Blog - Crediti


L'audio e i video © del Blog sono realizzati, curati e perfezionati da Lorenzo Doretti, che ha anche progettato l'intera collocazione.
L'aggiornamento è stato curato puntualmente in passato da diverse collaboratrici ed attualmente, con la stessa puntualità e competenza, se ne occupano Laura M. Sparacello ed Elisa Sori.

20 dicembre 2010

TRUFFAUT DE MA JEUNESSE - Video

Tempo fa, non potendo andarci di persona, ho inviato alla sezione di Francesistica della Facoltà di Lingue e Letterature Straniere dell’Università della mia città (Piazza Santa Sabina 2, 16124 Genova) un DVD con una breve lezione sul tema del doppiaggio. Conteneva specifici riferimenti al film di Jean-Luc Godard “A bout de souffle” (“Fino all’ultimo respiro”, 1960) del quale esemplificavo le particolarità dell’adattamento e le differenze fra il testo francese originale e quello adottato nella versione italiana. Il DVD venne fatto vedere agli studenti e, a quanto sembra, piacque. Anche in funzione del relativo successo mi è stata chiesta un’ulteriore lezione su François Truffaut e sul suo lungometraggio di esordio “I quattrocento colpi” (“Le Quatre Cents Coups”, 1959). Sempre grazie all’amichevole ed efficiente cortesia di Lorenzo Doretti ho registrato a casa mia una lezione sul tema, nella quale sono stati inseriti i brani (tratti da due DVD in commercio) del film di Truffaut sopra citato e di “Baci rubati”, un altro dei suoi lungometraggi in cui si seguono ancora le avventure di un personaggio chiamato Antoine Doinel. Il quale esordisce appunto, ancora ragazzo, ne “I quattrocento colpi”: ritornerà diverse altre volte nella filmografia di Truffaut, sempre interpretato da Jean-Pierre Leaud. Questi in pratica finirà, pur dimostrando palesemente una certa riluttanza, con l’identificarsi con il suo personaggio, pur cercando di foggiarsi uno stile autonomo meno pesantemente condizionato dall’eredità del suo primo film (che è anche il primo lungometraggio del regista).

La mia lezione in DVD dura quasi un’ora e, dopo lunga riflessione, ho deciso di riportarla nel blog. Mi rendo conto che potrebbe destare qualche perplessità l’uso dei brani di film prima citati, ma vorrei ricordare che non ho né chiesto né ottenuto denaro (come del resto Doretti) per questa prestazione, e che pertanto il mio è un (piccolissimo) regalo alla Facoltà di Lingue dell’Università di Genova, mosso da un evidente intento didattico. Fra l’altro, i frammenti di film riportati sono trascritti nella lingua francese originale, visto che si rivolgono a una sezione di Francesistica. Per cui una ipotetica concorrenza potrebbe esercitarsi, di fatto, solo se il blog venisse visto e ascoltato in Francia. Particolare che mi lusingherebbe, ma che non ha nessun riscontro nella realtà. Ecco dunque il video mostrato agli studenti giovedì 9 dicembre 2010. Non escludo che i loro eventuali commenti possano pervenirmi e in questo caso essere poi riportati sul blog. Approfitto dell’occasione per ringraziare le operose professoresse universitarie della sezione di Francesistica ed in particolare Micaela Rossi, la quale spinge la gentilezza sino a venire a casa mia a ritirare i DVD, e Nancy Murzilli. Spero, nel DVD, di non essere riuscito troppo noioso perché quando parlo o scrivo di Truffaut tendo ad avere l’incontinenza e l’ingenuo entusiasmo del tifoso. Non mi sono riascoltato, quindi giudico a memoria, e perciò spero di apparire abbastanza chiaro e abbastanza persuasivo. Se non è così, fatemelo sapere con doverosa crudeltà.

Ecco a voi l’intervento parlato e recitato.


10 dicembre 2010

CONSIDERAZIONI (TEMPORANEE)
SU WIKILEAKS


Vladimir Putin e Julian Assange

Sto preparando, insieme ad alcuni amici, un ampio studio sui problemi dello spionaggio, vero e fittizio, e proprio adesso è scoppiato lo scandalo di Wikileaks. E’ chiaro che bisognerà aspettare gli aspetti futuri della vicenda. Ad esempio, mentre stavo scrivendo queste righe, è giunta la notizia che la magistratura inglese si impegna nel giro di pochi giorni a rispondere alla richiesta di estradizione in Svezia di Julian Assange. Contemporaneamente si è appreso che un importante esponente australiano di fatto ha accusato di furto gli Stati Uniti d’America (che, per quanto ne so io, sono essi le vittime di un furto, opera di “hackers” che hanno saccheggiato gli archivi elettronici americani). Si tratta evidentemente di uno degli scandali più clamorosi che abbiano scosso l’America e, al suo fianco, buona parte dei governi del mondo (il ministro Frattini, con una capacità immaginosa insolita nei politici italiani, ha detto che si tratta “dell’undici settembre della diplomazia mondiale”). Tuttavia sin da adesso è possibile procedere a qualche osservazione preliminare.
Quel che si può comunque osservare, in qualsiasi modo vadano a finire le cose, è l’estrema fragilità della civiltà telematica che abbiamo costruito in questi ultimi anni. Le incursioni di Wikileaks negli archivi degli Stati Uniti sono una riprova, ammesso che ve ne fosse bisogno, della incongruenza e della debolezza implicite in un sistema di archiviazione e di comunicazione che poggia su internet e che è implicitamente soggetto alla diabolica furbizia degli “hackers”. Se tutto lo stesso materiale segreto fosse stato compreso in contenitori all’antica (raccoglitori, faldoni, eccetera …) per svelarlo sarebbe stato necessario fotocopiarlo. Il che avrebbe reso molto più facile difenderne la segretezza e respingere le intrusioni. Vale a dire che la pretesa modernità dell’archiviazione contemporanea è in realtà una forma di debolezza e di inefficienza. Meglio i faldoni, che nei documentari sulla burocrazia italiana vediamo implicitamente sbeffeggiati, ed esplicitamente trasportati dagli uscieri su dei goffi carretti, che le modernissime memorie computerizzate. Non è improbabile che tutti i sistemi di archiviazione confidenziale di materiale scritto debbano essere rivisti e rivalutati, o almeno quelli riguardanti documenti implicitamente secretati. Fuori di dubbio c’è in tutto quello che è accaduto un elemento paradossale: l’urgenza di adattare gli archivi italiani ai nuovi dettami elettronici, raccomandata ed elogiata dal ministro Brunetta, è stata brutalmente smentita. Per il resto aspettiamo a giudicare. Per ora possiamo formulare un dubbio sui criteri usati dagli americani per alimentare i vertici delle loro rappresentanze presso gli stati stranieri. In Europa, in genere, diventano ambasciatori, alla fine di una lunga carriera, e dopo molteplici esperienze sia al ministero che in sedi consolari e diplomatiche all’estero. Non è escluso che siano dei cretini, legati alle correnti del potere dominante, ma è possibile che siano uomini saggi, levigati da decenni di pratica burocratica in tutto il mondo, spesso in grado di parlare diverse lingue, affinati, al di là ed oltre le rispettive intelligenze, da lunghe soste in paesi diversissimi dal loro. Invece negli Stati Uniti, credo non sempre ma sicuramente molto spesso, la carica di ambasciatore è una sorta di premio con cui il presidente rimerita gli amici o indennizza i nemici. Basta guardare agli ambasciatori americani a Roma per vedere quanti sono quelli estranei alla carriera e di nomina presidenziale. Ve ne fu uno che aveva la moglie veneta, la quale gli aveva insegnato a dire “prima de parlar, tasi” (la qual cosa, ovviamente, poteva capitare anche a uno di carriera, ma che nel caso specifico ebbe un insolito risalto mediatico). Una indagine meticolosa in argomento potrebbe fornire moltissimi nomi di ambasciatori “inventati” dai vari presidenti americani. Alcuni tornano alla memoria anche a me. Ad esempio il padre di John Fitzgerald Kennedy, Joseph Kennedy, uomo che aveva sotto molti riguardi una dubbia fama, fu nominato da Franklin Delano Roosevelt, di cui era un sostenitore, addirittura ambasciatore a Londra e rimase in carica dal 1937 al 1940, vale a dire nel periodo decisivo in cui la Gran Bretagna entrò in guerra. Una sua figlia, Jean Ann Kennedy, sposata a Stephen Edward Smith, una vota rimasta vedova fu nominata ambasciatore degli Stati Uniti in Irlanda, dal 1993 fino al 1998. Fra gli infiniti altri esempi possibili citerò quello di una buona amica democratica di Truman, che venne nominata ambasciatore in Lussemburgo (carica credo molto comoda, che le consentiva di vivere in Europa, in un paese di alto livello di vita, con tutti i privilegi dei diplomatici). Un altro caso è quello dell’ammiraglio William D. Leahy, amico di Roosevelt, che questi nominò ambasciatore a Vichy e che era ancora in carica presso Petain, nell’aprile del 1942, vale a dire cinque mesi dopo Pearl Harbour! Del resto Leahy era un beniamino di Roosevelt, fino a ricevere la nomina a “Five Star Admiral”, ovvero “Fleet Admiral”, cioè comandante della flotta. La sua missione a Vichy è stata discussa. Invece è sicuro che egli si sia opposto, con Truman presidente, al lancio dell’atomica su Hiroshima e Nagasaki, dicendo che la guerra ormai era vinta, che si trattava di un gesto barbarico e che i conflitti non si conducono uccidendo donne e bambini.
Esempi di carriere “utroque jure” come questi ce ne sarebbero moltissimi, e se il dramma di Wikileaks dovesse continuare varrebbe la pena di fare un’indagine al riguardo, giusto per vedere se i pettegolezzi dei politici e degli industriali prestati alla diplomazia tendano ad essere più acri e insistiti di quanto non lo siano quelli dei diplomatici di professione.
Un’ultima considerazione da fare è che il saccheggio degli archivi digitali degli Stati Uniti alla lunga ricade su questi ultimi. Infatti se esiste un sistema di connessione e di scambio di posta fra computer e computer lo si deve ad un’esplicita richiesta dell’esercito americano. Che qualche decennio fa chiese agli specialisti di studiare un sistema di trasmissione di messaggi rapido, discreto e non intercettabile. Nessuno allora avrebbe potuto supporre che sarebbero esistiti gli “hackers”, vale a dire i responsabili di una sorta di aids delle macchine intelligenti. Tutta la nostra civiltà è ormai sottoposta a una sorta di immenso ricatto, e se ne leggono le caratteristiche molli e sprezzanti sul volto al tempo stesso disponibile e intollerante di Assange.
Un’ultima osservazione riguarda l’intervento di Vladimir Putin che ha deprecato l’arresto di Assange chiedendo pubblicamente se questa operazione sia compatibile con la democrazia. C’è in Putin una forma di ironia che non ho ancora capito se è volontaria o involontaria. Ricordiamoci che egli, dopo gli studi universitari, nel 1975 entrò nel KGB (Komitet Gosudarstvennoj Bezopasnosti, ovvero Comitato per la Sicurezza dello Stato), vale a dire nel più ampio, ricco, potente sistema di polizia politica e di spionaggio, sia all’esterno che all’interno, che esistesse al mondo. Vi percorse una carriera confortevole ed evidentemente apprese tutte le astuzie del carrierista, perché, mentre stava nascendo una nuova Russia, Eltsin lo nominò capo dell’FSB, cioè dell’organismo poliziesco che aveva ereditato dal KGB i compiti riguardanti il controspionaggio vero e proprio. Putin rimase in carica dal luglio 1998 all’agosto 1999, mettendo le basi di una lusinghiera carriera politica. Infatti giusto per riprendere quel che ha scritto Wikipedia “il 9 agosto 1999 Vladimir Putin fu nominato Primo Deputato, carica che gli permetterà quello stesso giorno, dopo la caduta del precedente Governo guidato da Sergei Stepašin, di essere insignito dell'incarico di Primo Ministro della Federazione Russa dal Presidente Boris Eltsin. Eltsin dichiarò inoltre che avrebbe desiderato che Putin diventasse il proprio successore. Poco dopo tale augurio, il nuovo Primo Ministro dichiarò la propria intenzione di correre per la Presidenza. Il 16 agosto, la Duma ratificò la sua nomina a Primo Ministro con 233 voti a favore (contro 84 contrari e 17 astenuti), facendo di lui il quinto Capo di Governo in meno di diciotto mesi. In tale carica Putin, pur essendo pressoché sconosciuto all'opinione pubblica, durerà di più dei propri predecessori. I maggiori oppositori di Eltsin e aspiranti alla Presidenza, il Sindaco di Mosca Jurij Mikhailovič Lužkov e l'ex Primo Ministro Evgenij Primakov, stavano già cercando di rimpiazzare il Presidente uscente, e contrastarono duramente Putin quale nuovo concorrente. L'immagine di Putin come uomo d'ordine e il suo deciso approccio alla Seconda Guerra Cecena riuscirono tuttavia ad aumentarne la popolarità tra le masse, e gli permise di superare i propri rivali.“
Non mi pare che il suo passato lo autorizzi né a invocare né a giudicare la democrazia. Capisco che vi sia in lui un certo risentimento, probabilmente per alcuni giudizi della diplomazia americana sulla sua persona, ma è difficile immaginare che quest’uomo possa veramente inserirsi nel meccanismo parlamentare, sottilmente bilanciato, complesso e tortuoso di un vero regime democratico. Credo si possa dire che dei suoi giudizi faremmo volentieri a meno.


Claudio G. Fava.
10/12/2010
(battute: 9.363)

1 dicembre 2010





"L'OMBRA DEL POTERE": CONTRIBUTO DI BRUZZONE E PARTICOLARI SU ANGLETON



James Jesus Angleton e Matt Damon



Nel mese di novembre ho scritto nel blog complessivamente tre brani in cui parlo di Robert De Niro e dei due film da lui diretti: “Bronx” (“The Bronx Tale”, 1993) e “L’ombra del potere” (“The good Shepherd”, 2006). Il mio amico Natalino Bruzzone, critico cinematografico del Secolo XIX, mi ha scritto due righe che dicono: “Carissimo Claudio, anch’io sono d’accordo sul film di De Niro e se ti serve ti allego la mia recensione apparsa sul Secolo, forse l’unica positiva in Italia. Un abbraccio grande, Natalino”. Accolgo con piacere l’offerta e pubblico qui di seguito la recensione di Natalino. Come il lettore potrà leggere in essa si evita una mia distrazione, a causa della quale mi dimenticai nel mio intervento di fare quello che Natalino non ha dimenticato, e cioè di far cenno della somiglianza fra il protagonista del film (una ottima interpretazione di Matt Damon, definito nel testo “eccellente e gelido”) e un famoso protagonista dei servizi segreti americani, e cioè James Jesus Angleton. Detto “the Kingfisher”, Angleton (9 dicembre 1917, 12 maggio 1987) è stato a lungo il capo del controspionaggio della C.I.A. . E, come dice Wikipedia, “se il generale William Joseph Donovan“ (ovvero “wild Bill” Donovan, parte piccola nel film ma figura decisiva nella storia: è quella interpretata dallo stesso De Niro) “può essere definito il padre della C.I.A., dal canto suo Angleton è considerato la madre dell’intelligence statunitense”. Nel testo di Wikipedia su di lui si ricorda che, pur essendo uno dei più importanti cacciatori di spie della Guerra Fredda, Angleton, malgrado fosse ossessionato dalla convinzione che nella C.I.A. si nascondesse una importantissima “talpa” sovietica, non smascherò il famoso “Kim” Philby, cioè il capo dei “Cinque di Oxford” (suo amico e, credo, suo istruttore durante la Seconda Guerra Mondiale), i quali per anni inflissero colpi mortali allo spionaggio britannico. Angleton era sicuramente un personaggio fuori del comune. Figlio di un ufficiale di cavalleria e di una donna messicana, negli anni Trenta visse con la famiglia in Italia,dove il padre dirigeva la filiale di un’azienda americana. Per questa ragione egli conosceva l’italiano. D’altronde era una persona di espliciti gusti letterari, amante della poesia, e in particolare di Ezra Pound e di Thomas Elliott, e fra i suoi hobby c’erano la pesca, la gemmologia e, come Nero Wolfe, la coltivazione delle orchidee. L’avventura di Angleton nella C.I.A. fu lunga e tempestosa. Alla fine della guerra era a Roma, dove sembra si sia occupato in modo decisivo del salvataggio del principe Junio Valerio Borghese, già comandante della Decima Flottiglia Mas (la C.I.A., e in particolare Angleton, furono esplicitamente accusati di aver utilizzato ex-combattenti di Salò, a cui ricorrere nel caso che i comunisti avessero tentato una rivolta armata). Non è possibile qui ricostruire in modo esauriente l’incredibile avventura di Angleton all’interno della C.I.A., nella quale egli esercitò un’attività di controllo interno via via sempre più importante. Ossessionato, come si è detto, dalla convinzione di essere circondato da una ampia organizzazione di spionaggio sovietico, già negli anni Sessanta cominciò a sostenere che numerosi esponenti politici occidentali fossero agenti del K.G.B.. Fra le persone da lui accusate ci furono Harold Wilson, per due volte “premier” britannico, dal 1964 al 1970 e dal 1974 al 1976, i canadesi Lester Pearson e Pierre Trudeau, il tedesco Willy Brandt – in effetti il suo segretario Guillaume si scoperse essere una spia della Stasi – e lo svedese Olof Palme (il quale, per la verità, venne misteriosamente ucciso in una strada di Stoccolma mentre tornava dal cinema la sera del 28 febbraio 1986; ci sono state inchieste per anni e non si è giunti ad alcun risultato). I sospetti di Angleton salirono via via i gradini della scala gerarchica. Fra quelli che egli tendeva ad accusare c’era addirittura anche Henry Kissinger, allora segretario di stato, e perfino dei collaboratori del presidente degli Stati Uniti Gerald Ford. Alla fine William Colby, allora importantissimo direttore della C.I.A., anch’egli con un passato si spia di alto livello, riuscì a licenziare “l’onnipotente collega con molti suoi collaboratori”. Sembra che ci siano voluti anni per riorganizzare la C.I.A., una volta liberatisi dalle ossessioni di Angleton.

A conclusione è divertente rilevare che invece il giornalista investigativo americano David C. Martin sostenne essere stato Angleton un filocomunista, sin dai tempi della sua amicizia con “Kim” Philby. Senza mai contattare i russi, avrebbe agito da solo per distruggere la C.I.A. dall’interno. E’ un’idea bizzarra che non so quanto sia condivisa dagli specialisti. Ed ora ecco il testo di Natalino:



Non la coltivazione delle orchidee, ma la paziente, sapiente e allusiva manualità di mettere una nave dentro al vetro intatto di una bottiglia. La spia in grigio, che Robert De Niro ha scelto come protagonista di “L’ombra del potere”, assomiglia al profilo reale di James Jesus Angleton, un mito della Cia che in serra curava i suoi boccioli delicati mentre in ufficio innaffiava, giorno dopo giorno, la teoria e la pratica ossessive e compulsive di smascherare la talpa del Kgb in seno all’Agenzia.
Svilito da un titolo italiano da thriller pedestre (l’originale “Il buon pastore” è carico di simbolici riferimenti biblici all’addestramento di “pecorelle”, ma con maschere e pugnali), la spy story di De Niro dietro la macchina da presa ha molti padri nobili tra cinema e letteratura: la drammaturgia ritualistica e avvolgente del “Padrino” di Coppola; il senso di John le Carré per le zone grigie dell’ambiguità e della burocrazia dell’intelligence che si riflette nel protagonista di un eccellente e gelido Matt Damon tarato da colletto bianco in antitesi all’eroismo bondiano; il piacere della saga narrativa di una famiglia di agenti della Cia appresa probabilmente dalla pagine e dai capitoli di “The Company” di Robert Littell.
Tra il secondo conflitto mondiale e il disastro alla Baia dei Porci, tra l’idealismo anche settario dell’università e l’intersecarsi di doppi e tripli giochi, tradimenti e traumatiche lacerazioni padre-figlio (come in “Bronx” l’opera prima di De Niro) il copione di Eric Roth e la sua messa in sequenze si aprono alla mistica della segretezza e della sicurezza nazionale. Figurativamente affascinante, “L’ombra del potere” lamenta un’opacità e una fluvialità che, comunque, non sono semplicemente il lampeggio di un’incapacità a trovare una energetica dialettica interna al racconto, ma si rivelano per una scelta stilistica da cerimoniale metaforico che affonda nel mistero e nelle sue manifestazioni intossicanti a più di una dimensione.
Ambizioso e tragico, l’occhio di Robert De Niro ( che si riserva il ruolo di un clone del generale Donovan, gran papà dell’Oss e genitore putativo della Cia) s’impossessa di una storia e della Storia per renderle attraverso l’ordinarietà di un uomo senza qualità, di un burocrate che sacrifica se stesso e i suoi affetti alle religione di una professione capace di sollevare l’universo con la leva dell’inganno e della menzogna. Da non sottovalutare (come è accaduto negli Stati Uniti tanto al botteghino quanto nelle recensioni), da non schiacciare sulle similitudini tra il passato (la Guerra Fredda) e il presente (la sfida armata al terrorismo) e da non trattare come l’esperimento di un attore che ha voluto farsi regista oltre i suoi talenti specifici, perché “L’ombra del potere” è, al momento, l’unico testo per lo schermo che cerca di restituire la complessità del fattore umano in termini di spionaggio così come i migliori romanzi hanno predicato non invano.

Natalino Bruzzone


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