Blog - Crediti


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L'aggiornamento è stato curato puntualmente in passato da diverse collaboratrici ed attualmente, con la stessa puntualità e competenza, se ne occupano Laura M. Sparacello ed Elisa Sori.

28 dicembre 2011

I NECROLOGI E LA VITA

Riflessioni superficiali ma rispettose a proposito della vita, e soprattutto della morte, prendendo spunto da una intera pagina di annunci mortuari apparsa nel quotidiano “La Stampa”.
Un tempo mia moglie era solita prendere affettuosamente in giro mio suocero. Il quale, da solido borghese genovese (classe 1886), invecchiando aveva preso l’abitudine di aprire il “Secolo XIX” nella pagina dei necrologi e di cominciare diligentemente a leggere, dopo aver detto ogni volta:”Vedemmo un pö chi l’é morto ancheu! (Guardiamo un po’ chi è morto oggi!)”. Analizzava con diligenza nomi e date di nascita e immancabilmente, almeno una volta, esclamava:”Beliscimo! O l’ea ciù zoêno de mi”(“Perbacco! Era più giovane di me”).
Con l’ andar del tempo, via via ho scoperto di aver in certo modo ereditato le sue abitudini, semmai moltiplicate dalla dimestichezza con diversi quotidiani, eredità della “mazzetta” tipica di una redazione. Per cui finisce che leggo i necrologi non solo genovesi ma anche milanesi, torinesi e romani, soffermandomi su decessi che avvengono in zone cittadine che mi sono ancor meno familiari. E anch’io, come mio suocero, ho cominciato a calcolare l’ età dei defunti, quanto si riesce a dedurla dal testo del necrologio. Mi sono chiesto spesso da che cosa sia causata questa piccola mania necrofilica. Indubbiamente essa è causata sia dall’ implicito valore romanzesco degli annunci mortuari, attraverso i quali si possono ricostruire interi frammenti della nostra società, sia da quel complicato terrore della morte, che dopo gli 80 anni costituisce un implicito riferimento personale della nostra esistenza, quasi un preannuncio decisivo, possibilmente articolato a breve termine (un tempo si moriva a 50 anni, poi a 60, poi a 70. Attualmente mi sembra di capire che l’elemento di svolta delle nostre esistenze sia ormai situato nel decennio sito fra gli 80 e i 90 anni, laddove si verifica buona parte della scomparsa delle persone d’ età).
Non stupirà quindi nessuno che nel numero della “Stampa” del 20 dicembre 2011 mi sia imbattuto in un intera pagina consacrata ai necrologi di una sola persona, e cioè la marchesa Giovanna Incisa della Rocchetta Cattaneo. Che io, lo confesso a mio disdoro, non avevo mai sentito nominare e che invece, a quanto ho appreso dalla “Stampa”, è stata importante per decenni nella vita di Torino. Al punto che dal febbraio al dicembre 1992 fu perfino Sindaco della città, in rappresentanza del Partito Repubblicano collocato allora nell’ arco del cosiddetto “pentapartito”. Tanto è vero che uno degli annunci è stato posto dal Sindaco, dalla Giunta, dal Presidente del Consiglio Comunale, dai Consiglieri Comunali e dai Presidenti e Consiglieri di Circoscrizione che hanno anche allestito una camera ardente presso il Palazzo Civico. Naturalmente gli annunci erano di due tipi: quelli con il nome della defunta in neretto e di corpo più grande e quelli più piccoli che in certo modo si inserivano fra i primi. Se non ho sbagliato i conti la pagina contiene 103 necrologi, di cui 58 in neretto e gli altri 45 più piccoli in tondo. E qui si rileva ancora una volta, come dicevo prima, quel che accade spesso nelle pagine dei necrologi, e cioè la proiezione di uno o più ambienti sociali. L’ annuncio ufficiale della famiglia elencava puntualmente titolo e nome completo: “Marchesa Giovanna Incisa della Rocchetta Cattaneo” e in effetti diverse venature nobiliari si rinvengono negli annunci di persone più vicine alla famiglia. Ad esempio ci si imbatte in un gruppo di parenti de Fonseca Pimentel, che quindi discendono dalla famosa Eleonora. Come è noto essa, di nobile famiglia portoghese (poi romanizzata e successivamente trasferitasi a Napoli) fu poetessa e donna di ampia cultura. A conclusione della tragica esperienza della Repubblica napoletana venne impiccata nella Piazza del Mercato il 20 agosto 1799, proprio lei che era stata amica e collaboratrice della regina Maria Carolina d’ Austria, moglie di Ferdinando I.
Si trovano negli annunci anche Fabrizio e Viola Lanza Tomasi (implicitamente di Lampedusa) e, ancora, una Lorian Leonetti con il marito Franz von Fürstenberg, quasi a ribadire l’ antica nobiltà aleramica degli Incisa della Rocchetta. I quali nelle ultime generazioni si sono messi in luce come sagaci produttori di vino, sia nel Monferrato che in Toscana, a Bolgheri, dove relativamente di recente è fiorito il famoso Sassicaia.
Ma la maggioranza delle persone menzionate nei necrologi sono soprattutto esponenti di quella che si suole chiamare la società civile, dato che la defunta fu Animatrice e Presidente di molte benemerite istituzioni cittadine. Ad esempio la Consulta per la Valorizzazione dei Beni Artistici e Culturali di Torino o il Consiglio Regionale  o gli Animatori del “Castello di Rivoli” (il Presidente è Giovanni Minoli), la Fondazione Torino Musei, eccetera. Per non contare la Fiat, presente in qualche modo in 2 annunci: in uno John Elkan e Sergio Marchionne, l’uno Presidente e l’ altro Amministratore delegato, “partecipano con profonda commozione al lutto del Dottor Oddone” e nel secondo John e Lavinia Elkan “partecipano commossi al lutto a titolo personale” così come fa Marella Agnelli che ricorda la defunta “con immenso affetto”. Una gran voglia di distinguersi si ritrova nella elencazione dell’ identità della scomparsa. A volte è Marchesa Incisa della Rocchetta Cattaneo (come usava un tempo prima il nome del marito e poi quello ”da signorina”). A volte è citata senza titolo nobiliare, in qualche caso in maniera ancora più accorciata, come Dottoressa Giovanna Incisa Cattaneo sino ad una riduzione dei titoli che non può essere del tutto casuale. Ad esempio l’ Unione industriali e la Camera di Commercio si limitano ad una Giovanna Incisa Cattaneo se non addirittura, vedi necrologio della Aon S.p.A., ad una Giovanna Cattaneo tout court (ma qui curiosamente fra i partecipanti al lutto c’è un Olderico Faà di Bruno, appartenente ad una nobile famiglia alessandrina nota soprattutto per il Capitano di vascello Emilio Faà di Bruno, morto nella battaglia di Lissa, 1866, e decorato di medaglia d’oro). Ci sono anche casi estremi, come quello di Giorgio e Daniela La Malfa che ricordano la defunta “con grandissimo affetto per la sua lunga militanza repubblicana, il suo impegno politico - civile, la sua profonda e calda umanità”, ma la citano come Giovanna Cattaneo Incisa omettendo, forse per scrupolo antimonarchico il predicato “della Rocchetta”, che, se ricordo bene, in base alla Costituzione fa ormai parte integrante del cognome. Ci sono casi ancor più estremi come i condomini di Via Governolo 28, situato nell’ elegante Quartiere della Crocetta, che “partecipano al lutto della famiglia per la scomparsa della Signora Giovanna Cattaneo”, senza titoli e cognomi acquisiti, come fanno anche gli esponenti della Fondazione per l’Arte CRT che “piange (una) donna sensibile e capace” o il  neo-ministro Elsa Fornero che ricorda con commozione ed affetto “Giovanna Cattaneo”, ancora tout court.
Non vorrei che questa breve nota suonasse irrispettosa, o peggio offensiva, nei confronti di una donna che oramai ho imparato a conoscere ed a cui mi sono quasi affezionato. L’ho scritta solo per ribadire ancora una volta la nostra difficoltà di viventi nel rievocare la morte. Un avvenimento decisivo (che “si piange”, che “commuove”, eccetera) ma nei confronti della quale non sappiamo mai bene come comportarci. Ci fa una paura terribile ma al tempo stesso serve per adornarci di buoni sentimenti e per nascondere il nostro spavento dietro una sorta di ritualità burocratica, con delle conseguenze spesso quasi buffe. Si pensi alla figura delle Società per Azioni che “partecipano al lutto” e dei Consigli di Amministrazione che “sono vicini nel dolore”(è un tema, questo, su cui, se ricordo bene, tanti anni fa Giovanni Mosca scrisse alcune pagine scintillanti).
Che conclusione si può trarre da questo modeste righe che ho scritto? Forse soltanto questo: ancora una volta, direi, un essere umano si trova disarmato, impotente e rispettosamente atterrito, di fronte un mistero che inizia con la nostra nascita e che termina appunto con la nostra morte.

(Battute 7.983).

19 dicembre 2011

DUPLICE MOVIOLA TELEFONICA

Mio intervento a voce su due temi non comunicanti: la marcia della Germania verso il dominio europeo e un sommario resoconto su diversi libri di cinema che mi sono stati recapitati in questi ultimi giorni.

Claudio G. Fava


16 dicembre 2011

IL MITO DELL'ALLENATORE

Il 16/12/2011 nelle pagine dello sport del Secolo XIX è apparso un mio articolo. Non avevo capito la lunghezza necessaria e giustamente il responsabile della pagina, Giampiero Timossi, lo ha tagliato per poterlo utilizzare. Ad occhio e croce, direi, ed è un frutto della mia vecchia esperienza di impaginatore ai tempi del piombo, i tagli fanno bene ai testi e quindi probabilmente il mio articolo è stato migliorato. Lo pubblico qui di seguito, nella versione originale da me scritta, non certo per polemica ma perchè così è conservata nel computer. Timossi, con netto senso giornalistico ha posto questo occhiello: "Il piccolo mondo moderno della panchina", questo titolo: "Malesani, un tecnico scritto da Fogazzaro" ed infine il sommario: "Dopo la fascinazione di Gasperini e Ballardini, il post-bergmaniano, il regionalismo dell'allenatore vereronese".
Probabilmente vi sarà venuta voglia di leggere l'articolo. Eccolo qui.

DAL MAGO AL MILIONE

Ipotesi sull’allenatore di calcio inteso come massimo interprete intellettuale della nostra epoca.

Prima della guerra fare l’allenatore era un decoroso mestiere per un calciatore invecchiato che poteva insegnare ai più giovani qualche piccola astuzia nel colpire la palla e nel simulare dei falli. Dopo la guerra, via via che cresceva nel mondo l’ossessione per il football, questa professione da decoroso veterano si tramutò, anno dopo anno, in qualche cosa che attingeva all’esperienze di un “guru” indiano e insieme a quelle di uno scienziato misterioso in stile Frankenstein. In particolare in Italia , anche grazie alla mediazione geniale di un focoso scrittore come Gianni Brera, vennero elevati due monumenti a Helenio Herrera ed a Nereo Rocco. Il primo inteso come mediazione franco-ispanica verso la fascinazione vertiginosa del calcio totale pre-olandese, il secondo esaltato come mitteleuropea contrapposizione italo-triestina alle furbizie importate dall’estero.
Man mano gli allenatori sono diventati sempre più importanti. Il loro mercato è quasi sontuoso come quello dei calciatori ed essi –pur sempre sospesi fra una totale esaltazione ed una subitanea condanna- si muovono, da una squadra all’altra, circondati da un folto manipolo di aiutanti, fisioterapisti, massaggiatori, addestratori di portieri e via enumerando. E’ successo a loro quel che, in un certo senso, agli economisti: un tempo quasi nessuno in pratica li conosceva ma esercitavano un peso enorme sulla loro epoca (si pensi ad Adam Smith o a Karl Marx). Adesso anche quelli minori vengono disputati dalle televisioni e quelli di buon risalto universitario rischiano di diventare Senatori a vita e Presidenti del Consiglio.
Dai tempi decisivi di William Garbutt ad oggi Dio sa se il Genoa ha avuto degli allenatori di ogni tipo ma l’esperienza che la squadra sta vivendo attualmente è sicuramente abbastanza singolare. Grazie a Preziosi – non lo conosco personalmente e quando parla in televisione, dato che sto diventando sordo, spesso non riesco a penetrare nella cortina post avellinese della sua dizione- anche sotto questo profilo ha conosciuto e sta conoscendo momenti sicuramente eccitanti. Preziosi è probabilmente il più abile avvistatore e negoziatore di calciatori che esistano fra tutti i Presidenti delle squadre di calcio ma è anche all’origine di un “tourbillon”di giocatori difficilmente controllabili. Acchiappandolo nel Crotone ha letteralmente inventato Gasperini che per qualche anno ha affascinato, con il modo di giocare che era riuscito ad imprimere al Genoa, non solo i tifosi ma anche gli avversari ma che probabilmente è anche all’origine di clamorose incomprensioni (si pensi al caso di Di Vaio, il quale nel Genoa quasi non toccava palla e nel Bologna è diventato uno strepitoso goleador). Poi ha inaspettatamente proposto Davide Ballardini, dalla carriera irregolare ma dal piglio austeramente produttivo. A me piaceva perché incarnava una tenebrosa visione dell’uomo romagnolo, fortunatamente priva di esaltazioni e divulgazioni. In piedi, con una coppola cupa, egli costeggiava le partite del Genoa con una presenza quasi sempre silenziosa ma sicura, che io ebbi a definire “post-bergmaniana”. Quando era riuscito ad imprimere alla squadra un’indubbia personalità venne sostituito, seppure in modo meno drammatico di quel che è successo a Gasperini. Il suo posto è stato preso dal misterioso Malesani, probabilmente molto competente e dal probante passato, ma anche intriso da una sorta di semi-sorridente furbizia veneta, sempre a metà fra una sorridente dolcezza ed una subitanea rivendicazione di sé. Vedendo Inter - Genoa ci si rendeva benissimo conto che da un lato era alle prese con una inesistente linea d’attacco, priva dell’unico giocatore di talento, Palacio (Ze Eduardo risulta ancora brasilianamente attonito e Pratto e Caracciolo sembrano due consiglieri d’amministrazione in visita di cortesia e quindi faceva quello che poteva). Ma, che dall’altro reagiva con quell’ antica furbizia che mi fa pensare a tanti scrittori in qualche modo regionalisti: non so perché mi ricorda certi personaggi minori o minimi di “Piccolo  Mondo Moderno” di Antonio Fogazzaro (non “Antico”, che si svolgeva in Lombardia).
Questo è probabilmente Malesani. E dobbiamo tenercelo, accontentandoci delle sue indubbie capacità di fare squadra con un gruppo di giocatori appena radunati e tutti diversi fra loro. Ma anche di osare fino ad un certo punto e poi di rifugiarsi in difesa con regionale prudenza. Interpretando la parola più veneta del suo dialetto. E cioè: “Conforme!”, che significa al tempo stesso “secondo i casi” ma anche: “come lei preferisce”.
 Otterrà buoni risultati ma non dobbiamo pretendere troppo. Per fortuna i Genoani hanno un lungo allenamento in materia…

(battute 4.685)

Claudio G. Fava

13 dicembre 2011

Il dirupo di Di Rupo.

Misteri di un paese (forse) inesistente.

Implicazioni tragiche implicite nel cognome di un figlio di abruzzesi diventato, dopo tenacissimi negoziati, Presidente del Consiglio del Belgio.

Da molto tempo confesso di seguire con curiosità e con qualche incredulità gli sviluppi della politica belga. Ovviamente nei limiti delle mie possibilità, ad esempio consultando il sito web di “Le Soir”, di Bruxelles, probabilmente il maggior quotidiano vallone (mi piacerebbe sapere anche cosa si scrive ad Anversa, ma purtroppo non conosco il fiammingo o coloritura belga del neerlandese, forse il più riottoso fra gli idiomi germanici occidentali, insieme al tedesco, all’ inglese e al frisone). Per farla breve ricordo che da pochi giorni il Belgio ha risolto una crisi politica che durava da un anno e mezzo. Se ho fatto i conti esattamente da più di 500 giorni il Paese era di fatto amministrato dalla alta burocrazia, che per altro sembra essersela cavata benissimo. Dopo infinite e laboriosissime contrattazioni un uomo politico è riuscito a formare un governo composto da una dozzina di ministri e da un piccolo gruppo di vice ministri. Il problema di fondo del Belgio risiede nella sua stessa natura originaria. Dal 1831 ad oggi si sono succeduti sei sovrani, ed esattamente Leopoldo I (1831-1865), Leopoldo II (1865-1909), Alberto I (1909-1934), Leopoldo III (1934-1951), Baldovino (1951-1993) e poi suo fratello Alberto che appunto regna, dal 9 agosto del 1993, con il nome di Alberto II. In senso stretto  essi sono non “Re del Belgio” ma “Re dei Belgi”, per ribadire, credo, il senso di una sovranità non legata alle terre ma ai popoli. Appartengono alla famiglia Sassonia - Coburgo – Gotha, che nei secoli scorsi si è praticamente impadronita di quasi tutti i troni disponibili in Europa (oltre il Belgio, la Gran Bretagna, la Bulgaria e, in parte, il Portogallo; non entro nel merito di questa ultima successione che è complicatissima). Sin dalla sua nascita il Belgio fu diviso fra abitanti francofoni, i “valloni” e quelli di lingua olandese, i “fiamminghi”. All’ inizio i primi erano probabilmente i più numerosi, i più ricchi e quelli che, attraverso una aristocrazia ed una classe superiore di cultura francese, governavano la nazione. Nel giro di meno di due secoli tutto si è capovolto: i fiamminghi sono più numerosi (almeno il 53%), più ricchi e più autorevoli; i valloni sono ridotti ad essere formalmente il 36% circa. Nel restante 10% della popolazione (che nel 2010 era di 11.868.000 abitanti) credo vada computata la città di Bruxelles, che, almeno all’ 85% è un’isola francofona in territorio fiammingo. È proprio questa caratteristica impedisce che i valloni ed i fiamminghi, i quali credo cordialmente si detestino, si separino gli uni dagli altri dando vita a due piccole nazioni indipendenti. Gli abitanti di Bruxelles, in notevole maggioranza non vogliono rinunciare all’ uso del francese; i fiamminghi dal canto loro non ammettono di avere nel loro territorio un’ isola vallona. Il problema è terribilmente complicato da fatto che Bruxelles non è solo la capitale (ormai federale) del Belgio. Ma anche che ha moltiplicato la sua importanza diventando una virtuale, ma in parte anche sostanziale, capitale d’ Europa, con il suo carico di diplomatici e alti burocrati multilingui e di fatto quasi onnipotenti.
Insomma la situazione di fondo è tale che nessuno dei partiti prevalenti (tutti in doppia versione, vallone e fiamminga, salvo ovviamente il fortissimo movimento indipendentista fiammingo) riesce a risolvere la situazione. Il fatto che comunque una persona sia riuscita a saldare insieme partiti insanabilmente divisi è già abbastanza miracoloso. Il personaggio in questione si chiama Elio Di Rupo, nato in Belgio nel 1951 ma figlio di emigrati abruzzesi, giunti nel 1947 e provenienti da una cittadina dal nome romanzesco, San Valentino in Abruzzo Citeriore, sita a poco più di 50 chilometri da Pescara e con una popolazione, nel 2010, di 1.949 abitanti. Di Rupo ottenne un dottorato in chimica  presso l’ università di Mons. Fin da giovane militò nel partito socialista di lingua francese, di cui ormai da anni è l’ esponente incontrastato. Con altrettanta autorevolezza Di Rupo ha proclamato la sua omosessualità, che nessuno più gli contesta. Naturalmente adesso bisognerà vedere se e in che modo riuscirà a governare un paese che funziona soltanto se viene lasciato a se stesso per il disbrigo delle pratiche ordinarie. In ogni caso l’ impresa in cui è riuscito adesso è, comunque vada, assai notevole. Di Rupo ha detto pubblicamente che intende approfondire la sua conoscenza del fiammingo, il che è abbastanza significativo all’ interno di una minoranza che, sin da quando era maggioranza, ha orgogliosamente ribadito la sua intenzione di parlare e far parlare in francese (si tenga conto del fatto che obbiettivamente i francofoni fanno in genere una fatica del diavolo a imparare una lingua straniera).
Confesso che attendo con molta curiosità l’ opera di Di Rupo. Ma è evidente, anche se la maggioranza dei belgi credo non se ne renda minimamente conto, che il suo cognome, con un minimo spostamento, può diventare oggetto di un crudele gioco di parole. Di Rupo è un cognome ma “dirupo” è un sostantivo dall’ implicazione quasi tragiche. “Cadere in un dirupo” fa pensare alla conclusione di una crudele gita in montagna, ed è quindi un pessimo auspicio per un uomo che tenterà un’ operazione quasi impossibile, in un Paese che ha pochi motivi per restare unito e molti per dividersi. “Dirupo” in francese si dice “escarpement”, “diruparsi” suona “être escarpé”, ovvero “ essere dirupato”.
Speriamo che in Belgio non glielo faccia sapere nessuno.

3 dicembre 2011

SOLO LA PARIGI DEL PASSATO FUNZIONA NELL’EUROPA DEL PRESENTE

L’uscita sugli schermi dell’ultimo film di Woody Allen “Midnight in Paris” ripropone, in modo divertito e divertente, due temi diversi ma qui curiosamente connessi. L’uno è quello tipico della fantascienza, e quindi anche del cinema che alla fantascienza si ispira, dei viaggi avanti e indietro nel tempo. L’altro è quello della fascinazione che continua ad esercitare su appassionati di tipo diverso l’evocazione della Parigi degli anni ’20. Come ormai noto il film è centrato su di un personaggio che si chiama Gil, un intelligente sceneggiatore americano di cinema, appassionato di buona letteratura. Gil accompagna a Parigi la sua ricca e frivola fidanzata, che si lascia affascinare da un professore saccente, mentre lui prova una curiosa esperienza: allo scoccare della mezzanotte sale su un vecchia auto che praticamente quasi ogni sera lo “traslocherà” nella Parigi degli anni ’20. Per cui Gil potrà incontrare, chiacchierare e chiedere consigli a personaggi ormai mitici nella storia del costume, e del costume letterario in particolare, che in quella Parigi trovarono accoglienza, ospitalità, complicità e ispirazione. C’è fra di loro una buona spruzzata di fondamentali personaggi americani come Cole Porter, Zelda e Francis Scott Fitzgerald, Ernest Hemingway, Gertrude Stein, una piccola icona americo-nero-francese come Josephine Baker oltre a diversi idoletti d’epoca: Pablo Picasso, Salvador Dalì, Man Ray, Luis Buñuel, Matisse. Grazie ad un vecchio “fiacre” Gil si concede perfino una puntatina nella Parigi della Belle Époque, col can-can del Moulin Rouge e con Toulouse- Lautrec, Gauguin e Degas.
Tutto questo ricchissimo materiale retrospettivo è rievocato da Natalino Bruzzone in un suo gustoso brano pubblicato dal Secolo XIX del 30 Novembre. La redazione ha arricchito il testo con quattro immagini di quattro film appunto legati ai viaggi nel tempo (appunto “Time-lime”, “Terminator”, “Donnie Darko” e “Déjà Vu”) e dal canto suo Natalino ha giustamente collegato il tema “retro” del film a quelli evocati dal giornalista francese Dan Franck nei suoi libri. Essi sono complessivamente tre ed io li ho scoperti, quasi casualmente, grazie a dei regali. Uno di Piero Pruzzo per il mio 82° compleanno e gli altri due proprio da Bruzzone per rimeritarmi di un minimo piacere che gli avevo fatto. Essi nell’ ordine originale di pubblicazione in Francia sono: “Montmartre & Montparnasse” (in originale: “Bohèmes”, Calmann – Lévy, 1998), “Libertad!” (in originale: idem, Editions Grasset & Fasquelle, 2004) e “Mezzanotte a Parigi” (in originale: ”Minuit”, Grasset & Fasquelle, 2010). Le tre versioni italiane sono state pubblicate tutte da Garzanti rispettivamente nel 2000 e 2004, nel 2005–2007 e nel 2011. Va ricordato che, sempre nell’ edizione italiana, “Mezzanotte a Parigi” reca una specie di sommario chiarificatore: “La capitale della cultura mondiale nel momento più difficile: l’occupazione nazista”. I tre libri testimoniano di un quasi incredibile lavoro di ricerca da parte dell’autore che ha un nome dal suono americano ma che in realtà sembra essere veramente francese. È nato il 17 ottobre (come me!) ma un po’di tempo dopo, nel 1952, a Parigi. È sceneggiatore, romanziere e sembra che abbia scritto ben 62 libri come “négre” di altri autori! Qui, come dicevo, dà prova di una maniacale capacità di recuperare nomi e avvenimenti e di restituire  momenti diversi della vita francese, visti sostanzialmente attraverso un mirino centrato su Parigi e articolati in tre periodi decisivi. Infatti “Montmartre & Montparnasse” (nell’ edizione italiana reca il sottotitolo “La favolosa Parigi di inizio secolo” e inventa una splendida copertina grazie ad una fotografia di André Kertész: “Café du Dome”, 1925) ricostruisce la vita nella capitale francese in un momento che sicuramente piacerà a Woody Allen: i primi 30 anni del Novecento animati da quei personaggi fondamentali che, in parte, il cineasta ha utilizzato nel suo film. E cioè Gertrude Stein e Picasso, Modigliani e Hemingway a cui sommarne decine e decine di altri, da Apollinaire a Cocteau, sino ad indagare su centinaia e centinaia di nomi che consentono di ricostruire appunto quel momento geniale della vita parigina in cui tanti nostri contemporanei si riconoscono e vorrebbero rituffarsi, come fa appunto Woody (il film non l’ ho ancora visto e perciò non do giudizi di sorta ma quel che mi sembra importante sono il tema di fondo e la vocazione sentimentalmente retrospettiva). In un certo senso è la stessa Parigi, frivola, luccicante, agitata, meravigliosamente felice di essere sopravvissuta ad una guerra foriera di spaventosi massacri, che fa da sfondo al romanzo “Le Bal du Comte D’Orgel” del prodigioso e misterioso Raymond Radiguet, un piccolo genio (due libri in tutto; l’ altro è “Il “diavolo in corpo”) che attraverso la mediazione di Cocteau attinse al talento e morì a 20 anni. Che cosa si nasconde dunque in questa città di cui ci attira sempre non il presente ma il passato? Questa vocazione a un viaggio all’ indietro nella sua storia si cela nell’ animo di migliaia di intellettuali, francesi ma soprattutto non francesi, che non cessano di essere affascinati da un percorso che  non si cessa di riscoprire. Non è un caso che negli altri due libri di Dan Franck, e cioè “Libertad!” e “Mezzanotte a Parigi”, siano ricostruiti, nel primo, l’atteggiamento della città come entità culturale nei confronti dei drammi politici della parte iniziale del XX secolo, sino all’ esplosione decisiva della Guerra civile spagnola. Nel secondo il comportamento di Parigi e dei parigini nel periodo delicatissimo che andò dal 1940 al 1944, quando molti dei suoi più raffinati esponenti letterari ebbero rapporti complessi, e non sempre nitidi, con le autorità tedesche occupanti e con quelle di Vichy, autorevoli, almeno sino al novembre 1942, perché designate a reggere la parte non occupata della Repubblica francese. Riscoprire come in una città affamata e perplessa ci siano élites politiche intellettuali che riescono a condurre una vita piacevole gastronomicamente e intensa sotto il profilo politico e letterario, non è certo una novità per chi abbia un minimo di conoscenze storiche al riguardo. Ma qui è una tela immensa di carriere, furbizie ed egoismi vari che Franck ricostruisce grazie ad un censimento quasi maniacale.
Ancora una volta Parigi dimostra la sua vocazione più vera, e cioè quella di riuscire ad animare contemporaneamente molti periodi storici diversi e paralleli. In questo senso anche Woody Allen è uno dei celebranti di un rito che di fatto non si arresta mai.
(battute: 6.576)