo in una sorta di adunata a Perugia di uscire dal Sindacato stesso e di fondare un'Associazione più precisa nei termini e nelle finalità, che si chiamò "Sindacato Nazionale Critici Cinematografici Italiani" (SNCCI). La motivazione della nostra scissione (indubbiamente aveva un prevalente carattere di sinistra ma io non mi riconoscevo in esso) era molto semplice: non ci pareva giusto radunare in un'unico organismo collegiale professionalità diverse. Ad esempio quali erano e sono quelle dei Capi Uffici Stampa delle singole case cinematografiche, evidentemente tenuti per espliciti motivi di lavoro a diffondere i film della loro Ditta. Dopo 42 anni i due Sindacati sussistono ancora ed hanno fra di loro buoni rapporti, per quanto ne so io. Fra le varie attività del nostro Sindacato, oltre ad un'attività specifica delle singole sezioni regionali (quella Ligure a cui io  appartengo è unanimemente riconosciuta come la più efficiente e la più operosa) vi sono l'organizzazione di convegni locali ed ogni anno, in occasione della Mostra di Venezia, l'allestimento della Settimana Internazionale della Critica. Inoltre il Sindacato edita una rivista trimestrale, che si chiama appunto "Cinecritica- periodico di cultura cinematografica a cura del SNCCI". La pubblicazione è ormai entrata nel 17° anno ed è da poco uscito il numero 65 di Gennaio-Marzo 2012. Ogni numero costa 6 euro e può essere fornito sia in abbonamento sia in vendita in Italia e in molte librerie specializzate. Mi sono accorto che in passato non ne ho mai fatta menzione. Mi emenderò: a cominciare da oggi riporterò ogni volta il sommario della rivista, che mi sembra abbastanza articolata per trovare lettori fra i cinefili. Ecco quindi quello del numero 65 Gennaio-Marzo 2012.

EDITORIALE
In attesa della "buona" politica 
di Bruno Torri
PRIMO PIANO: FRANCESCO MASELLI
Le ombre rosse del cinema
Intervista a cura di Piero Spira e Bruno Torri
L'autore e il politico
di Mino Argentieri
La costante della viltà: la trilogia "moraviana"
di Roberto Chiesi
Moravia, Maselli e il tempo degli uomini
di Fabio Francioni
IL CINEMA DEGLI ALTRI
Slovenia: la solitudine dell'indipendenza
di Nicola Falcinella
FORUM
Due o tre cose su Jacques Demy
di Vittorio Boarini
Georges Delerue: dalla Nouvelle Vague a Hollywood
di Baldo Via
RICORDI
Theo Anghelopulos: lectio magistralis
DIALOGHI
Il Diverso, il Nomade, il Cittadino.
di Paolo Lago
STORIE
Warren Kiefer. L'uomo che non c'era
di Roberto Curti
CRITICA&CRITICI
Diana Karenne: la diva dimenticata 
di Mara Novelli
Letture critiche
di Aldo Viganò
Notiziario SNCCI


12 aprile 2012

BOSSI E BIRIBISSI

Ecco un mio modesto tentativo di riflettere sul complesso( o forse semplicissimo) mistero politico rappresentato dalla Lega Nord e sulle esplosive ma quasi goffe caratteristiche del suo fondatore.

In questi giorni (siamo all’8 di aprile mentre inizio a scrivere e al 12 mentre termino) è praticamente impossibile ignorare lo scandalo della Lega. Apre quotidianamente quasi tutti i telegiornali e ha reso famigliare a milioni di persone (è spesso la prima inquadratura di ogni servizio) il nome di Carlo Bellerio. Credo sia stato un cardiologo, ma in internet non ne ho trovato traccia; è comunque la persona a cui è stata intitolata la strada ove è situata la sede centrale della Lega, a Milano. Ormai abbiamo imparato a memoria a riconoscere la targa marmorea della via, tipicamente italiana anche nelle minuscole tracce di sporcizia casuale.
Torniamo alla Lega. Quel che abbiamo appreso in Televisione e che in Televisione abbiamo visto accadere sotto i nostri occhi è, come suol dirsi, al di là del bene e del male. Le apparizioni insieme disinvolte e esterrefatte di Renzo Bossi, suo padre che piange davanti alla folla mentre  impugna il microfono e dice che i suoi figli doveva mandarli a studiare all’estero come ha fatto Berlusconi, l’incredibile volto meteco di Francesco Belsito il quale passa per genovese (mi sento in certo modo legato a quest’uomo da quando ho scoperto che abita via Domenico Fiasella, una strada che fa angolo con il palazzo numero 8 di via XX Settembre dove sono cresciuto ed ho abitato quasi  vent’anni). E poi tutto ciò che si vede e si sente: cose al tempo stesso piccole e banali, volgari ma incerte fra il comico e il tragico, con Maroni che insiste nel dire che deve essere espulsa Rosi Mauro e quest’ultima, fra l’altro vice presidente del Senato, la quale a sua volta insiste nel ribattere che non avendo fatto nulla di male non vede perché dovrebbe dimettersi. E poi tutto il resto: militanti feriti ma in un certo modo desiderosi di poter credere ancora, lotte di Regioni (nella sostanza Lombardia e Veneto) e di Province e di Sezioni, un turbinio di grandi e piccole operazioni finanziarie, pur per somme relativamente non eccelse in cui rientrano anche i costi del dentista per un figlio di Bossi, eccetera eccetera. Un guazzabuglio di minime ma qualche volta anche enormi sciocchezze, tutte articolate all’ interno di un fenomeno che può sembrare buffo, goffo e perfino pericoloso, ma che resta tuttavia uno dei più grandi fenomeni politici italiani dell’ ultimo ventennio. Tutto ci riporta a quel vago malessere che contraddistingueva, senza riuscire né a individuarlo né ad enunciarlo, gli italiani del Nord dal dopoguerra agli anni’80. All’ interno di una unità d’Italia, frettolosamente portata a termine e poi sempre retoricamente celebrata (i festeggiamenti per il 150° anniversario ne sono un esempio tipico) il Nord e il Sud del Paese hanno continuato a baloccarsi con decine di rispettive frustrazioni e di asti reciproci. 
Quelli meridionali si articolavano in una generica irritazione di fronte alla maggior ricchezza, al maggior sviluppo, ed alla maggiore efficienza delle Regioni settentrionali. Una infondata ma determinante forma di compensazione è stata rappresentata per generazioni dalla sistematica ricerca di impieghi statali, para-statali e locali che ha assorbito le migliori energie della gioventù meridionale. Tutti frammenti di una deprecazione per cosi dire ancora minuta e sbiadita fino a che non ha trovato uno sfogo articolato e sistematico nelle aggressive polemiche dei cosiddetti “neo-borbonici”. Basta controllare in internet uno dei loro siti per vedere sino a che punto essi spingono la polemica contro il “criminale” Garibaldi, contro la “spoliazione” delle industrie meridionali da parte degli avidi piemontesi, in difesa dei cosiddetti briganti (si pensi appunto a “Il brigante di Tacca del Lupo” di Bacchelli ed al conseguente film di Pietro Germi) che erano invece onesti e fedeli contadini insorti in difesa della loro terra e della loro autonomia quando non prodi gentiluomini carlisti accorsi dalla Spagna a difendere, come si diceva, “il trono e l’altare”.
Nell’ Italia settentrionale, invece, la scontentezza verso il Meridione si traduceva in una generica irrisione ai modi “eccessivi” del vivere meridionale, alla diffidenza verso il medio burocrate statale quasi sempre del Sud, al fastidio di fronte ad un diverso modo di considerare la “res pubblica” in Piemonte ma ancor più nelle province lombarde, venete e trentine a lungo amministrate (in qualche caso sino alla prima guerra mondiale) dalla silenziosa efficienza della “Duplice Monarchia”.
Tutto questo restava nel vago ma al tempo stesso nel concreto degli uni e degli altri. Fino a quando, per rivendicare la voglia di essere ascoltati e di decidere in proprio, non è nata la Lega Nord. Il paradosso è che rivendicazioni e animosità, che potevano sembrare eccessive o addirittura razziste ma che esistevano in larghissima misura sono state interpretate e tramutate in concreti strumenti di lotta politica ad opera di una persona come Bossi. Contro il quale si appuntavano insistite cronache giornalistiche le quali richiamavano il fatto che egli, studente fuori corso, avrebbe festeggiato due o tre volte una laurea mai ottenuta (io non ho elementi sicuri per affermarlo ma l’ho letto molte volte e non ho mai trovato una smentita formale). Altrettanto dicasi delle sconcertanti celebrazioni con l’acqua del Po e le sistematiche offese a Venezia di una signora che esponeva tenacemente la bandiera tricolore. Non voglio qui concedermi un facile patriottismo ma è fuor di dubbio che, a torto o a ragione, all’ombra di quella bandiera erano caduti decine e decine di migliaia di “padani” ante litteram. Basti pensare a quegli alpini, reclutati in senso orario dalle colline liguri sino alle montagne veneto-friuliane, che si sono lasciati sacrificare con tenacia paesana in una guerra terribile, e che piacquero tanto a Rudyard Kipling nelle sue cronache del conflitto nelle nostre montagne.
Insomma tutta la ritualità e tutta la liturgia “celtica” delle manifestazioni della Lega rivelavano la stessa fantasiosa approssimazione contenuta nella cultura storiografica di Bossi. In uno dei suoi recenti interventi al convegno di Pontida trasmesso in televisione l’ho sentito dire che dalla Destra Storica si passava alle fucilate di Bava Beccaris. Quando come è noto quel che si definisce  Destra Storica va dal Primo Ministero Cavour (1849) a Marco Minghetti (1876) mentre le repressioni organizzate da Bava Beccaris ebbero luogo a Milano nel 1898. Praticamente Bossi ha completamente annullato Rattazzi, Depretis e Crispi, spalmando il bianco su un lungo e tormentoso momento della storia politica italiana.
Sul personaggio e su molti dei suoi sodali si potrebbe insistere a lungo, ricordando le intemperanze di vocabolario e la voluta volgarità paesana di tante manifestazioni, per non parlare dell’ imbarazzante coinvolgimento familiare della moglie e dei figli. Eppure è indubbio che, dopo lo storico impallidirsi delle due grandi correnti di lotta post bellica riassunte nel Partito Comunista Italiano e nella Democrazia Cristiana, probabilmente nessun altro movimento popolare ha raggiunto l’adesione sincera e totale dei militanti rivelatasi nella Lega Nord. Basta ancora oggi vedere in televisione di volti sinceri e smarriti  di così numerosi militanti per rendersene conto. In un modo più complesso e sottile va detto che una potenziale partecipazione all’orgoglio settentrionale c’è stato in tanti abitanti del Nord che pure per la Lega non hanno mai votato. Io stesso che sono prevalentemente ligure con qualche ascendenza basso –piemontese, ho sempre avuto sin da bambino la consapevolezza di essere “un italiano del Nord” o, come si dice ancora a Roma, dell’”Alta Italia”. Pur sentendomi totalmente estraneo alla curiosa mitologia della Padania. Paese come è noto prevalentemente intinto nel burro, fatta eccezione per la raffinata cultura olearia del Garda, mentre io sono cresciuto all’ombra dell’ olio e dell’ ulivo, consapevolezza che semmai ribadisce una naturale affinità con la Provenza e l’ immanenza dell’ Occitania.
Ci vorranno anni e generazioni per spiegarci quello che è veramente successo nell’Italia di Bossi. E quale misterioso processo o di fanatismo o di autentica riscoperta della propria etnologia si è verificata ad opera di un uomo che si tenderebbe a definire ignorante ma che è  stato allevato all’ indipendentismo da quel Bruno Salvadori che, pur non essendo per niente di famiglia francofona fu decisivo nel definire l’ attuale ideologia dell’Union Valdôtaine.
Bossi non lo capirò mai bene ma un giorno o l’altro vorrei riuscirci.

PRIMA PUNTATA SU SCHOENDOERFFER

Qualche informazione su un post legato alla figura del regista e romanziere francese, sicuramente enigmatico per molti lettori. Proprio a causa dei riferimenti a figure e avvenimenti della recente storia di Francia. Mi è parso doveroso, in attesa di rievocare compiutamente la figura di Schoendoerffer, fornire alcuni dati di base.

L’annuncio che avevo dato il 20/03/2012 della morte di Pierre Schoendoerffer per ora ha provocato tre post oltre che una lettera “indiretta”. Mi spiego. Da molti anni io tengo una rubrica di posta con i lettori in una rivista che esce a Genova e che si chiama “Film Doc”. Con un gioco di parole, a cui a suo tempo non sono riuscito a resistere, la rubrica si intitola “La posta di Doc Holliday”, facendo un evidente riferimento cinematografico al dentista diventato pistolero che appare in diversi film, fra cui “Sfida infernale” (My Darling Clementine, 1946) di John Ford e “Sfida all’Ok Corral” (Gunfight at the O.K. Corral 1957) di John Sturges.  Pochi giorni fa mi è arrivata una missiva di un lettore che mi chiede di dargli informazioni su Schoendoerffer. Ha visto nei giornali la notizia della sua morte ma non sa bene chi sia e vuole avere qualche nozione in materia. Credo che lo rinvierò alla lettura del mio Blog.
Ho deciso di scrivere prossimamente un brano su Schoendoerffer (mi sarebbe piaciuto dedicargli una puntata in video ma non ho trovato DVD dei suoi film più importanti). Intanto fornisco alcune informazioni per chiarire i dati contenuti nel dotto post di Giulio Fedeli (Villa Santa, MB) che contiene nomi e fa riferimento ad avvenimenti probabilmente sconosciuti a molti lettori. In sostanza Fedeli, dopo un inizio “d’autore” in francese, cita diverse persone. Una è Bruno Cremer, un attore subalpino ormai molto noto anche in Italia, che avevo commemorato in questo Blog con un piccolo articolo apparso l’11 agosto 2010 in occasione della sua morte. Non era il suo primo film ma “317° battaglione d’assalto” ( La 317e section, 1964) appunto di Schoendoerffer lo rivelò nei panni di un “Adjutant” d’origine alsaziana che combatte in Indocina, (agli ordini del sottotenente Jacques Perrin). Da allora proseguì una carriera intensa e fortunata diventando anche, in televisione, una delle migliori incarnazioni del commissario Maigret che si conoscano. Roger Faulques, ricordato da Fedeli, è un ufficiale francese  che fu comandante in seconda del secondo R.E.P. (Reggimento di paracadutisti della Legione Straniera) e che, dopo esser stato partigiano e aver combattuto in Indocina, divenne uno dei capi dei mercenari che agirono in Katanga (sembra con l’appoggio del ministro francese della Difesa Pierre Messmer) e poi anche nello Yemen. E’ stato in un qualche modo riabilitato perché due anni fa, come ricorda Fedeli ebbe il riconoscimento di diventare “porteur de la main”. Cioè di essere incaricato di recare la mano di legno del capitano Danjou, l’eroe di Camerone, nella sfilata del 30 aprile in cui la Legione Straniera celebra il ricordo della battaglia messicana. Un altro scomparso citato da Fedeli è Pierre Guillaume (1925-2002). Figlio di un generale di divisione fu ufficiale di marina in Indocina e salvò 1614 vietnamiti che volevano sfuggire ai comunisti. Nel 1956 riesce a tornare a Parigi e si arruola nell’esercito per prendere il posto del fratello Jean-Marie, caduto in Algeria. Partecipa al “putsch” del generale Challe, poi si arruola nella OAS (Organisation Armée Secrete), sconta 4 anni di galera e milita fra i mercenari nelle isole Comore e in Birmania. Ormai libero viveva su una sua imbarcazione, L’”Agathe”, a Saint-Malo. Di fatto è il “crabe-tambour” (crabe significa granchio) che viene evocato e celebrato nel grande film di Schoendoerffer “L’uomo del fiume” (appunto “Le crabe-tambour”, 1977). Fra i vivi citati da Fedeli ci sono anche Hélie Denoix de Saint-Marc (ha ora 90 anni) e Jacques Perrin . Il primo è un personaggio romanzesco, militante nella resistenza per cui fu arrestato e deportato a Buchenwald. Poi famoso combattente in Indocina nella Legione Straniera (parlava le lingue dei suoi ausiliari indigeni) e infine combattente in Algeria. Qui aderisce al cosiddetto “putsch” dei generali, schierando agli ordini di Challes l’intero primo reggimento paracadutisti  (I° R.E.P.) di cui era comandante in interim. Processato, condannato a 10 anni di “reclusione criminale” e graziato dopo 5 anni di prigione. Diventa dirigente di una società metallurgica e nel 1978 è riabilitato e reintegrato nei suoi diritti civili e militari. Il 28 novembre del 2011 Nicolas Sarkozy lo ha insignito della Gran Croce della Legion d’Onore. In quanto a Jacques Perrin (non lo vedo da anni, ma un tempo eravamo in ottimi rapporti), che ora più che far l’attore preferisce fare il produttore di splendidi documentari sugli animali, ebbe uno dei suoi maggiori successi appunto nei panni del prima citato sottotenente Torrens, protagonista di “317° battaglione d’assalto”.
Forse è ho un po’ esagerato nel fornire informazioni sulle persone evocate da Fedeli, ma volevo sgombrare il campo in attesa di scrivere un breve ritratto di Schoendoerffer. L’ho conosciuto personalmente e ho fatto organizzare a suo tempo, grazie a Gianluca Farinelli ed a Tatti Sanguineti, un omaggio alla sua figura con la proiezione de “L’uomo del fiume” alla Cineteca di Bologna. Era modellato della terribile tragedia che l’Indocina e l’Algeria avevano causato nelle coscienze di tanti militari francesi. Ma non mi sembrava, pur comprendendo il loro dolore , e quello del “crabe-tambour”, nostalgico dell’OAS e del “putsch” di Challe e colleghi (quelli che De Gaulle definì “un quarteron de generaux felons”). 
Tornerò sulla figura del regista, e romanziere, in occasione del brano che ho intenzione di scrivere e di pubblicare fra poco.

10 aprile 2012

4 - Alcuni film americani che conviene avere visto - Odio implacabile

QUARTA PUNTATA DELLA NUOVA RUBRICA DI RECENSIONI DI OPERE CINEMATOGRAFICHE DEL PASSATO PROSSIMO

Apparso nel 1947 fece impressione per l'aggressiva tonalità stilistica e per l'esplicito desiderio di denunciare una latente ma violenta forma di antisemitismo presente nella società americana del tempo (il tema originale, evocato da Brooks, in realtà era l'odio non contro gli ebrei ma contro gli omosessuali). Centrato su tre Robert (Mitchum, Ryan, Young) che garantiscono un eccellente livello di interpretazione, il film è tratto dal romanzo "The Brick Foxhole" appunto di Richard Brooks prima ricordato, il quale, dopo un inizio come promettente sceneggiatore e romanziere divenne un eccellente regista: ricordiamo "L'ultima minaccia" (1952), "Il seme della violenza" (1955), "Pranzo di nozze" (1956), "La gatta sul tetto che scotta" (1958), "A sangue freddo" (1967) eccetera.
Dal canto suo Edward Dmytryk (1908-1999) fu un notevole regista di film neri e/o avventurosi. Colpito dal maccartismo, finì in prigione ma poi denunciò i compagni di partito. Almeno sino agli anni' 70 ebbe un'ottima carriera. Fra i tanti titoli ricordo "L'ammutinamento del Caine" (1954), "I giovani leoni" (1958), "Ultima notte a Warlock" (1959), "Mirage" (1965), "Alvarez Kelly" (1966) eccetera.
Il Dvd - prodotto dalla RKO Radio Pictures nel 1947 - è apparso nel 2011 a cura della Sony Pictures Home Entertaiment. In internet, nel sito "Mediaworld.it", l'ho trovato a euro 8,99 (più spese di spedizione e contrassegno). Dai controlli effettuati sembrerebbe un'accettabile prezzo medio.

N.B. Per problemi tecnici, i contributi video del film, sono stati lasciati in lingua originale.




5 aprile 2012

MIA RUBRICA SU "FILM TV" (E COMUNICATO DELLA RIVISTA STESSA)

Ecco alcune informazioni sui miei rapporti con la rivista “FilmTv”. E poi una piccola anteprima circa la prossima ”recensione” in voce (le prime tre, riguardanti “Chiamate Nord 777”, “Pietà per i giusti” e “I migliori anni della nostra vita”, mi pare siano state accolte molto bene). Entro lunedì 9 aprile spero, infatti, che Lorenzo Doretti possa installare la quarta puntata. Non vi dico, per prudenza, il titolo del film ma vi anticipo trattarsi di un’opera che risale al periodo forse più fertile di un regista controverso, e cioè Edward Dmytryk.

Ormai da sei mesi, grazie alla cortesia del suo direttore Aldo Fittante, ho una piccola rubrica mensile sul noto settimanale “FilmTv”, che esce in edicola al martedì e che contiene una vasta antologia di articoli e di recensioni cinematografiche, oltre che un’ amplissimo riepilogo dei programmi televisivi sulle varie reti.
La rubrica (anche il titolo, “Salvate la tigre”, è del direttore e si rifà ad un noto film del 1973 diretto da John G. Avildsen per cui Jack Lemmon prese un Oscar) si propone di recuperare i “salvataggi” cinematografici da me operati quando ero alla Rai, sia nella azienda unificata, precedente alla riforma delle reti, e poi sia a Rai Uno che a Rai Due. 
La rubrica appare, in linea di massima, tutti i primi martedì del mese e nelle sei puntate sino ad ora pubblicate ho evocato i seguenti argomenti:
1) Il recupero di uno dei più famosi film con i Fratelli Marx, (“Duck Soap” di Leo McCarey del 1933) sino a quel momento inedito in Italia e che io importai, feci doppiare e poi trasmisi in televisione, inventando anche il titolo “La guerra lampo dei fratelli Marx”. L’operazione era ispirata dal desiderio di costruire un ciclo sui Marx Brothers, che, credo per motivi contrattuali, non riuscii a portare a termine.
2) La “Restitution in integrum” di un bel film, purtroppo sottovalutato, di Roberto Rossellini, “Era notte a Roma” del 1960. Riportai alla luce, e feci opportunamente sottotitolare, i dialoghi in inglese e in russo (gli attori erano Leo Genn, Peter Baldwin e Sergej Bondarĉuk) assurdamente doppiati entrambi in italiano nell’edizione che circolò, poco, nei nostri cinematografi. E rimisi di peso un episodio, il più bello, ambientato in un palazzo di principi romani (il principe era Paolo Stoppa) presumibilmente tagliato per motivi di lunghezza.
3) “Il giorno e l’ora” (1963) di Renè Clement in cui, nel corso degli anni’70, recuperai alcuni dialoghi originali in inglese, assolutamente essenziali per comprendere lo svolgimento della trama.
4) Il doppiaggio di “Ribalta di gloria” (Yanke Doodle Dandy, 1942) di Michael Curtiz fornito alla Rai era manchevole di diversi brani, come accade spesso. In casi del genere in azienda si tendeva a tagliare i brani non doppiati. Io, non avendo l’autorizzazione a sottotitolare, registrai un mio commento che via via chiariva il senso dei dialoghi in inglese opportunamente conservati. Evidentemente essi sono ancora presenti nelle copie d’epoca.
5) Negli anni’80 (ero già a Rai Due) recuperai un film francese di Claude Berri, “Tchao Pantin!”, inedito in Italia, l’unico film drammatico di Coluche, famoso in Francia come bizzarro attor comico. Lo feci comprare, doppiare e trasmettere. Non credo che abbia avuto molto successo ma, a giustificare la fondatezza della mia operazione, venne rimeritato in Francia da ben 5 premi César su 12 candidature!
6) A Rai Due, avendo competenza sia sui film che sul materiale televisivo (Tv Film, Telefilm, Sceneggiati, eccetera) in occasione di un ciclo su Katharine Hepburn mi accorsi che un notevole film televisivo del 1975, (Love Among the Ruins) prima opera di George Cukor per il piccolo schermo, trovandosi in elenchi televisivi non era mai stato scoperto dai cinefili! Si pensi che a fianco della Hepburn recitava Laurence Olivier … Lo feci comprare e doppiare e lo trasmisi con successo.

Spero di avere ancora qualche ricordo (molte delle infinite cose che feci alla Rai con l’andar del tempo le ho dimenticate) al fine di alimentare la rubrica per qualche altro mese.

Approfitto dell’occasione per ricordare che da Martedì 3 aprile è in edicola il numero 1002 di “FilmTv”, che contiene moltissimo materiale interessante. Mi limiterò qui ad accennare a qualche argomento in esso evocato. Ad esempio: copertine e articoli d’apertura su Julia Roberts in “Biancaneve”; ampio servizio su Carlo Lizzani in occasione dei suoi 90 anni; accenno al recente “Piccole bugie tra amici” approdato nei cinema italiani dopo il successo di altri due film francesi, “Quasi amici” e “The Artist”. Inoltre menzione di un cofanetto sui 17 Dvd dedicati a Jean-Luc Godard, oltre a molto altro materiale specifico di largo interesse cinematografico. Infine la rivista riporta i programmi di 50 reti televisive con le relative schede dei film trasmessi dai vari canali, servizio credo molto apprezzato dagli appassionati.