Blog - Crediti


L'audio e i video © del Blog sono realizzati, curati e perfezionati da Lorenzo Doretti, che ha anche progettato l'intera collocazione.
L'aggiornamento è stato curato puntualmente in passato da diverse collaboratrici ed attualmente, con la stessa puntualità e competenza, se ne occupano Laura M. Sparacello ed Elisa Sori.

29 settembre 2011

Per piacere, intercettate! - Audio - Romolo Ansaldi


C’E’ IN ONDA UN FEDELE  DI GEORGES SIMENON!
Appassionante telefonata con Romolo Ansaldi, un grande collezionista di libri e di memorie simenoniane. Egli possiede tutte le prime edizioni del grande scrittore di Liegi (autore di centinaia di libri) e gliene mancano solo quattro.

Mi auguro che per molti lettori si tratti di una piacevolissima scoperta. Il dottor Ansaldi ha coronato una vita di lavoro diventando a Genova un noto commercialista, collezionando tre lauree e concedendosi il piacere di soddisfare alcuni gusti esclusivi. Non solo, grazie ad una rete di fiducia di “bouquinistes” parigini, tutti i libri del padre di  Maigret, ed i testi originali di Louis-Ferdinand Céline (Louis-Ferdinand Auguste Destouches, 1894/1961), ma anche una collezione completa delle macchine fotografiche Leica e delle pipe Dunhill acquisite alla fonte.

22 settembre 2011

"I MIEI PRIMI SOTTOTITOLI" PER FILM DOC

Qualche tempo fa il mio amico Renato Venturelli, da qualche numero valente direttore di "Film Doc" , mi ha chiesto, in funzione di una programmazione di film sottotitolati previsti al cinema "City" di Genova, un pezzo appunto sui sottotitoli nel cinema. Come molti genovesi sanno "Film Doc" è una rivista pubblicata a cura dell'Agis (redazione di Genova, Via Santa Zita 1/1 sc.sin. telefono: 010/56.50.73) fondata molti anni fa e validamente diretta sino ad epoca recente dal predecessore di Venturelli, un altro vecchio amico, Piero Pruzzo, al quale mi lega un legame professionale che risale al dopoguerra. Lavorando in fretta e furia mi sono lasciato trascinare dai ricordi ed ho buttato giù un breve elzeviro (esattamente di 3.573 battute) profondamente dominato da gli echi di un mondo scomparso in cui mi accorgo, ogni giorno con un certo stupore, di essere vissuto. Con il permesso di Venturelli ho deciso di pubblicarlo nel Blog, ricordandovi anche che quello di "Film Doc" è il numero 94 di Settembre-Ottobre 2011.
Mi auguro che qualche amatore di cinema  possa trovarlo interessante.

E’ un avvenimento minimo ma, non so perché, me ne sono ricordato per tutta la vita (che ormai è lunghetta). Nell’estate del 1945 ero ormai sfollato in campagna vicino a Novi Ligure da almeno due anni e in quei primi mesi di fine della guerra assorbivo tutto a doppia velocità: soprattutto il sapore inebriante di miele delle sigarette americane (del danno mi sono accorto cinquanta anni dopo !) e, senza paura di bombardamenti, l’andar liberamente in bicicletta a Novi, con i suoi giornali nuovissimi ed i suoi ghiotti cinematografi (ora tutti scomparsi). Un pomeriggio vado appunto a Novi ed entro in un cinema, forse l’Iris. Mentre  sono  ancora mezzo dentro e mezzo fuori dalla sala, scosto una di quelle tende pesanti che usavano allora e odo una voce soffocata ripetere una strana parola: “Tughedèr, Tughedèr”. Entro e vedo sullo schermo un attore che parla in una lingua che non conosco (allora il “mio” idioma straniero era  il francese) e leggo una parola sovrascritta: “Insieme ! Insieme !”.
Fu quello il mio primo, indimenticabile incontro con i sottotitoli al cinema. L’attore era Charles Boyer, la parola che diceva era “Together, Together!” che suonava vagamente milanese così come l’ho prima trascritta perché la pronunciava Charles Boyer, interpretando con il suo accento francese un avventuriero rumeno in cerca di una zitella americana da sposare per entrare negli Stati Uniti. Il film era “La porta d’oro” (Hold Back the  Dawn, 1941) di Mitchell Leisen, al fianco di Boyer Paulette Goddard e Olivia De Havilland, il Morandini 2011 del mio amico Morando gli dà ben tre stellette, elogiando il protagonista e gli sceneggiatori Billy Wilder e Charles Brackett. Dopo quasi 70 anni, eccetto la trama, ricordo tante cose e  soprattutto l’emozione di quei sottotitoli mai visti prima, che mi aprirono un universo cinematografico ancora ignoto  e che in Italia furono importati sino a tutto il 1945 dal benemerito PWB, il Psychological Warfare Branch anglo-americano (nel 1946 a Roma erano ripresi  i doppiaggi ed, ovviamente,  con la fine dell’occupazione l’esperimento non ebbe seguito).
Scopersi così il duplice piacere del cinema sonoro. Da un lato l’ingegnosa sovrapposizione delle  voci nostrane a quelle originali, intarsiate in un altro corpo da attrici ed attori di  straordinaria duttilità. Dall’altro il gusto letterario dell’immagine originale animata, se così si può dire, dal fiato primigenio di ogni personaggio, insieme alla voce, componente irrinunciabile della personalità di ognuno di noi. Affiancando così al piacere della lettura quello delle battute e dei rumori della presa diretta. Che è la regola per il cinema anglosassone e per quello di molte altre nazioni.
Come è noto il doppiaggio di fatto totale  in uso in Italia è anche frutto, oltreché di una profittevole  concessione ai gusti del pubblico, anche della legislazione fascista che di fatto proibì in modo esplicito di far udire al cinema lingue che non fossero l’italiano (decisione doppiamente paradossale in un mondo ancora largamente dialettofono: si spiega così la famosa battuta di Ennio Flaiano secondo cui  l’italiano è la lingua in cui parlano i doppiatori).
Professionalmente ho diviso le due passioni: alla Rai ho commissionato migliaia  di ore di doppiaggio e da 14 anni sono il direttore artistico del più noto Festival italiano del doppiaggio. Come cinefilo ho sempre gustato l’emozione di cogliere insieme la parziale o totale traduzione scritta di un dialogo che contemporaneamente mi  scaturisce nelle orecchie.
E tutto per merito di Charles Boyer e del cinema “Iris”.
(battute: 3.573)

CLAUDIO G. FAVA

21 settembre 2011

A FIOR DI PELLE E A FIOR DI LIBIA

In attesa di riuscire a realizzare nuove telefonate, che mi sembra interessino abbastanza i lettori, mi sono lasciato trascinare dai miei stessi istinti a buttar giù queste righe che rispondono veramente a due interrogativi che mi sono posti molto spesso. Vedrete quali sono e come ho cercato di rispondere, a modo mio e con ridotta autorevolezza.
Se qualcuno mi darà una mano gliene sarò molto grato.




Ci son due cose che mi ronzano in testa da molto tempo, e per le quali non dispongo di soluzioni accettabili. L’uno è il problema della Libia, l’altro è il problema, non meno misterioso, dei tatuaggi. Vediamoli entrambi da vicino, in ordine inverso rispetto a quello enunciato nel titolo.
Problema della Libia. Debbo dire che sin dall’inizio questa guerra frettolosa, dichiarata dalla NATO ma, di fatto, mi sembra di capire, voluta e combattuta dalla Francia e dalla Gran Bretagna, ha destato in me molte perplessità. Da un lato la decisione insolitamente fermissima di Sarkozy e di Cameron di procedere a una rigida guerra aerea grazie alle basi italiane è venuta dopo anni di forse inevitabile ma certo deplorevole soggezione di fronte a Gheddafi. Non dico che tutti siano arrivati a baciargli la mano come ha fatto, seppur scherzosamente, Berlusconi ma è certo che, in passato, i governi francesi e inglesi sono stati estremamente tolleranti e collaborativi nei confronti del colonnello libico per svoltare poi, con inaspettata fermezza, in una micidiale guerra aerea. E’ proprio il carattere di questo conflitto che desta le maggiori perplessità. Sino a pochi giorni fa abbiamo avuto, sia in televisione che nella stampa, pochissimi dati  sia sui reparti cosiddetti “lealisti” (cioè quelli rimasti, non si sa se per disperazione o per devozione tribale fedeli a Gheddafi) che su quelli che tutte le fonti d’informazione occidentali continuano a definire “i ribelli”.  Mi ricordo che all’inizio della Repubblica Sociale i primi partigiani, che nebulosamente si formavano nei monti e nelle campagne, vennero subito definiti dalla gente “i patrioti”, con un inconscio ritorno ad una terminologia nobilmente risorgimentale, mentre tutte le fonti neofasciste le chiamavano sprezzantemente, se non peggio, “i ribelli”. Né la Rai né la Mediaset hanno ancora compiuto questo passo decisivo, conservando una neutralità formale smentita dal tono generale delle informazioni. Dei “ribelli” si è visto sino ad ora poco e male: in genere giovanotti barbuti e “smandrappati” che s’aggirano con infradito e mutandoni sparando continuamente per l’aria armi automatiche le cui munizioni essi farebbero meglio a conservare per il nemico. Non si capisce se qualcuno e come li comandi e li organizzi. Non si capisce se tutte le armi automatiche di cui dispongono siano state catturate al nemico o provengano da altre fonti, presumibilmente occidentali e in qualche modo legate alla Nato. Non si capisce quali rapporti di forza e di eventuale disciplina tengano in qualche modo uniti le forze ribelli, mentre ogni tanto, abbastanza raramente, appaiono gruppi ristretti di ufficiali superiori in divise smaglianti ma non si sa bene di quale esercito, se non quello del “nemico”. Così come non si capisce bene come abbiano potuto organizzarsi così rapidamente e con esiti apparentemente vittoriosi all’interno di uno stato dittatoriale ferreamente dominato da Gheddafi da oltre quarant’anni. Egualmente è difficile stabilire, in base alle rade notizie filtrate dai nostri telegiornali ed anche dalla stampa scritta, come e in che modo si sia formata la pur incompleta architettura statale centrata sul “Governo” provvisorio che in qualche modo coordina o riassume i “ribelli”. Sembra impossibile che risultati militarmente abbastanza incoraggianti di questo genere siano stati raggiunti dai “ribelli” soltanto, senza la fattiva e decisiva presenza di specialisti inglesi e francesi dei rispettivi eserciti . Se c’è una guerra destinata all’intervento assoluto dei selezionatissimi componenti lo ”Special Air Service”, (il famoso SAS britannico da cui derivano quasi tutte le “teste di cuoio” dei paesi occidentali)  è sicuramente questa. Così come mi stupirei se i francesi non avessero utilizzato qualcuno dei reparti che concorrono a formare il cosiddetto COS, “Commandement des opérations speciales”. Ad esempio i paracadutisti del primo reggimento della fanteria di marina (1er RPIMa), i dragoni paracadutisti del 13° RDP, i diversi “Commandos” della Marina Nazionale, eccetera. Dato l’impegno formale a non impiegare truppe di terra, dato che la decisione delle Nazioni Unite sembra autorizzare soltanto l’uso dell’arma aerea per tutelare le popolazioni civili, ci si chiede come l’intervento si sia articolato nelle inevitabili scadenze costituite appunto dall’organizzazione di reparti, per quanto rudimentali, di fanteria ed artiglieria.
Autore Himasaram
Qualche informazione di più al riguardo non guasterebbe, soprattutto per spiegare un particolare su cui fino adesso televisioni e stampa stessa sono state il più possibile imprecise.
Come mai i “ribelli” dispongono di tante, e tutte nuovissime, bandiere libiche pre-Gheddafi? Si tende a non dirlo ma quel vessillo a tre colori orizzontali, con una mezza luna e delle stelle al centro, che si vede così spesso sventolare sulle automobili degli insorti, è quello della Libia di Re Idris, il quale Re Idris fu scelto dagli inglesi e dai francesi per reggere appunto il cosiddetto Regno di Libia. Il Regno, unendo Tripolitania, Cirenaica e Fezzan, doveva garantire il controllo su quelle terre da parte degli occidentali ed al tempo stesso  togliere ogni possibilità di ritorno agli italiani. I quali avevano, si, perso la guerra, ma avrebbero potuto ripresentarsi con imprese industriali varie. Re Idris governò dal 24 Dicembre 1951 sino al 1 Settembre 1969, quando un ambizioso ufficiale indigeno, il futuro colonnello Gheddafi (allora credo fosse solo capitano) rovesciò il Re e la monarchia per istituire un regime dittatoriale e più apertamente arabizzante, che sta crollando solo adesso. Il nome completo del re era Sidi Muhammad Idris al-Mahdi al-Senussi, era nato  a Giarabub (oasi resa famosa nella seconda guerra mondiale per la resistenza di un piccolo presidio italiano, consacrata da un film e da una canzone notissima) il 12 marzo 1890 e morì al Cairo il 25 maggio del 1983. Suo nipote Sayyid Hasan I° di Libia Regnò solo per un giorno e fu appunto detronizzato da Gheddafi. Idris era stato scelto perché era il nipote di Sayyid Muhammad bin’ Ali al-Senussi (o Sanusi), appunto il fondatore della confraternita detta dei Senussi o “Senussiyya”. Essa sosteneva che i mussulmani non dovevano seguire ciecamente le quattro classiche scuole giuridiche sunnite ma dovevano applicare la legge islamica vivendo attraverso il lavoro e cercando di recuperare l’antica “via mediana” dei primi mussulmani. Le tribù beduine trovarono di loro gradimento l’austerità implicita nel messaggio della Senussiyya. La quale combatté decisamente l’espansione francese nel Sahara algerino e l’occupazione italiana della Libia. Forse in un secondo tempo la sua opposizione agli italiani si indebolì ma è certo che contribuirono a questo le nostre dure repressioni della rivolta dei “ribelli” libici (certo non peggiori di quelle esercitate nelle loro colonie dai francesi e dagli inglesi). In ogni caso il regno di Re Idris, accusato da più parti di corruzione e di indulgenza verso i corrotti, credo  nella sostanza sia stato fondamentalmente bonario e rispettoso delle persone dei beni dei sudditi e degli italiani che erano rimasti abbastanza numerosi a vivere in una ex colonia su cui avevano versato molto sangue “ribelle” ma nel quale avevano finito col costruire case e quartieri credo ancora oggi palesemente rintracciabili. Re Idris, apertamente appoggiato dai francesi e dagli inglesi che lo avevano posto sul trono, era ovviamente visto come un potenziale o reale traditore delle aspirazioni e della moralità di molti mussulmani. Credo sia stato questo l’argomento fondamentale per giustificare l’insurrezione di Gheddafi che prendeva esempio da quello che era successo a suo tempo, sempre ad opera di militari, nell’Egitto di Re Faruk diventato quindi l’Egitto di Nasser.
Tutti questi antecedenti sono impliciti od espliciti nella attuale rivolta libica? I “ribelli”, si battono per gli eredi di Re Idris (ne esistono e credo siano anche articolati in almeno due rami) oppure issano genericamente la bandiera del regno per sventolare qualche cosa che sia esplicitamente ostile ai simboli del potere del colonnello? Fra l’altro sarebbe interessante stabilire se l’esplicita polemica di Gheddafi contro le repressioni esercitate sui libici dall’esercito italiano (si ricorderà che egli venne a Roma portando sulla tunica la fotografia di un capo libico fucilato dalle nostre truppe) sia stata veramente condivisa dalla maggioranza dei sudditi del colonnello. I quali, durante i circa trent’anni dell’occupazione italiana, avevano finito, almeno all’apparenza, con l’accettare vagamente la nostra occupazione e a collaborare con le nostre forze armate fornendo “zaptié”, meharisti, i primi paracadutisti del Regio Esercito e, almeno agli inizi della guerra, truppe di fanteria. Come è noto fu solo con l’avvento di Gheddafi che i bonari “pieds noir” italiani furono totalmente espulsi.
Sono questi alcuni interrogativi riguardanti questa guerra della Nato, a cui abbiamo fornito una partecipazione al tempo stesso ampiamente articolata ma anche vagamente riluttante, che sembra sempre finita ma che ogni tanto (anche mentre detto queste righe) riprende con rabbiosa determinazione. Fino a che punto giunge la fornitura di armi (quelle di tutti i tipi che si vedono brandite dai “ribelli” non possono essere tutte frutto di materiale catturato al nemico) ? Come si esplica l’opera, assolutamente non esplicita ma largamente prevedibile in termini ragionevoli, dei “consiglieri” anglo-francesi e forse anche italiani? Come si articola il comando delle truppe degli insorti, che apparentemente sembrano in preda ad una grande confusione e ad una totale indisciplina?
Mi auguro che il tempo, e magari qualche amichevole corrispondente, mi forniscano attendibili risposte.
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Arrivo all’altro argomento di questo breve pezzo, che ho introdotto con il titolo “A fior di pelle”. Proprio di pelle umana intendo parlare, cercando di capire quel che succede con la fulminea diffusione dei tatuaggi. Chi segue in televisione i vari campionati di calcio avrà rilevato che in molti paesi (e segnatamente in Italia) si è amplissimamente diffusa  la moda dei tatuaggi per i calciatori. Almeno un terzo di essi, se non addirittura la metà, sfoggia braccia e spesso torsi completamente istoriati da tatuaggi di ogni tipo. Alcuni meramente ornamentali, altri fitti di scritti e di numeri, altri ancora esplicitamente figurativi, con visi umani e simboli disseminati ed a volte colorati.

Autore kgberger
Che cosa è successo? Credo che la generazione dei Rivera, dei Riva, dei Boninsegna ed anche  molti calciatori delle generazioni successive ignorassero persino l’esistenza stessa dei tatuaggi. I quali per molti anni sono stati confinati nelle tradizioni simbologiche delle popolazioni europee (o dei discendenti di europidi nelle varie colonie ed ex-colonie di cui il globo era costellato) al mondo relativamente ristretto della delinquenza organizzata. E particolarmente di quella romanzesca collocazione riservata ai protagonisti più duri ed intransigenti nel mondo del crimine. Penso ai “fort-à-bras”, protagonisti delle più terribili avventure collocate nel mondo della malavita francese. Ovvero all’epica della inane ma fortissima rivolta dei condannati in stile “Papillon”, confinati nelle spietate prigioni e nella severa libertà della Guayana che, dal 1852 al 1951, ospitò la famigerata “Isola del Diavolo”.
Tutto questo mondo pittoresco e spietato, feroce e circoscritto, di colpo si è installato intorno a noi. A che cosa si deve nel mondo occidentale l’aumento senza riserve delle botteghe di tatuaggio un tempo confinate nei “quartieri riservati” delle colonie semi-dimenticate di un tempo? Perché quegli stessi calciatori, che entrando in campo si fanno il segno della croce dopo aver bizzarramente toccato l’erba del prato, scoprono poi decine di centimetri quadrati di pelle che sembrano prelevati dai libri di etnologia di un tempo riservati alle popolazioni “selvagge”?
Me lo sono chiesto moltissime volte, guardando le partite di calcio in televisione, ma l’ho chiesto anche in giro ed a persona di varia conoscenza e non ho mai ricevuto una attendibile risposta.
Mi farebbe piacere, ma forse esigo troppo, che me la fornisse qualcuno dei miei gentili corrispondenti.

16 settembre 2011

A DOMANDA RISPONDE

Rispondo ai post inviati a proposito di due diversi argomenti.
Per quel che riguarda la telefonata a Folco Quilici ringrazio Mirko per i complimenti a me ed a Folco, al quale dovrò chiedere una percentuale sugli incassi visto che Mirko si accinge a comprare i suoi libri. Grazie anche a Matteo ed a Davide Barranca, al quale perdono ogni qualsiasi, eventuale mancanza di assiduità ed al quale porgo i miei complimenti per aver riportato un dato-24 audio e 46 video- che egli dice essere presente sul sito ma di cui non mi ero assolutamente accorto.
Altri tre post sono stati occasionati dal mio pezzo "Smiley Forever". Uno è di Natalino (Bruzzone) che mi dice di sentirsi "onorato come il capitano di Wayne quando riceve il suo nuovo orologio d'argento". Non credo che ci sia un lettore che non abbia colto la citazione. Ma per eventuali distratti ricordo che è un' esplicita allusione al personaggio del capitano Nathan Cutting Brittles impersonato impareggiabilmente appunto da John Wayne nel capolavoro militare di John Ford "I Cavalieri del Nord Ovest" (She Wore a Yellow Ribbon, 1949). L'orologio è quello che gli regalano i soldati del suo squadrone quando Brittles raggiunge l'età della pensione e deve lasciare il comando (tutto finisce bene, perchè il finale riguarda proprio il capitano che mentre cavalca solitario viene raggiunto da un sottufficiale da cui apprende di essere stato nuovamente arruolato, se ricordo bene con aumento di grado, a capo di uno speciale gruppo di esploratori). Mi riservo di ritornare sull'argomento a proposito di altri due post. Uno di Anonimo il quale mi chiede se in Italia esiste il genere spionaggio e un autore celebre. Risponderei di no all'ultima parte della domanda mentre la risposta molto più complessa per la prima parte. Il genere esiste senz'altro, ed è praticato da autori i quali usano sia il loro cognome che pseudonimi generalmente anglosassoni. Ma mi riservo di riflettere meglio sull'argomento e di fornire una risposta più articolata. Per quel che riguarda la lunga e affettuosa missiva di M ringrazio per i complimenti riguardanti il mio "baretto" e mi riservo anche qui di inviargli una risposta, anch'essa più articolata, circa gli sceneggiatori italiani. Approfitto impudicamente dell'occasione per ricordare che il primo, grande ciclo di omaggio ad Age e Scarpelli fu organizzato da me a Rai Uno sul finire degli anni settanta, in un' epoca in cui i due geniali sceneggiatori erano ancora mal visti, forse perchè avevano iniziato a lavorare per Totò.
Approfitto infine di questa sosta epistolare per segnalare l'opera di un ottimo documentarista, Claudio Costa (che è romano nonostante il cognome) il quale sta portando a termine una decisiva inchiesta in video sui superstiti  che hanno partecipato in prima persona alla guerra civile succeduta all'8 Settembre 1943. Non è necessario spiegare perchè a distanza di ben più di sessant'anni non è facile trovare soggetti utili ai fine del documentario e in grado di farsi intervistare. Fino ad ora Costa ne ha recuperato 11 (credo che almeno uno sia morto dopo l'intervista) così divisi: quattro dalla parte della RSI, di cui uno nella X Mas e tre piloti dell'aviazione repubblicana. Invece ben sei sono quelli che hanno combattuto dalla parte del governo del sud: uno partigiano nelle Brigate Garibaldi e ben sei che hanno vestito la divisa del Regio Esercito, sia nel Corpo Italiano di Liberazione che in Marina ed in altri reparti delle forze armate (uno dei soggetti, Corti, l'ho suggerito io e l'altro, Beltrami, è stato segnalato e raggiunto grazie a Lorenzo Doretti). Costa mi segnala che i DvD sugli ex combattenti sono in vendita a Milano presso la Libreria Militare e in internet presso l'Aviation Collect Shop. La Libreria Militare (francamente ne ignoravo l'esistenza) è situata in via Morigi 15 (angolo via Vigna) ed è raggiungibile per telefono (anche fax) allo 02/89.01.07.25 ed elettronicamente all'indirizzo libmil@libreriamilitare.com. Alla domenica il negozio è chiuso, al lunedì è aperto dalle 14 alle 19 e dal martedì al sabato dalle 10 alle 19. Altre precisazioni possono essere chieste direttamente a Claudio Costa via e-mail: k.kosta@libero.it

13 settembre 2011

Per piacere, intercettate! - Audio - Folco Quilici

In quasi sessant’anni di lavoro ininterrotto Folco Quilici, pioniere della cinematografia marinara, è stato collaboratore di quotidiani e di periodici, storiografo, romanziere, fotografo, divulgatore, animatore televisivo, di fatto spaziando in tutti i campi possibili del giornalismo della parola scritta e delle immagini ferme e in movimento. Un lunga telefonata di più di un’ora rievoca una vita che mi sembra straordinariamente interessante e appassionante.  Da quando, bambino, seppe a Ferrara che suo padre era stato abbattuto su un aereo a fianco di Italo Balbo sino ad oggi.

6 settembre 2011

SMILEY FOREVER

Alla Mostra di Venezia è stato presentato "Tinker, Tailor, Soldier, Spy" di Tomas Alfredson, versione cinematografica, dopo quella televisiva con Alec Guinness, de "La Talpa". Il famoso romanzo di John Le Carré è centrato sul personaggio più noto e più importante inventato dallo scrittore inglese, George Smiley, complesso agente segreto di raffinati gusti letterali e di geniali invenzioni spionistiche.


Per motivi di salute da molto tempo non vado più liberamente al cinema e, a maggior ragione, non partecipo più come un tempo al Giro d'Europa dei Festival cinematografici che costituisce una delle forme più esplicite dello snobismo dei critici. Pertanto da anni non vado più a Venezia e conservo una certa nostalgia del tipico sapore crepuscolare del Lido, delle sue nebbioline e dell'umidità trasudata dal mare Adriatico (piatto come una tavola, così diverso dagli strapiombi subitanei del Tirreno ligure) oltreché dell'affettuoso sapore di club, tipico dell'albergo "4 Fontane". Tuttavia a leggere le cronache dei colleghi sulla Mostra in corso ho provato una certa invidia al pensiero che essi hanno già potuto vedere "Tinker, Tailor, Soldier, Spy" di Thomas Alfredson. Perché nutro da tempo una grande nostalgia di Smiley, l'immortale personaggio creato da John Le Carré, forse una delle più grandi spie di tutta la narrativa inglese. Smiley è l'apoteosi del vero "007", non quello atletico, furbo, superficiale e donnaiolo creato da Ian Fleming (il quale, probabilmente, proiettò nel suo personaggio quel che avrebbe desiderato di essere lui stesso). Al contrario Smiley, perfetta simbologia di quel momento decisivo dello spionaggio successivo alla fine della seconda guerra mondiale che si incarnò nel famoso "Check-Point Charlie" di Berlino, è uno strumento essenziale per comprendere mezzo secolo di storia del mondo. Le Carré (David J.M. Cornwell che, essendo inglese sino alla punta dei capelli, si è inventato uno pseudonimo francese, però stranamente pronunciato senza accento finale) è sicuramente un piccolo genio e come molti geni è bizzarro e incontrollabile. Dopo aver elevato un monumento alla lotta dello spionaggio britannico (il Secret Service, chiamato anche MI6 e, nei romanzi di Le Carré il "Circus") contro l'URSS, egli si è adesso convertito ad una sorta di battaglia capricciosa, di sapore "gauchiste", contro le multinazionali (nel numero 36 di “Film TV c’è un mio brevissimo ritratto del personaggio e del tema suo di fondo). Ma accade a Le Carré quel che era già successo ad Arthur Conan Doyle con Sherlock Holmes. Il personaggio si è svincolato dall'inventore ed è diventato una sorta di creatura autonoma, la quale sembra vivere di vita propria ed essere rampollata, per virtù magiche, a pari di Minerva, dal cervello stesso di Giove. Smiley, come è noto, è un intellettuale di buona cultura universitaria, linguista raffinato, padrone di una conoscenza perfetta del tedesco al punto di poter essere considerato bilingue, cultore della poesia barocca germanica ma completamente realizzato nell'attività segreta e rabbiosa dello spionaggio internazionale. Dall’esperienza del tempo di guerra ha ricavato una sottile conoscenza dei complicati intrighi che dividono e uniscono i mondi delle spie e, ancor più, dei sottili e torbidi segreti che ricoprono l’attività delle cosiddette “talpe”. Cioè degli agenti segreti che tradiscono a beneficio dell’avversario, resi tristemente celebri, proprio nello spionaggio della Regina, da quelli che furono definiti “I cinque di Cambrige”, inglesi colti e ben nati (ovviamente provenienti dalla famosa Università) capeggiati da “Kim” Philby, postisi volontariamente per molti anni agli ordini del K.G.B. e responsabili della morte di molti agenti britannici. Non è un caso che tutta la seconda parte dell’esperienza del personaggio di Le Carré sia caratterizzata dal fatto che egli, posto ormai da tempo in pensione, viene richiamato in servizio proprio per individuare una “talpa” (nell’originale inglese “mole”) annidata ai vertici del “Circus”. Uno dei temi fondamentali della saga di Smiley è costituito dal fatto che la sua lotta sostanziale si svolga contro uno dei capi del KGB chiamato "Karla", che lui ha conosciuto in passato e che riuscirà poi a far cadere svelando l'amore nascosto del russo per una figlia segreta. In molti hanno voluto vedere in "Karla" un'allusione ad un personaggio veramente esistito e cioè il famoso "Misha" Wolf, capo celeberrimo dello spionaggio estero della "Stasi", la terribile polizia segreta della D.D.R. Egli è stato veramente, pur essendo assolutamente vero, un personaggio da romanzo: lui e il fratello Konrad, figli di ebrei comunisti tedeschi, si salvarono entrambi in URSS, divennero bilingui e tornarono in Germania nel dopo guerra. "Misha" si mutò appunto in una celebre spia e Konrad in un regista abbastanza noto nella Germania-Est. In Italia è di fatto conosciuto solo un suo film del 1959, "La stella di David", sulle persecuzioni dei tedeschi contro gli ebrei bulgari: a mia memoria è l'unico film in cui si senta parlare lo spagnolo medievale che fu per secoli nei Balcani la lingua privata degli ebrei sefarditi, di origine spagnola, espulsi dalla Spagna nel 1492 da Isabella I di Castiglia e Ferdinando II d'Aragona.

L'altro tema fondamentale della saga di Smiley è che la sua ingegnosa e paziente opera di smascheramento della "talpa" sia anche legato al tradimento della frivola e altolocata moglie Ann ed il fatto che “la talpa” sia poi un suo collega da tanti anni nonché l’amante della stessa Ann. Sembra che la struttura del testo sia stata rispettata nell’attuale film di Tomas Alfredson come, mi pare di ricordare, lo fu nelle precedenti versioni televisive del romanzo. Furono due e di notevole livello. Per l’esattezza si tratta di uno sceneggiato del 1979, anche esso intitolato in originale “Tinker, Tailor, Soldier, Spy” e in italiano “La talpa”, in sette episodi da 60’ ciascuno, con una splendida interpretazione di Alec Guinness nella parte di Smiley. Di questo sceneggiato ho trovato anche i titoli degli episodi che sono i seguenti: I) Returne to the Circus; II) Tarr Tells his Story; III) Smiley Tracks the Mole; IV) How It All Fits Together V) Tinker Tailor; VI) Smiley Sex a Trap; VII) Flushing Out The Mole. Seguito nel 1982 da un “sequel” di sei episodi, in italiano “Tutti gli uomini di Smiley” (nell’originale Smiley’s People), sempre interpretato da uno straordinario Guinness. Appunto sostanzialmente fedeli alla struttura dei romanzi di Le Carré, entrambi gli sceneggiati restituiscono tutti i motivi fondamentali dei romanzi, anche se forse il complicato retroterra letterario di Smiley è in qualche modo sottaciuto. Va detto che Smiley, a mia conoscenza e prima del film di Alfredson, è tornato in un precedente filmTV del 1991 il cui titolo originale (forse non è mai stato importato in Italia e comunque non sono riuscito a rintracciare un titolo italiano) è “Murder of Quality”, di Gavin Millar, tratto dal secondo romanzo di Le Carré (titolo italiano del libro “Un delitto di classe”) che non è una “Spy Story” ma ha inaspettatamente le caratteristiche e le movenze di un giallo, ed il retroterra spionistico del personaggio agisce solo come un meccanismo del passato. Infatti il film è centrato su un assassinio compiuto all’interno di Carne School, tipico istituto scolastico ad uso della classe alta inglese: un antica collaboratrice di Smiley nei servizi segreti durante la seconda guerra mondiale lo prega di indagare sul fatto e Smiley, naturalmente, scopre il colpevole. Il protagonista è interpretato da Denholm Elliott, eccellente attore di cinema e di teatro, scomparso purtroppo nel 1992.

Vorrei precisare che il titolo originale “Tinker, Tailor, Soldier, Spy” rappresenta la furbesca utilizzazione da parte di Le Carré di un’antica cantilena inglese per bambini che dice letteralmente

“Tinker, Tailor,

Soldier, Sailor,

Rich Man, Poor Man,

Beggar Man, Thief.”

Come si vede nella seconda riga la parola “Sailor” è sostituita da “Spy”, con una risonanza allusiva che è evidentemente famigliare per un inglese ma che su di noi non ha il medesimo risultato. Va ancora detto che anche nel film di Tomas Alfredson, così come negli sceneggiati televisivi, sono stati giudiziosamente conservati i nomi e i cognomi dei personaggi fondamentali della vicenda, così come li ricordano gli appassionati lettori della saga di Smiley. E cioè, ad esempio, Bill Haydon, Percy Alleline, Jim Prideaux e, naturalmente, Toby Esterhase, l’ungherese reclutato da Smiley, e posto a capo dei cosiddetti “lampionai”. Ovviamente c’è anche un attore che interpreta la parte di “Control” e due attrici a cui sono affidate due parti minori nel cast ma essenziali nella vicenda, e cioè quelle di Ann, la moglie “volage” di Smiley, e di Connie Sachs, la fondamentale memoria del Circus. Mi rendo conto che molti di questi particolari non interesseranno quei lettori poco interessati alle mitologie della “Spy Story” ma spero che gli appassionati trovino stimoli di ricordi e di riflessioni. Altrimenti, sperando che lo trovino, li rimando alla lettura di un libro del massimo specialista italiano di Le Carré, il mio amico Natalino Bruzzone, intitolato “La quadratura del Circus” (Bulzoni, Roma, 2001).

Ho condiviso con lui l’esperienza di ascoltare a Courmayeur, durante “Noir in festival”, John Le Carré parlare a lungo interrogato da due interlocutori ossequiosi ma partigiani. Fu per entrambi, al di là della scioltezza personale dello scrittore nell’esprimersi, una mezza delusione, di cui ci ricordiamo ancor oggi. Ma l’amore per Smiley regge ad ogni prova, anche la più crudele.

Battute

9.225

2 settembre 2011

A DOMANDA RISPONDE

Ringrazio Antonio Sabino per la sua cortese lettera a proposito della telefonata di Pupi Avati. Evidentemente tutto quel che riguarda i tentativi di Pupi per farsi strada nel cinema sono stati nelle mie domande forzatamente abbreviati per non rendere eccessivamente lunga, e un po' faticosa per lui, una confessione che doveva riguardare tutta la sua esistenza. Chiari, Tognazzi e Vianello sono stati richiamati, per la verità, da una mia intrusione vocale che Pupi non aveva per nulla provocato. Una delle spiegazioni per la loro adesione alla repubblica di Salò, che credo non sia controversa, può esser data dal fatto che la R.S.I. riuscì nel nord, dove durò più a lungo, a rimettere in funzione i distretti militari e ad inviare alle potenziali reclute specifici annunci di leva (l'ho visto io capitare a giovani ovviamente più anziani di me). Era perciò molto difficile riuscire a sfuggire alle ricerche. Invece il Regno (del sud) che cercava di rimettersi in ordine recuperando via via il potere dagli inglesi e dagli americani, non ci riuscì e probabilmente non ci provò neppure (so che in Sicilia ci furono espliciti rifiuti, nel '43/44, di accettare la conscrizione. Il che fra l'altro causò il fatto che fra i pochi soldati disciplinatamente rimasti nei loro reparti dopo l'8 settembre furono forzatamente scelti quelli inviati a combattere, prima nel "Raggruppamento Motorizzato" chiamato successivamente "C.I.L.- Corpo Italiano di Liberazione- " e poi nei cinque gruppi di combattimento (in realtà erano delle Divisioni e ne avevano anche i fregi) allestiti verso la fine del 1944 con divise ed armi inglesi. Il mio amico Tatti Sanguineti sta conducendo una interessantissima ricerca su uno degli attori prima menzionati. Più largamente le segnalo che l'ottimo documentarista Claudio Costa (romano nonostante il cognome ligure-romagnolo) sta proseguendo un interessantissimo lavoro di ricerca di superstiti combattenti della guerra di liberazione. Essendo essi pressapoco novantenni è chiaro che i superstiti sono pochi e molto difficile da trovare. In maggioranza mi sembra siano della Repubblica Sociale Italiana ma diversi hanno militato sino alla fine nelle regie forze armate.
Grazie ancora per i complimenti e molti saluti.

LE FANTASIE TRASVERSALI DEL CINEMA ITALIANO

Con l'autorizzazione del mio vecchio amico Adriano Pintaldi pubblico qui un mio testo apparso nel catalogo ufficiale (ricco di immagini) del Fantafestival di Roma. E' stato ben il XXXI° anniversario del festival stesso e si è svolto a Roma dal 9 al 19 giugno ultimo scorso, nelle sale del Nuovo Cinema Aquila, della Casa del Cinema e dell'Auditorium della Conciliazione. Il catalogo, e quindi anche il testo, è in rete sul sito www.fanta-festival.it . Quando ero alla Rai ho presentato in televisione assieme ad Adriano molte edizioni della manifestazione e perciò mi fa un particolare piacere parteciparvi ancora una volta, seppure da lontano, con questa testimonianza scritta.


FANTAITALY
Brividi, risate e magia del cinema fantastico italiano

A guardare i venti titoli che compongono la rassegna “Fantaitaly”, si è veramente portati ad ipotizzare che una venatura di evasione fantasiosa, fra il parodistico ed il lunare, esista anche nel cinema italiano (come forse in tutte le cinematografia) e non soltanto in quello propriamente anglosassone, nel quale esiste fuor di dubbio. In un certo senso i titoli si dividono fra una parte “alta” e una “bassa”, giusto per attenersi ad una tradizionale e conservatrice partizione dell’invenzioni fantastiche. Della prima potrebbero far parte “C’era una volta”(1967) “La decima vittima”(1965), “Brancaleone alle crociate”(1970), “La terra vista dalla luna”(1967), “Toby Dammit”(1967), “Fantasmi a Roma”(1961), “Volere volare”(1991), “La mazurka del barone, della santa e del fico fiorone”(1974), “L’arcidiavolo”(1966), “Il disco volante”(1964) e “Io e Caterina”(1980), mentre gli altri nove andrebbero ascritti alla parte “bassa”. Naturalmente anche qui l’azzardo delle suddivisioni è fortissimo. Sicuramente non mancherebbero gli estremi difensori intesi a rivalutare film come “Totò nella luna”(1958) o “Tempi duri per i vampiri”(1959) mentre i fedeli di Mario Bava certamente scatenerebbero una piccola battaglia per recuperare i meriti di “Diabolik”(1968). Sembra pertanto opportuno cercare semmai di individuare in ogni film le caratteristiche più autentiche di una reale vocazione fantastica e al tempo stesso iper-realista, e lasciare semmai ad un bilancio finale il gusto di una valutazione articolata in frammenti antitetici.

Fuori di dubbio alcuni dei film citati parlano al nostro cuore. Sicuramente uno di essi è “La decima vittima” (1965) di Elio Petri che rivela una impennata insolita nel nostro cinema. E cioè esplicita intenzione celebrativa, all’interno di quella che all’epoca era la vocazione squisitamente anglo-sassone per la “science fiction”, di tutto un momento decisivo dell’illuminazione fantastica. Il coraggioso ricorso ad uno scrittore allora amato in Italia da un numero relativamente ridotto di appassionati come Robert Sheckley, poi destinata ad una larga fama, regge tutta la progettazione e la realizzazione del film. La novella originale a cui tutto si ispira era opera di uno Sheckley appena 25 enne. Il titolo originale era “The Seventh Victim”, cioè letteralmente “La settima vittima”, apparsa nel 1953 e giudiziosamente recuperata in Italia dal cinema 12 anni dopo con il titolo “La decima vittima”, per dare vita ad un’opera che molti non apprezzarono al suo giusto valore. Forse anche per la mancanza di dimestichezza con una zona specifica della narrativa e del cinema, ovvero l’immensa area della fantascienza. Ed in un certo senso, per la consapevolezza degli stimoli ideologici che animavano Elio Petri, e che contribuirono a modellargli addosso una ipotesi politicamente polemica. La quale in realtà, pur ribadita dai suoi film di successo dei primi anni settanta, mi pare coesistesse in lui con autentico stimolo di libera narrazione. In ogni caso “La decima vittima”, film insolito nel panorama anche successivo del cinema italiano, si muove in un ordine di idee ed in una ipotesi di feroce futuro, del tutto estranei alle tendenze e alle fascinazioni allora imperanti nel nostro cinema. Probabilmente è anche merito dei due sceneggiatori più importanti, e cioè Tonino Guerra e, particolarmente, Ennio Flaiano, uno dei pochi protagonisti dell’invenzione cinematografica italiana dell’epoca, in grado di muoversi con ottimismo all’interno di una divagazione fantastica lontana dalla retorica di casa nostra. L’idea di un inseguimento mortale ad un essere umano, alimentato dalla pubblicità e regolato da una normativa emanata da un apposito Ministero della Caccia, sembra stravolgere tutte le opzioni sul futuro, di destra come di sinistra, di una società che si stava avviando inconsciamente verso la futura stagione delle Brigate Rosse. Non è un caso che Elio Petri riesca agevolmente a far muovere all’interno dello stesso film attori e miti originati da momenti completamente diversi della storia, e in particolare di quella propriamente cinematografica. Da Marcello Mastroianni a Massimo Serato, da Salvo Randone a Ursula Andress ed Elsa Martinelli, la popolazione del film scaturisce da un universo praticamente diverso per ognuno degli interpreti ma coraggiosamente unificato dalla mano di Petri. E’ un esempio di evasione fantastica di cui non tante cinematografie possono vantare l’eguale.

Altrettanta festosità e birichina varietà di intenzione dimostrano altri due film della nostra grande tradizione: “Brancaleone alle Crociate” di Mario Monicelli e “Fantasmi a Roma” di Antonio Pietrangeli. Entrambi i registi avevano un retroterra di invenzione poetica che al bisogno conviveva con una concreta, e perfino rude capacità di evocazioni realistiche. Qui nel film di Monicelli si vede assai bene come la goliardica e geniale follia di Age e Scarpelli trovi sbocchi lunari e furbescamente stralunati. Peccato che il film, a stretto rigor di logica, sia difficilmente doppiabile in altre lingue per via dell’ impervia e compiaciuta follia del linguaggio che vi si parla, altrimenti la persuasione che essi siano stati i più grandi sceneggiatori in assoluto del cinema italiano si sarebbe fatta strada anche all’estero. Lo dico con l’orgoglio di chi, in tempi non sospetti, dedicò ai due sceneggiatori un ampio ciclo televisivo di prima serata, quando la gente che veniva dai film di Totò tendeva ad esser snobbata dalla critica “seria”. In “Brancaleone alle crociate” il racconto, pur interpretandola spesso con curiosa lucidità, scherza di fatto con la storia, un po’ come accadeva nei grandi romanzi di Alexandre Dumas ove regine, cardinali, dame e moschettieri si muovevano con intenzioni realistiche su uno sfondo involontariamente parodistico. La stessa voglia di scherzare con i fanti ma di non lasciar stare i santi si ritrova in “Fantasmi a Roma”. Che da un lato è un omaggio ai saporosi film “ultraterreni” della tradizione propriamente britannica ma anche uno scorrevole scherzo in cui si ritrova la parte migliore di quel grande autore incompleto che fu Antonio Pietrangeli. Il quale morto non ancora cinquantenne, ci lascia qui soltanto eloquenti brividi del suo talento e si diverte a recuperare grandi guizzi di attori nostrani su uno sfondo cinematografico in realtà multinazionale. Intorno ad un triplice Marcello Mastroianni (tre personaggi diversi all’interno della storia della stessa famiglia!) si muovono, attendibili fantasmi del passato, Eduardo De Filippo e Tino Buazzelli, Sandra Milo e Vittorio Gasman, che si diverte, con la irsuta genialità che nessun altri possedeva nel nostro cinema, a comporre la figura cialtronesca di un pittore d’epoca detto “il Caparra”. Fra le caratteristiche che fanno di questo film un piccolo gioiello periferico non vi è dubbio che contino molto le invenzioni di sceneggiatura di tre personaggi molto diversi tra di loro ma tutti in possesso di una forte personalità creativa: opera di Ennio Flaiano (al quale in tanti dobbiamo tanto), Sergio Amidei e Ettore Scola. Il film di Monicelli e quello di Pietrangeli, in modi diversi ma tutti egualmente peculiari, si muovono in due sfere fantastiche non comunicanti eppure affini per la scorrevole e perentoria attendibilità dell’invenzione.

Su altri terreni, ma sempre con una palese intenzione fantastica, si muovono ad esempio “Volere volare” di Maurizio Nichetti e “La mazurka del barone, della santa e del fico fiorone” di Pupi Avati. Entrambi evadono verso i mondi fantastici con una intensità relativamente rara in un cinema prevalentemente intessuto di esplicita comicità quasi dialettale o di pressante intento realistico. “Volere volare” riposa sulla solitaria milanesità creativa di Maurizio Nichetti, il quale proviene dalle esperienze dei mimi di “Quelli di Grock” e dal mondo dell’animazione che si riallaccia a Bruno Bozzetto, mentre “La mazurka” rievoca il mondo del primo Avati, il quale non aveva ancora scoperto la poetica intensità delle sue memorie emiliane e oscillava fra evasioni fantastiche e parodistiche di una stralunata inventività. Il “contagio” del disegno animato nel film di Nichetti e le divagazioni “diaboliche” del film di Avati costituiscono due curiosi fenomeni di evasione in un cinema “altro”, in qualche modo mantenuto poi dall’uno e superato poi dall’altro. Entrambe le opere testimoniano di una vitalità parallela e quasi clandestina ancora una volta rare ma non secondarie nel nostro cinema.

Il gusto dell’evasione verso sfondi diversi da quelli abituali è palese in molti film compresi nella rassegna. Si prenda il caso di “C’era una volta” di Francesco Rosi. Di fronte a tanto suo cinema rudemente e spesso genialmente realistico e para- documentario (vale per quasi tutta la sua opera: per citare solo i titoli più interessanti ricordo “Salvatore Giuliano”, “Le mani sulla città”, “Il caso Mattei”, “Cadaveri eccellenti”) “C’era una volta” è apertamente una fiaba, di continuo smentita e ribadita (l’ispirazione viene addirittura da “Lu cunto de li cunti” di Gianbattista Basile). Quasi un’ evasione dal mondo concreto e rabbioso di politici corrotti, speculatori sfrenati, banditi illusi e abbandonati e grandi industriali misteriosamente deceduti, che è stato il suo per tanti film, a dimostrazione del fatto che la voglia di evadere dai propri confini abituali fermenta un poco in tanti creatori del nostro cinema. Finendo così con l’allontanarli, seppur a tratti e per brevi momenti, dai ribaditi cammini istituzionali propri della cinematografia italiana.

Un’ altra grande impennata fantastica e ossessivamente sognante è quella di Fellini nell’episodio “Tommy Dammit” contenuto nella trilogia “Tre passi nel delirio”. E’ stato giustamente rilevato dal dizionario Morandini che la collaborazione alla sceneggiatura di Bernardino Zapponi (è la prima delle sette volte in cui Fellini e Zapponi lavoreranno insieme) fa si che “il fantastico Felliniano si incupisce, Roma è la sua galleria di mostri hanno una luce sinistra che dà nel macabro putrescente”. Mi sembra significativo questa notazione all’interno di un film di un regista sempre globalmente dominato dall’ossessione di un intrattenibile intervento fantastico all’interno di una minuta descrizione realistica. Non c’è dubbio che la “Fantasy” di Fellini agisca qui ad uno dei massimi livelli. E che la sua visione ossessiva del cinema (e anche del diavolo) trovi nell’episodio un’ulteriore, e clamorosa, conferma. Tutto è fantastico nel cinema di Fellini, frutto e meccanismo per fughe ed evasioni di ogni sapore che non ha quasi eguali nel cinema italiano. E che qui ribadisce la vocazione al più sontuoso immaginario che ha per intero sovrainteso a tutta l’opera del regista di Rimini, anche nelle sue venature più rigorosamente ironiche e bozzettistiche.

In quanto a “Io e Caterina” di Alberto Sordi con Alberto Sordi, Edwige Fenech, Catherine Spaak, Rossano Brazzi e Valeria Valeri pone certamente il problema della geniale inventiva montanara di Rodolfo Sonego alle prese con l’urgenza di commedia tipiche dell’autore-regista, a cui per altro Sonego ha offerto alcune delle occasioni migliori. Più di 30 film fra cui, senza aver la pretesa di averli individuati tutti, molte occasioni di meditata semi-follia, minuziosamente fantastica, e di rigorosa vocazione realistica ironica e grottesca. Mi limito a ricordare alla rinfusa “Il vigile”, “Brevi amori a Palma di Majorca”, “Le svedesi”, “Il diavolo”, “Il disco volante” di Tinto Brass (non a caso incluso nella presente rassegna), “Guglielmo il dentone” di Luigi Filippo da Amico (all’interno de “I complessi”), “Le vacanze intelligenti” di e con Alberto Sordi (all’interno di “Dove vai in vacanza”), “Il comune senso del pudore”, e via citando molte apparizioni dell’attore che desiderava soprattutto esser regista. Film ove l’invogliante menù di Sonego costituiva un eccellente trampolino di lancio per le fughe trasversali di Sordi verso i terreni infiniti delle parodie sfrenate e quindi delle fantasie più luccicanti.

Va ancora ricordato che proprio molte delle opere apparentemente meno paludate della rassegna, contengono subitanei ghiribizzi fantastici che trovano facilmente collocazione nell’immaginifico retroterra della comicità di Totò. Metà del fascino del Principe napoletano era rappresentato proprio dalle improvvise fughe nella più paradossale fantasia, sollecitate dalla stessa sua figura e dal suo tipo stravolto e ammiccante di recitazione. Per fare un esempio di un film qui non presente (non è minimamente un rimprovero, non si può includere tutto e gli organizzatori hanno già fatto miracoli di ricerca) è “L’Imperatore di Capri” di Luigi Comencini (1949). Totò, cameriere a Napoli ma scambiato per un Bey a Capri, cerca di tener lontana suocera e moglie da un salone di lusso ove si danza in abito da sera e nella quale lui è al centro della festa. Nelle sue vesti di cameriere in frac cerca di allontanare le sue donne sostenendo che all’interno del salone lo spettacolo è talmente immorale che i danzatori sono nudi. La porta si apre per un attimo e si vedono donne in abiti da sera e uomini anche essi in frac. “Ma sono vestiti!” esclama una delle donne stupite. “Si, ma sotto sono nudi” ribatte gelidamente Totò. E’ certamente una battuta obbligata e tipica dello stile d’epoca, probabilmente di Metz e Marchesi, ma è anche un subitaneo richiamo alla “follia” che Totò porto con se nel cinema italiano dalla rivista e che travalicò ogni anonima presenza di registi e di sceneggiatori.

Del resto Steno, proprio nei suoi inizi a fianco di Mario Monicelli fu coinvolti anche egli nella potenziale “fantasticità” del nostro cinema. Si pensi ad un altro film della rassegna e cioè a “Tempi duri per i vampiri” (all’epoca almeno i titoli erano non di rado spiritosi) in cui il tessuto narrativo -opera del solito numero sterminato di sceneggiatori come usava da noi all’epoca: Anton, Cecchi Gori, Continenza, Fondato, Rascel, Dino Verde e lo stesso Steno- è flebile. Ma la presenza di Cristopher Lee nei panni del barone Roderico da FranKurten rappresenta un’ improvvisa iniezione di inaspettata follia parodistica la stessa che anima un altro film di Steno (Stefano Vanzina, regista tutto sommato troppo presto accantonato dal cinema italiano, così generoso con i suoi figli) e cioè “Dottor Jekyll e gentile signora”(1979) (sceneggiatori: Benvenuti, De Bernardi, Manganelli e ancora Steno). Il film probabilmente non riesce a raggiungere il livello proprio della parodia ma la presenza di Paolo Villaggio protagonista, nei panni di un Jekyll cattivissimo che vuol diventare ancor più cattivo, trascina con se tutta la forsennata coloritura di eccesso malignamente fantastico che è proprio del cinema di Paolo, riassunto dal disegno stravolto ma minuto dei suoi famosi impiegati automi. Altre configurazioni della stessa fantasia, fra l’ingenuo e l’eccessivo, che è stata propria di tanto cinema italiano soprattutto del passato, si ritrovano in molti altri titoli presenti nella rassegna. E’ doveroso inserire qui quell’allegro e sfrontato esempio di sgangherata vocazione parodistica che ci riporta all’Italia di 30 anni fa. E cioè il ”Pap’Occhio” , appunto del 1980, esordio nella regia della curiosa coppia formata da Renzo Arbore, consacrato in tutta Italia dal successo de “L’altra domenica” (1976-1979), e da Luciano De Crescenzo, ingegnere, divulgatore di filosofia e autore di successo. Il film ha avuto traversie di ogni genere, poche settimane dopo l’uscita, nel settembre 1980, fu sequestrato per “vilipendio” alla Religione Cattolica. Il sequestro decadde a causa di una amnistia. Nel 1982 la corte d’appello di Roma archiviò la denuncia per vilipendio. Inizialmente deprecato dalle autorità vaticane fu poi valutato “film futile.. ma che non raggiunge toni, dissacratori irriverenti o blasfemi. “ Nel 2010 Pippo Corigliano, portavoce dell’Opus Dei, lo ha addirittura riabilitato definendolo “film apostolico in stile cristiano”. Perché tutto questo accumularsi di condanne e di assoluzioni? Non ci si stupisce troppo pensando a quel che è il tessuto centrale del racconto: il Papa convoca Arbore incaricandolo di mettere in scena, per la Tv Vaticana, lo show musicale “Gaudium Magnum” . Alla fine sarà lo stesso Padre eterno a far precipitare tutti nelle viscere della terra. Nel disordinato ma furbesco fluire delle gag, a cui partecipano molti volti resi noti da Arbore in televisione, si avverte pienamente il sapore post-goliardico della voglia di divertirsi di Renzo e del suo complice De Crescenzo. Con una mescolanza di allusioni furbescamente para-religiose e di scherzi un po’ eccessivi da ex-chierichetto (non a caso Arbore si definisce “cattolico, apostolico, foggiano”) il film ondeggia volutamente in un mondo di fantasia sfrenatamente disordinata, quale può nascere soltanto in un paese di antiche origini cattoliche e di corrente dimestichezza liturgica.

In quanto a “Diabolik”, gli specialisti fanno rilevare che si è inserito nel “filone fumettistico italiano”, preceduto da “Kriminal” diretto nel 1966 da Umberto Lenzi, grande specialista delle venature sotterranee del cinema avventuroso e “thriller” italiano. “Diabolik” è ispirato dai fumetti delle sorelle Angela e Luciana Giussani: film tipico per i seguaci di Bava e comunque ricco delle invenzioni e delle omissioni peculiari del regista. Inizialmente era stato affidato a Tonino Cervi licenziato da De Laurentiis dopo una settimana, e Bava fu arruolato perché era considerato uno dei più adatti, visto che era uno degli specialisti nostrani di effetti speciali. Per “Diabolik” ottenne un budget di duecentomilioni di lire, basso per il produttore ma alto per il regista. Le intenzioni di dare al film una certa connotazione di lusso furono ribadite dalla presenza di Michelle Piccoli, a cui fu affidata la parte dell’ispettore Ginko mentre il personaggio di Ralph Valmont ottenne il talento e il volto di Adolfo Celi. Sembra che persino Catherine Deneuve abbia interpretato per poco tempo la parte di Eva Kant, ma venne poi sostituita perché Bava non gradiva la sua prestazione e, del resto, essa si rifiutava di girare scene di nudo. Non fu un grande successo (incasso italiano 265 milioni di lire). La critica italiana non si commosse molto ma in Francia fu apprezzato dai Cahiers du Cinéma e in America da Rogert Ebert. Non v’è dubbio che il personaggio sia uno dei più fruttuosi e fortunati protagonisti dell’invenzione casalinga all’italiana. E proprio il sapore di furbesca fantasia che anima le due sorelle creatrici, conferisce all’evasione fantastica, peraltro legata ad una tradizionale farmacopea della criminalità fumettistica, un decisivo sapore nostrano.

Sono presenti nella rassegna ancora film di lusso nella regia, ad esempio “La terra vista dalla luna” di Pier Paolo Pasolini (un episodio de “Le streghe”) e “L’Arcidiavolo” di Ettore Scola: nel primo si ritrova l’uso genialmente sgangherato del personaggio Totò, nel secondo la classica variazione “diabolica” propria di tanto cinema fantastico sospeso fra Inferno e Paradiso. Mentre “Non ci resta che piangere” (1984) ripropone le divagazioni ironicamente fantastiche di Massimo Troisi e Roberto Benigni all’interno di un classico viaggio a ritroso nel tempo, un tema che il cinema, soprattutto quello anglosassone, ha sempre prediletto. Divagazioni nel tempo e scene di sabba e di salti nel passato si trovano anche in “Mia moglie è una strega” di Castellano e Pipolo. Mentre “Il Cavalier Costante Nicosia…Dracula in Brianza”(1975), grazie ad una sceneggiatura di Pupi Avati e la presenza di Lando Buzzanca, Valentina Cortese e Rossano Brazzi, ci ripropone la figura controversa di Lucio Fulci (1927-1996) che molti considerano uno dei registi italiani più ingiustamente trascurati, rivalutato di recente come personalissimo regista di film di “genere”. Qui la parodia del film di vampiri raggiunge indubbiamente confini personali e doverosamente stravolti. Arriviamo infine a “Ciao Marziano”(1980) di Pier Francesco Pingitore ove molti protagonisti della comicità all’italiana si trovano al centro di un film che è al tempo stesso una parodia del cinema di fantascienza e, almeno nelle intenzioni, una variazione ironico-grottesca della comicità in stile “Bagaglino”.

Qui si concludono i titoli dell’elenco espressamente formulato da Adriano Pintaldi ma non tutti i titoli della rassegna. Saranno presenti anche film con Franco Franchi & Ciccio in Grassia, Johnny Dorelli, Bud Spencer e ancora il grande Totò. A dimostrazione dell’insospettato retroterra fantastico di tanto cinema italiano di aperto consumo o di nascosto snobismo.

Claudio G. Fava

Battute 20.060