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20 agosto 2010

LA MIA FEDELTA' A CAVOUR

Ho pubblicato nel blog un mio articolo motivato da un fondo di Ernesto Galli della Loggia, in data 10 agosto 2010, dedicato a quel personaggio straordinario che fu Camillo Benso conte di Cavour. L’autore si chiedeva il perché della scarsa popolarità del personaggio, e più largamente, “esito naturale della scarsa conoscenza- popolarità che da noi ha il Risorgimento, cioè quella parte della nostra storia che riguarda la nascita della nazione”. Nel mio articolo ebbi occasione di ricordare i profondi legami, tipici dell’aristocrazia piemontese del tempo, con la Francia ed i costumi francesi. Ribaditi, nel caso di Cavour, da quelli con la famiglia svizzera della madre, i Sellon, ed i numerosi parenti con cui era in contatto sin dall’infanzia. Questo richiamo verso la Francia in lui era paradossalmente ricordato perfino dal nome del suo feudo, appunto Cavour, che ha grafia e suono francesi, ma che in realtà si trova in pieno territorio piemontese. Infatti la cittadina (nel 2001 5.283 abitanti) è situata a 52 chilometri da Torino, ancora in provincia di Torino ma vicina alla provincia di Cuneo. Ed è circondata da altra località tutte dal nome italianissimo: Bagnolo Piemonte, Pinerolo, Bricherasio, Luserna San Giovanni, eccetera… (con qualche dubbio per quel che riguarda la pronuncia locale di Barge). Si direbbe che l’aver annesso il feudo di Cavour realizzasse in maniera simbolica una inconscia vocazione del personaggio: il primo antenato di Camillo ad essere legato a Cavour fu il marchese Michele Antonio (1600-1655), signore di Ponticelli, su investitura di Carlo Emanuele II di Savoia. Come si vede una configurazione antica ed ammonitoria.
Nel mio articolo avanzavo l’ipotesi che l’estraneità di Cavour dalla piccola storia d’Italia fosse avvertita dalla maggioranza dei nostri connazionali proprio come un segnale preciso. E cioè che il conte non fosse (per bagaglio culturale, per abitudini linguistiche, per sedimentazioni secolari) italiano per niente, nonostante il suo apporto decisivo all’unità d’Italia. Trauma che egli favorì in ogni modo con una sorta di estraneità di fondo per una nazione che voleva inventare ad ogni costo ma che gli restò, linguisticamente e geograficamente, estremamente lontana. Vorrei premettere che io ho profondamente amato Cavour, e che ho letto tante volte il suo affascinante diario giovanile (tradotto in italiano ma scritto in francese) anche se non sono mai riuscito a trovare l’originale, forse anche più ampio e minuzioso delle correnti versioni scolastiche nella nostra lingua. In questi ultimi anni l’avversione a Cavour è andata articolandosi e consolidandosi all’interno di quel movimento meridionale indipendentista, comunemente conosciuto come “neoborbonico”. Il quale appunto si richiama ai Borboni – mettendo tre gigli nello stemma – perché la dinastia fu il momento finale di un’indipendenza politica e morale scardinata e violentata dall’arrivo “criminale” dei rapinatori Savoia. In internet è facile trovare ampio materiale sull’argomento, con fior di esempi rabbiosi di massacri compiuti nel sud dai piemontesi, e ignorati, a magari glorificati, dalla retorica risorgimentale.
Probabilmente in questo atteggiamento ed in queste rivendicazioni c’è un elemento di verità, che non ha mai sfiorato noi settentrionali abituati a vedere la “liberazione”, garibaldina e regia, del sud, come un elemento automaticamente recepito nella storia dell’800 italiano. L’unità d’Italia, sotto l’impulso e la vocazione di Casa Savoia, ha reso questa polemica al tempo stesso inattesa e goffa. In una nazione usa a considerare l’argomento più nell’ottica de “Il brigante di Tacca del Lupo” che in quella, poniamo, de “L’alfiere” di Carlo Alianello. Il quale, romano di famiglia lucana, trasse dai ricordi del nonno, ufficiale borbonico sempre rimasto fedele al giuramento, tutti gli impulsi della sua opera di scrittore, cantore di un regno scomparso ma non dimenticato.
Il discorso qui meriterebbe di essere allargato concedendo un po’ di spazio alla rievocazione dell’esercito delle Due Sicilie, completamente cancellato nel ricordo dalla raggiunta unità. Forse l’ultima vestigia conservata è la Scuola Militare della Nunziatella, tutt’ora conservata a Napoli e ultima testimonianza di un’antica tradizione. Invece di conservare qualche nome di Reggimento e di Corpo, così da saldare il nuovo esercito alle vecchie armate meridionali, l’impronta delle forze armate sarde fu automaticamente impressa nelle province meridionali. Altrettanto si dica dei nomi degli ufficiali. Se i generali furono in genere scadenti, anticipando nel crollo dei Borboni quel che poi accadde all’esercito italiano l’ 8 settembre del 1943, vi furono singoli esempi di grande coraggio e grande valore. Si pensi ad esempio a Ferdinando Beneventano del Bosco (Palermo, 3.3.1819 – Napoli, 8.1.1881), di antica famiglia siracusana – i Beneventano del Bosco posseggono tutt’ora uno splendido palazzo ad Ortigia, situato proprio di fronte a quello del comune. Egli, poco prima della resa di Gaeta, era stato promosso maresciallo di campo, e per buona parte della campagna meridionale fu un simbolo di resistenza che arrivò a galvanizzare i soldati borbonici. Nell’ultima parte della sua vita egli girovagò per varie capitali estere fino a giungere in Spagna ed in Marocco, per tornare poi a Napoli, dove morì. Il nuovo esercito gli offrì al massimo il grado di capitano, rinunciando in questo modo a riconoscere il valore dei nemici, compiendo così un errore che personalmente considero fondamentale (ciò non accadde per tutti gli ufficiali: tipico fu il caso di Pianell, di sentimenti liberali e poco amato alla corte borbonica, che nell’esercito “piemontese” divenne generale, senatore del Regno, dopo aver rifiutato per diverse volte il ministero della guerra). Proprio sotto il profilo militare val la pena di osservare che, con l’abolizione della coscrizione, i meridionali si sono riversati nelle forze armate, involontariamente recuperando il carattere “regionale” del vecchio esercito borbonico. E’ un tema ampio e non molto analizzato, sul quale amerei ricevere commenti ed osservazioni dei lettori. Ci tengo a far presente che, per quanto mi risulta, non ho rapporti col sud: mio padre era di Porto Maurizio e mio nonno di Novi Ligure.


Claudio G. Fava

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