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21 ottobre 2010

DON MARIO E SIR ROGER


Mi ha fatto molto piacere il conferimento del bizzarro premio Nobel (lo ha ricevuto anche Dario Fo) a Mario Vargas Llosa, autore di cui ho letto poco in proporzione alla vastità dell’opera. Ma che mi ha sempre incuriosito, grazie alla varietà delle intrecciate esperienze di vita. Nato peruviano, credo sia cresciuto in Bolivia ed è stato largamente gauchiste in gioventù (al tempo dei suoi entusiasmi per Castro). Candidato di centro-destra alla Presidenza del Perù nel 1990 contro il misterioso oriundo giapponese Fujimori, si è via via convertito ad un esplicito liberalismo, continuando a scrivere, senza esitazioni e senza interruzioni, un’opera romanzesca molto ampia per ambizioni e dimensioni, che già da molto tempo lo aveva reso un candidato automatico al Nobel. Ha viaggiato ininterrottamente nel mondo, ha soggiornato a lungo a Madrid e a Parigi (ove è diventato amico di Sartre), adesso abita a Londra e dopo la sconfitta in Perù è ha ottenuto la cittadinanza spagnola, quasi a ribadire la sua fisiologica ispanità di sud americano non meticcio. Mi ha molto colpito il fatto che sia apparso un suo libro (in Italia verrà edito da Einaudi nel maggio 2011) intitolato “Il sogno del celta” che, in originale si intitola “El sueño del celta” e comincerà ad essere venduto in lingua spagnola nelle librerie a partire dal Novembre di quest’anno. E’ incentrato su un personaggio minore che mi ha sempre intrigato ed interessato, Sir Roger Casement, un ex-diplomatico britannico di padre protestante ma di madre nascostamente cattolica, che nei primi anni della guerra mondiale si convertì in modo totale alla causa irlandese. Come è noto, a coronamento di un complesso periodo di lotte e di alleanze, gli irlandesi, in genere cattolici, che desideravano l’indipendenza dell’isola e il suo totale distacco dall’Inghilterra, avevano dato vita ad un esercito clandestino che si preparava ma mano alla esplicita lotta armata. E’ un tema di largo interesse e in genere poco conosciuto dagli italiani, che andrebbe approfondito ma per il quale qui non ho spazio. Mi limiterò a ricordare che, a coronamento di una lotta di un’intera generazione, ebbe inizio a Dublino il 24 Aprile del 1916, lunedì dopo Pasqua, una rivolta armata a cui parteciparono inizialmente circa 1.500 fra uomini e donne e che provocò poi una repressione feroce, conosciuta nei libri inglesi di storia come “The Easter Rising” o “The Easter Rebellion”. Qualche anno dopo, pressappoco all’inizio degli anni Venti, iniziò la guerra di liberazione propriamente detta. Nel 1916, ormai da due anni, imperversava la guerra con la Germania, nella quale morivano nelle trincee di Francia migliaia di giovani, compresi anche molti irlandesi. I più coerenti tra gli insorti, visto che anche loro erano in guerra con gli inglesi, avevano deciso di prendere contatto con il governo tedesco per trarne ogni possibile aiuto. In realtà, quando avvennero i primi contatti, tra l’Aprile e il Luglio 1915, le autorità tedesche nei confronti degli insorti si comportarono inizialmente con freddezza se non addirittura con sospetto. Alla fine, dopo lunghe trattative, si arrivò tuttavia ad un accordo “in base al quale la Germania, in cambio del proprio sostegno logistico e militare alla rivolta, avrebbe ottenuto il libero accesso ad una serie di basi navali lungo la costa irlandese. Tutto quanto fu in grado di fornire fu invece un carico di 20.000 fucili catturati alla fanteria zarista. Il carico non raggiunse però la propria destinazione perché venne intercettato, nei giorni immediatamente precedenti alla rivolta, dalla Marina Britannica”. Qui si innesta il tragico apporto personale di Sir Roger Casement, il quale anni prima, nel 1903, quando era console di Sua Maestà a Boma, in quello che divenne poi il Congo Belga, si era conquistato una notevole fama documentando la crudeltà e la ferocia verso gli indigeni di cui avevano dato prova i coloni belgi appoggiati dall’autorità di Leopoldo II, soprattutto quando quell’immenso territorio faceva ancor parte della proprietà privata del sovrano e non si era mutato in una colonia vera e propria. Un suo minuzioso rapporto, The Casement Report, apparve nel 1904. Lo scandalo che ne seguì ebbe larga notorietà in diversi paesi europei, e il parlamento inglese prese vivamente posizione al riguardo. In Belgio i socialisti guidati da Emile Vandervelde costrinsero il re Leopoldo nel 1905 a dar vita a una commissione indipendente d’inchiesta che nella sostanza dette pienamente ragione a Casement. In conseguenza di ciò il 15 novembre 1908 il parlamento belga fece confluire i beni privati di re Leopoldo in Congo in una colonia amministrata dallo stato. Con la stessa intransigenza morale di cui aveva dato prova nelle colonie, Sir Roger si comportò quando venne inviato in America Latina, ove diventò console generale a Rio de Janeiro. In quel periodo egli riuscì a documentare la crudeltà con cui venivano trattati gli indios Putumayo, a cavallo fra il Perù e la Colombia, soggetti alla feroce autorità della compagnia britannica Peruvian Amazon Company, grande società specializzata nella produzione della gomma. Sir Roger riuscì a dimostrare che la Amazon sottoponeva gli indigeni ad un regime durissimo, in cui la fustigazione rappresentava un abituale meccanismo di oppressione. Per la seconda volta egli realizzò un lodevole esempio di operoso intervento in difesa di popolazioni oppresse. Al punto che nel 1911, pur riluttante, fu nominato Knight Bachelor dal re Giorgio V. Egli si ritirò dal servizio consolare nel 1913 e pressappoco in quel periodo si convertì alla causa irlandese, persuaso che il dominio britannico sull’isola fosse totalmente ingiustificato e nella sostanza crudele. Nel 1914 egli si era recato negli Stati Uniti per raccogliere fondi per i cosiddetti Volounteers cha affiancavano la IRB, Irish Republican Brotherhood, per organizzare la lotta contro gli inglesi. Cerco di semplificare la materia che è complessa: già nell’agosto di quello stesso 1914 Casement ed un altro esponente degli indipendentisti irlandesi, John Devoy, si incontrarono a New York col più alto diplomatico tedesco in loco, il conte Von Bernstorff, per proporgli quel piano di alleanza a cui ho accennato prima: se la Germania avesse venduto armi ai ribelli irlandesi e fornito consulenti militari, questi ultimi avrebbero iniziato una rivolta contro l’Inghilterra bloccando truppe e risorse fra quelle da inviare contro i tedeschi. In seguito all’incontro il presidente del “Clan na Gael”, John Kenny, non poté parlare con il Kaiser ma l’incarico di riceverlo fu curiosamente devoluto all’ambasciatore tedesco in Italia, Von Flotow, ed al suo sostituto, il principe Von Bülow. In ottobre lo stesso Casement andò in Germania passando dalla Norvegia. Cercò di reclutare nei campi di prigionieri inglesi una “Irish Brigade”, senza molto successo perché tutti gli irlandesi che combattevano nell’esercito inglese erano volontari. Nonostante il loro scetticismo, i tedeschi offersero ventimila fucili e dieci mitragliatrici con i proiettili, ma nessuna collaborazione da parte di ufficiali imperiali. Tuttavia le rami tedesche non raggiunsero mai l’Irlanda, malgrado che la nave tedesca che doveva trasportarle fingesse di essere norvegese e quindi neutrale. Alla fine lo stesso Casement si imbarcò su un sommergibile tedesco, l’U-19, venne condotto sulle coste irlandesi a Panna Strand nella contea del Kerry e successivamente individuato dagli inglesi e arrestato. Processato per tradimento, fu impiccato a Londra nella Pentonville Prison il 3 agosto 1916. Mentre aspettava l’esecuzione venne accolto nella Chiesa Cattolica e poté fare la comunione. Molti intellettuali inglesi intervennero in suo favore chiedendo un atto di clemenza. Fra di essi “l’inventore” di Sherlock Holmes, Sir Arthur Conan Doyle, il poeta W. B. Yeats, premio Nobel nel 1923, e George Bernard Shaw.

Potrei continuare a lungo ad occuparmi di Sir Roger Casement, ma non vorrei risultare troppo noioso. Ne faccio cenno qui perché si può dire che fa parte dei miei fantasmi sin dalla mia prima giovinezza. Credo di averne sentito “parlare” per la prima volta in uno dei molti libri sullo spionaggio scritti da un giornalista fascista minore, ma curioso, Italo Sulliotti, nato e cresciuto a Porto Maurizio, figlio di un magistrato sardo. L’ho conosciuto bene, per tanti motivi e perché è stato mio direttore per molti anni alla “Gazzetta del lunedì” (si tratta di una invenzione giornalistica genovese, e cioè di un settimanale con la forma e le caratteristiche grafiche di un quotidiano, che uscì autonomamente per anni e che esiste ancor oggi ma come settimo numero del “Corriere mercantile”). Sulliotti meriterebbe un elzeviro a parte, e non è escluso che, un giorno o l’altro, io lo scriva. Mi limiterò qui a dire che, dotato di quella facilità retorica di scrittura tipica dei liceali della sua epoca (era nato intorno al 1892/93), doveva trovare nel fascismo una tribuna ed uno sfogo naturali. Entrò nel giornalismo prima della Prima Guerra Mondiale, durante il conflitto fu propagandista per conto del Ministero degli Esteri e poi inviato speciale in Marina, durante il fascismo divenne, fra l’altro, ispettore dei Fasci italiani all’estero e, cosa a cui lui teneva moltissimo, per cinque anni direttore di un settimanale parigino, “L’Italie nouvelle”, scritto in francese ma di fatto rivolto ad una platea fascista o filo-fascista e pagato dal nostro Ministero degli Esteri. Il suo predecessore si chiamava Nicola Bonservizi, ed era stato ucciso a Parigi da un fuoriuscito italiano. Sulliotti, che non mi parve mai molto coraggioso, di Bonservizi parlava poco, ma della sua esperienza parigina parlava molto e con entusiasmo. Spesso iniziava il suo discorso dicendo: “… nei miei cinque anni di Parigi …” giusto per ribadire quella naturale inclinazione alla Francia che era allora così diffusa fra i liguri di Ponente e che conviveva con lui con una istintiva fascinazione per un paese che era tutto sommato una democrazia, ma che poi doveva deprecare per obbedienza fascista. Ripeto, potrei scrivere di lui a lungo, rievocando i suoi tic e le sue allusioni politiche. Ma credo che lo farò un’altra volta. Qui l’ho citato soprattutto per ricordare che è stato in uno dei suoi libri che, poco più che bambino, ebbi occasione di trovare un’esplicita rievocazione della tragica avventura di Sir Roger, che Sulliotti descriveva come se fosse stata conosciuta da tutti (e forse all’epoca lo era). I suoi libri conobbero un notevole successo. Erano generalmente rievocazioni del primo conflitto mondiale con particolare attenzione al mondo dello spionaggio, in un contesto che era tipico dell’epoca. A metà fra Salgari e Guido da Verona, all’insegna del mito trionfante della capitale francese ma anche di quello degli hotel di lusso e dei raffinati convogli della “Compagnie Internationale des Wagon-lits”. Fu nelle sue rievocazioni che io, piccolo com’ero, ebbi occasione di imbattermi in personaggi favolosi come Sidney Reilly, Bolo Pascià, Mata Hari, e appunto Sir Roger Casement. I quali convivevano in Sulliotti con l’ombra di Georges Clemenceau (“il Tigre”) e con i primi ricordi della Società delle Nazioni. Lavorando con Sulliotti, che per combinazione conoscevo sin dall’infanzia perché avevo abitato nel suo stesso palazzo a Genova, capii che cos’era quel giornalismo italiano furbesco e, per così dire, collaborazionista, che aveva mutato la sua iniziale vocazione unitaria e democratica con un’adesione al fascismo che, per essere totale e conclamata, non cessava di coltivare una dimensione al tempo stesso ironica e servile. Due aggettivi che potrebbero riassumere la vita e le opere di tanti giornalisti del periodo fascista. Anche di alcuni ben più grandi e intelligenti di Sulliotti che avevano senza alibi di sorta ceduto ad ogni suggestione del potere. Basterebbe fare il nome di professionisti e letterati di grandi qualità come Paolo Monelli, se non di quell’enigma giornalistico d’epoca che fu il pur intelligentissimo e dottissimo Giovanni Ansaldo.
In attesa di tornare sulla figura di Italo Sulliotti, come emblema di un’intera classe politico-professionale, mi limiterò a ricordare che paradossalmente fu proprio nei suoi libri che cominciai ad amare i mondo dello spionaggio ma anche quello della democrazia prefascista, senza sapere che la mia convivenza con lui mi avrebbe, in questo senso, marchiato in modo decisivo.

P.S. Mi scuso per l’eccessiva lunghezza del testo.


Claudio G. Fava


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