Blog - Crediti


L'audio e i video © del Blog sono realizzati, curati e perfezionati da Lorenzo Doretti, che ha anche progettato l'intera collocazione.
L'aggiornamento è stato curato puntualmente in passato da diverse collaboratrici ed attualmente, con la stessa puntualità e competenza, se ne occupano Laura M. Sparacello ed Elisa Sori.

20 dicembre 2010

TRUFFAUT DE MA JEUNESSE - Video

Tempo fa, non potendo andarci di persona, ho inviato alla sezione di Francesistica della Facoltà di Lingue e Letterature Straniere dell’Università della mia città (Piazza Santa Sabina 2, 16124 Genova) un DVD con una breve lezione sul tema del doppiaggio. Conteneva specifici riferimenti al film di Jean-Luc Godard “A bout de souffle” (“Fino all’ultimo respiro”, 1960) del quale esemplificavo le particolarità dell’adattamento e le differenze fra il testo francese originale e quello adottato nella versione italiana. Il DVD venne fatto vedere agli studenti e, a quanto sembra, piacque. Anche in funzione del relativo successo mi è stata chiesta un’ulteriore lezione su François Truffaut e sul suo lungometraggio di esordio “I quattrocento colpi” (“Le Quatre Cents Coups”, 1959). Sempre grazie all’amichevole ed efficiente cortesia di Lorenzo Doretti ho registrato a casa mia una lezione sul tema, nella quale sono stati inseriti i brani (tratti da due DVD in commercio) del film di Truffaut sopra citato e di “Baci rubati”, un altro dei suoi lungometraggi in cui si seguono ancora le avventure di un personaggio chiamato Antoine Doinel. Il quale esordisce appunto, ancora ragazzo, ne “I quattrocento colpi”: ritornerà diverse altre volte nella filmografia di Truffaut, sempre interpretato da Jean-Pierre Leaud. Questi in pratica finirà, pur dimostrando palesemente una certa riluttanza, con l’identificarsi con il suo personaggio, pur cercando di foggiarsi uno stile autonomo meno pesantemente condizionato dall’eredità del suo primo film (che è anche il primo lungometraggio del regista).

La mia lezione in DVD dura quasi un’ora e, dopo lunga riflessione, ho deciso di riportarla nel blog. Mi rendo conto che potrebbe destare qualche perplessità l’uso dei brani di film prima citati, ma vorrei ricordare che non ho né chiesto né ottenuto denaro (come del resto Doretti) per questa prestazione, e che pertanto il mio è un (piccolissimo) regalo alla Facoltà di Lingue dell’Università di Genova, mosso da un evidente intento didattico. Fra l’altro, i frammenti di film riportati sono trascritti nella lingua francese originale, visto che si rivolgono a una sezione di Francesistica. Per cui una ipotetica concorrenza potrebbe esercitarsi, di fatto, solo se il blog venisse visto e ascoltato in Francia. Particolare che mi lusingherebbe, ma che non ha nessun riscontro nella realtà. Ecco dunque il video mostrato agli studenti giovedì 9 dicembre 2010. Non escludo che i loro eventuali commenti possano pervenirmi e in questo caso essere poi riportati sul blog. Approfitto dell’occasione per ringraziare le operose professoresse universitarie della sezione di Francesistica ed in particolare Micaela Rossi, la quale spinge la gentilezza sino a venire a casa mia a ritirare i DVD, e Nancy Murzilli. Spero, nel DVD, di non essere riuscito troppo noioso perché quando parlo o scrivo di Truffaut tendo ad avere l’incontinenza e l’ingenuo entusiasmo del tifoso. Non mi sono riascoltato, quindi giudico a memoria, e perciò spero di apparire abbastanza chiaro e abbastanza persuasivo. Se non è così, fatemelo sapere con doverosa crudeltà.

Ecco a voi l’intervento parlato e recitato.


10 dicembre 2010

CONSIDERAZIONI (TEMPORANEE)
SU WIKILEAKS


Vladimir Putin e Julian Assange

Sto preparando, insieme ad alcuni amici, un ampio studio sui problemi dello spionaggio, vero e fittizio, e proprio adesso è scoppiato lo scandalo di Wikileaks. E’ chiaro che bisognerà aspettare gli aspetti futuri della vicenda. Ad esempio, mentre stavo scrivendo queste righe, è giunta la notizia che la magistratura inglese si impegna nel giro di pochi giorni a rispondere alla richiesta di estradizione in Svezia di Julian Assange. Contemporaneamente si è appreso che un importante esponente australiano di fatto ha accusato di furto gli Stati Uniti d’America (che, per quanto ne so io, sono essi le vittime di un furto, opera di “hackers” che hanno saccheggiato gli archivi elettronici americani). Si tratta evidentemente di uno degli scandali più clamorosi che abbiano scosso l’America e, al suo fianco, buona parte dei governi del mondo (il ministro Frattini, con una capacità immaginosa insolita nei politici italiani, ha detto che si tratta “dell’undici settembre della diplomazia mondiale”). Tuttavia sin da adesso è possibile procedere a qualche osservazione preliminare.
Quel che si può comunque osservare, in qualsiasi modo vadano a finire le cose, è l’estrema fragilità della civiltà telematica che abbiamo costruito in questi ultimi anni. Le incursioni di Wikileaks negli archivi degli Stati Uniti sono una riprova, ammesso che ve ne fosse bisogno, della incongruenza e della debolezza implicite in un sistema di archiviazione e di comunicazione che poggia su internet e che è implicitamente soggetto alla diabolica furbizia degli “hackers”. Se tutto lo stesso materiale segreto fosse stato compreso in contenitori all’antica (raccoglitori, faldoni, eccetera …) per svelarlo sarebbe stato necessario fotocopiarlo. Il che avrebbe reso molto più facile difenderne la segretezza e respingere le intrusioni. Vale a dire che la pretesa modernità dell’archiviazione contemporanea è in realtà una forma di debolezza e di inefficienza. Meglio i faldoni, che nei documentari sulla burocrazia italiana vediamo implicitamente sbeffeggiati, ed esplicitamente trasportati dagli uscieri su dei goffi carretti, che le modernissime memorie computerizzate. Non è improbabile che tutti i sistemi di archiviazione confidenziale di materiale scritto debbano essere rivisti e rivalutati, o almeno quelli riguardanti documenti implicitamente secretati. Fuori di dubbio c’è in tutto quello che è accaduto un elemento paradossale: l’urgenza di adattare gli archivi italiani ai nuovi dettami elettronici, raccomandata ed elogiata dal ministro Brunetta, è stata brutalmente smentita. Per il resto aspettiamo a giudicare. Per ora possiamo formulare un dubbio sui criteri usati dagli americani per alimentare i vertici delle loro rappresentanze presso gli stati stranieri. In Europa, in genere, diventano ambasciatori, alla fine di una lunga carriera, e dopo molteplici esperienze sia al ministero che in sedi consolari e diplomatiche all’estero. Non è escluso che siano dei cretini, legati alle correnti del potere dominante, ma è possibile che siano uomini saggi, levigati da decenni di pratica burocratica in tutto il mondo, spesso in grado di parlare diverse lingue, affinati, al di là ed oltre le rispettive intelligenze, da lunghe soste in paesi diversissimi dal loro. Invece negli Stati Uniti, credo non sempre ma sicuramente molto spesso, la carica di ambasciatore è una sorta di premio con cui il presidente rimerita gli amici o indennizza i nemici. Basta guardare agli ambasciatori americani a Roma per vedere quanti sono quelli estranei alla carriera e di nomina presidenziale. Ve ne fu uno che aveva la moglie veneta, la quale gli aveva insegnato a dire “prima de parlar, tasi” (la qual cosa, ovviamente, poteva capitare anche a uno di carriera, ma che nel caso specifico ebbe un insolito risalto mediatico). Una indagine meticolosa in argomento potrebbe fornire moltissimi nomi di ambasciatori “inventati” dai vari presidenti americani. Alcuni tornano alla memoria anche a me. Ad esempio il padre di John Fitzgerald Kennedy, Joseph Kennedy, uomo che aveva sotto molti riguardi una dubbia fama, fu nominato da Franklin Delano Roosevelt, di cui era un sostenitore, addirittura ambasciatore a Londra e rimase in carica dal 1937 al 1940, vale a dire nel periodo decisivo in cui la Gran Bretagna entrò in guerra. Una sua figlia, Jean Ann Kennedy, sposata a Stephen Edward Smith, una vota rimasta vedova fu nominata ambasciatore degli Stati Uniti in Irlanda, dal 1993 fino al 1998. Fra gli infiniti altri esempi possibili citerò quello di una buona amica democratica di Truman, che venne nominata ambasciatore in Lussemburgo (carica credo molto comoda, che le consentiva di vivere in Europa, in un paese di alto livello di vita, con tutti i privilegi dei diplomatici). Un altro caso è quello dell’ammiraglio William D. Leahy, amico di Roosevelt, che questi nominò ambasciatore a Vichy e che era ancora in carica presso Petain, nell’aprile del 1942, vale a dire cinque mesi dopo Pearl Harbour! Del resto Leahy era un beniamino di Roosevelt, fino a ricevere la nomina a “Five Star Admiral”, ovvero “Fleet Admiral”, cioè comandante della flotta. La sua missione a Vichy è stata discussa. Invece è sicuro che egli si sia opposto, con Truman presidente, al lancio dell’atomica su Hiroshima e Nagasaki, dicendo che la guerra ormai era vinta, che si trattava di un gesto barbarico e che i conflitti non si conducono uccidendo donne e bambini.
Esempi di carriere “utroque jure” come questi ce ne sarebbero moltissimi, e se il dramma di Wikileaks dovesse continuare varrebbe la pena di fare un’indagine al riguardo, giusto per vedere se i pettegolezzi dei politici e degli industriali prestati alla diplomazia tendano ad essere più acri e insistiti di quanto non lo siano quelli dei diplomatici di professione.
Un’ultima considerazione da fare è che il saccheggio degli archivi digitali degli Stati Uniti alla lunga ricade su questi ultimi. Infatti se esiste un sistema di connessione e di scambio di posta fra computer e computer lo si deve ad un’esplicita richiesta dell’esercito americano. Che qualche decennio fa chiese agli specialisti di studiare un sistema di trasmissione di messaggi rapido, discreto e non intercettabile. Nessuno allora avrebbe potuto supporre che sarebbero esistiti gli “hackers”, vale a dire i responsabili di una sorta di aids delle macchine intelligenti. Tutta la nostra civiltà è ormai sottoposta a una sorta di immenso ricatto, e se ne leggono le caratteristiche molli e sprezzanti sul volto al tempo stesso disponibile e intollerante di Assange.
Un’ultima osservazione riguarda l’intervento di Vladimir Putin che ha deprecato l’arresto di Assange chiedendo pubblicamente se questa operazione sia compatibile con la democrazia. C’è in Putin una forma di ironia che non ho ancora capito se è volontaria o involontaria. Ricordiamoci che egli, dopo gli studi universitari, nel 1975 entrò nel KGB (Komitet Gosudarstvennoj Bezopasnosti, ovvero Comitato per la Sicurezza dello Stato), vale a dire nel più ampio, ricco, potente sistema di polizia politica e di spionaggio, sia all’esterno che all’interno, che esistesse al mondo. Vi percorse una carriera confortevole ed evidentemente apprese tutte le astuzie del carrierista, perché, mentre stava nascendo una nuova Russia, Eltsin lo nominò capo dell’FSB, cioè dell’organismo poliziesco che aveva ereditato dal KGB i compiti riguardanti il controspionaggio vero e proprio. Putin rimase in carica dal luglio 1998 all’agosto 1999, mettendo le basi di una lusinghiera carriera politica. Infatti giusto per riprendere quel che ha scritto Wikipedia “il 9 agosto 1999 Vladimir Putin fu nominato Primo Deputato, carica che gli permetterà quello stesso giorno, dopo la caduta del precedente Governo guidato da Sergei Stepašin, di essere insignito dell'incarico di Primo Ministro della Federazione Russa dal Presidente Boris Eltsin. Eltsin dichiarò inoltre che avrebbe desiderato che Putin diventasse il proprio successore. Poco dopo tale augurio, il nuovo Primo Ministro dichiarò la propria intenzione di correre per la Presidenza. Il 16 agosto, la Duma ratificò la sua nomina a Primo Ministro con 233 voti a favore (contro 84 contrari e 17 astenuti), facendo di lui il quinto Capo di Governo in meno di diciotto mesi. In tale carica Putin, pur essendo pressoché sconosciuto all'opinione pubblica, durerà di più dei propri predecessori. I maggiori oppositori di Eltsin e aspiranti alla Presidenza, il Sindaco di Mosca Jurij Mikhailovič Lužkov e l'ex Primo Ministro Evgenij Primakov, stavano già cercando di rimpiazzare il Presidente uscente, e contrastarono duramente Putin quale nuovo concorrente. L'immagine di Putin come uomo d'ordine e il suo deciso approccio alla Seconda Guerra Cecena riuscirono tuttavia ad aumentarne la popolarità tra le masse, e gli permise di superare i propri rivali.“
Non mi pare che il suo passato lo autorizzi né a invocare né a giudicare la democrazia. Capisco che vi sia in lui un certo risentimento, probabilmente per alcuni giudizi della diplomazia americana sulla sua persona, ma è difficile immaginare che quest’uomo possa veramente inserirsi nel meccanismo parlamentare, sottilmente bilanciato, complesso e tortuoso di un vero regime democratico. Credo si possa dire che dei suoi giudizi faremmo volentieri a meno.


Claudio G. Fava.
10/12/2010
(battute: 9.363)

1 dicembre 2010





"L'OMBRA DEL POTERE": CONTRIBUTO DI BRUZZONE E PARTICOLARI SU ANGLETON



James Jesus Angleton e Matt Damon



Nel mese di novembre ho scritto nel blog complessivamente tre brani in cui parlo di Robert De Niro e dei due film da lui diretti: “Bronx” (“The Bronx Tale”, 1993) e “L’ombra del potere” (“The good Shepherd”, 2006). Il mio amico Natalino Bruzzone, critico cinematografico del Secolo XIX, mi ha scritto due righe che dicono: “Carissimo Claudio, anch’io sono d’accordo sul film di De Niro e se ti serve ti allego la mia recensione apparsa sul Secolo, forse l’unica positiva in Italia. Un abbraccio grande, Natalino”. Accolgo con piacere l’offerta e pubblico qui di seguito la recensione di Natalino. Come il lettore potrà leggere in essa si evita una mia distrazione, a causa della quale mi dimenticai nel mio intervento di fare quello che Natalino non ha dimenticato, e cioè di far cenno della somiglianza fra il protagonista del film (una ottima interpretazione di Matt Damon, definito nel testo “eccellente e gelido”) e un famoso protagonista dei servizi segreti americani, e cioè James Jesus Angleton. Detto “the Kingfisher”, Angleton (9 dicembre 1917, 12 maggio 1987) è stato a lungo il capo del controspionaggio della C.I.A. . E, come dice Wikipedia, “se il generale William Joseph Donovan“ (ovvero “wild Bill” Donovan, parte piccola nel film ma figura decisiva nella storia: è quella interpretata dallo stesso De Niro) “può essere definito il padre della C.I.A., dal canto suo Angleton è considerato la madre dell’intelligence statunitense”. Nel testo di Wikipedia su di lui si ricorda che, pur essendo uno dei più importanti cacciatori di spie della Guerra Fredda, Angleton, malgrado fosse ossessionato dalla convinzione che nella C.I.A. si nascondesse una importantissima “talpa” sovietica, non smascherò il famoso “Kim” Philby, cioè il capo dei “Cinque di Oxford” (suo amico e, credo, suo istruttore durante la Seconda Guerra Mondiale), i quali per anni inflissero colpi mortali allo spionaggio britannico. Angleton era sicuramente un personaggio fuori del comune. Figlio di un ufficiale di cavalleria e di una donna messicana, negli anni Trenta visse con la famiglia in Italia,dove il padre dirigeva la filiale di un’azienda americana. Per questa ragione egli conosceva l’italiano. D’altronde era una persona di espliciti gusti letterari, amante della poesia, e in particolare di Ezra Pound e di Thomas Elliott, e fra i suoi hobby c’erano la pesca, la gemmologia e, come Nero Wolfe, la coltivazione delle orchidee. L’avventura di Angleton nella C.I.A. fu lunga e tempestosa. Alla fine della guerra era a Roma, dove sembra si sia occupato in modo decisivo del salvataggio del principe Junio Valerio Borghese, già comandante della Decima Flottiglia Mas (la C.I.A., e in particolare Angleton, furono esplicitamente accusati di aver utilizzato ex-combattenti di Salò, a cui ricorrere nel caso che i comunisti avessero tentato una rivolta armata). Non è possibile qui ricostruire in modo esauriente l’incredibile avventura di Angleton all’interno della C.I.A., nella quale egli esercitò un’attività di controllo interno via via sempre più importante. Ossessionato, come si è detto, dalla convinzione di essere circondato da una ampia organizzazione di spionaggio sovietico, già negli anni Sessanta cominciò a sostenere che numerosi esponenti politici occidentali fossero agenti del K.G.B.. Fra le persone da lui accusate ci furono Harold Wilson, per due volte “premier” britannico, dal 1964 al 1970 e dal 1974 al 1976, i canadesi Lester Pearson e Pierre Trudeau, il tedesco Willy Brandt – in effetti il suo segretario Guillaume si scoperse essere una spia della Stasi – e lo svedese Olof Palme (il quale, per la verità, venne misteriosamente ucciso in una strada di Stoccolma mentre tornava dal cinema la sera del 28 febbraio 1986; ci sono state inchieste per anni e non si è giunti ad alcun risultato). I sospetti di Angleton salirono via via i gradini della scala gerarchica. Fra quelli che egli tendeva ad accusare c’era addirittura anche Henry Kissinger, allora segretario di stato, e perfino dei collaboratori del presidente degli Stati Uniti Gerald Ford. Alla fine William Colby, allora importantissimo direttore della C.I.A., anch’egli con un passato si spia di alto livello, riuscì a licenziare “l’onnipotente collega con molti suoi collaboratori”. Sembra che ci siano voluti anni per riorganizzare la C.I.A., una volta liberatisi dalle ossessioni di Angleton.

A conclusione è divertente rilevare che invece il giornalista investigativo americano David C. Martin sostenne essere stato Angleton un filocomunista, sin dai tempi della sua amicizia con “Kim” Philby. Senza mai contattare i russi, avrebbe agito da solo per distruggere la C.I.A. dall’interno. E’ un’idea bizzarra che non so quanto sia condivisa dagli specialisti. Ed ora ecco il testo di Natalino:



Non la coltivazione delle orchidee, ma la paziente, sapiente e allusiva manualità di mettere una nave dentro al vetro intatto di una bottiglia. La spia in grigio, che Robert De Niro ha scelto come protagonista di “L’ombra del potere”, assomiglia al profilo reale di James Jesus Angleton, un mito della Cia che in serra curava i suoi boccioli delicati mentre in ufficio innaffiava, giorno dopo giorno, la teoria e la pratica ossessive e compulsive di smascherare la talpa del Kgb in seno all’Agenzia.
Svilito da un titolo italiano da thriller pedestre (l’originale “Il buon pastore” è carico di simbolici riferimenti biblici all’addestramento di “pecorelle”, ma con maschere e pugnali), la spy story di De Niro dietro la macchina da presa ha molti padri nobili tra cinema e letteratura: la drammaturgia ritualistica e avvolgente del “Padrino” di Coppola; il senso di John le Carré per le zone grigie dell’ambiguità e della burocrazia dell’intelligence che si riflette nel protagonista di un eccellente e gelido Matt Damon tarato da colletto bianco in antitesi all’eroismo bondiano; il piacere della saga narrativa di una famiglia di agenti della Cia appresa probabilmente dalla pagine e dai capitoli di “The Company” di Robert Littell.
Tra il secondo conflitto mondiale e il disastro alla Baia dei Porci, tra l’idealismo anche settario dell’università e l’intersecarsi di doppi e tripli giochi, tradimenti e traumatiche lacerazioni padre-figlio (come in “Bronx” l’opera prima di De Niro) il copione di Eric Roth e la sua messa in sequenze si aprono alla mistica della segretezza e della sicurezza nazionale. Figurativamente affascinante, “L’ombra del potere” lamenta un’opacità e una fluvialità che, comunque, non sono semplicemente il lampeggio di un’incapacità a trovare una energetica dialettica interna al racconto, ma si rivelano per una scelta stilistica da cerimoniale metaforico che affonda nel mistero e nelle sue manifestazioni intossicanti a più di una dimensione.
Ambizioso e tragico, l’occhio di Robert De Niro ( che si riserva il ruolo di un clone del generale Donovan, gran papà dell’Oss e genitore putativo della Cia) s’impossessa di una storia e della Storia per renderle attraverso l’ordinarietà di un uomo senza qualità, di un burocrate che sacrifica se stesso e i suoi affetti alle religione di una professione capace di sollevare l’universo con la leva dell’inganno e della menzogna. Da non sottovalutare (come è accaduto negli Stati Uniti tanto al botteghino quanto nelle recensioni), da non schiacciare sulle similitudini tra il passato (la Guerra Fredda) e il presente (la sfida armata al terrorismo) e da non trattare come l’esperimento di un attore che ha voluto farsi regista oltre i suoi talenti specifici, perché “L’ombra del potere” è, al momento, l’unico testo per lo schermo che cerca di restituire la complessità del fattore umano in termini di spionaggio così come i migliori romanzi hanno predicato non invano.

Natalino Bruzzone


Battute: 7.765






30 novembre 2010

RICORDO ADDOLORATO DI MARIO MONICELLI


Ho appreso della morte di Monicelli ieri sera tardi leggendo nel televisore, prima di andare a letto, le notizie dell’Auditel. Come è noto, con il 103 per le “News” vere e proprie e con il 108 per lo sport. Questo naturalmente per ciò che riguarda la RAI. Per Mediaset i numeri sono ancora 103 e poi 108 e 120. Mi accorgo che questi numeri mi vengono automaticamente alla mente e alla mano, a testimonianza del profondo coinvolgimento di cui siamo, al tempo stesso, soggetto e oggetto appunto con il mondo “numerato” che regge la civiltà del televisore e del computer. Per esempio ci sono dei riferimenti obbligati per vedere il calcio in televisione, e alludo soprattutto a Sky, il 201 e/o il 505 per le partite, il 200 per il telegiornale di gossip sportivo, il 500 per il comodo telegiornale a getto continuo, ma anche il 301 e successivi per i film e i numeri per i telefilm polizieschi, tipo “Law and Order”, “Numbers”, “C.S.I.”: titoli che mi fanno venire in mente il periodo ormai lontano quando materiale del genere dipendeva da me, come accadde con tanti seriali d’epoca, da “Miami Vice” a “Hill Street”…

Insomma, schiaccio il bottone del 103 e vedo annunciata la morte di Monicelli. Confesso che la cosa mi ha fatto un’impressione enorme. Tanto più che gli avevo parlato al telefono alcune settimane fa. Per il giorno 12 novembre era prevista a Genova una manifestazione in onore di Suso Cecchi D’Amico, alla quale avrebbero dovuto essere presenti il figlio Masolino e le figlie Silvia e Caterina. Ero stato invitato anch’io, ma avevo fatto presente che non mi muovo molto bene e che, ove Monicelli, antichissimo frequentatore della famiglia D’Amico e tradizionalmente ospite a pranzo alla domenica, non avesse potuto venire da Roma, avrei potuto risolvere il problema da casa, con una telefonata a Mario. Ci sentimmo una prima volta, lui fu con me molto gentile, come lo era in genere nonostante il carattere brusco, e mi disse che ne avremmo riparlato al momento opportuno. Poco prima di quel pomeriggio gli telefonai e lui mi disse che non avrebbe potuto parlarmi perché, aggiunse, “sono tutto intubato”. Lì per lì non capii bene e intuii che doveva essere malato, ma non avevo assolutamente idea di quale malattia e della sua gravità. Mario era molto concreto e spiccio, poco incline a parlare di sé, o, più esattamente, molto lucido e secco nel valutare se stesso e gli altri. Era un personaggio per molti versi eccezionale. Al centro del cinema italiano per decenni (dai primi film con Totò insieme a Steno, via via sino a “I soliti ignoti”, “La grande guerra”, “L’armata Brancaleone”, “La ragazza con la pistola”, “Amici miei, “Un borghese piccolo piccolo”, “I nuovi mostri”, “Temporale Rosy”, “Speriamo che sia femmina”, etc. …), era veramente un testimone di tante epoche diverse. A soli 21 anni di età era stato assistente per “Squadrone bianco” di Augusto Genina, e di anni ne aveva già 91 quando diresse “Le rose del deserto”, ancora una volta in Africa. Era un buon parlatore ma a modo suo schivo e, pur nel garbo, in qualche modo autoritario. Con me fu sempre molto gentile, anche se, all’occasione, sapeva tirar fuori le unghie. Diversi anni fa, per istigazione di Gianluca Farinelli, direttore della Cineteca di Bologna, io e lui demmo vita a un curioso duetto sul far cinema in occasione di una manifestazione patrocinata dalla locale università. Non so bene perché, Mario si ostinò a citarmi insieme ad Aristarco, critico cinematografico col quale io non ebbi assolutamente nulla in comune per da sempre e per sempre. Aveva avuto una vita privata intensa, di cui non parlava mai, e si può dire che conoscesse personalmente, e quasi dominasse, tutti i protagonisti del cinema italiano per mezzo secolo. Essendo nato a Viareggio passava, e si faceva passare, per toscano. In realtà la sua famiglia era originaria di Ostiglia, in provincia di Mantova, una cittadina di circa 7.000 abitanti, da cui provenivano anche i Mondadori. Con i quali Mario aveva un legame molto stretto. Infatti sua zia Andreina era la moglie di Arnoldo Mondadori e pertanto Alberto Mondadori era cugino primo di Mario. Il quale aveva fatto liceo e università a Milano, e con il cugino Alberto, quando entrambi erano ancora giovanissimi, aveva dato vita ad un’edizione muta de ”I ragazzi della via Pál”, girata nei giardini pubblici di Milano e interpretata, nella parte del soldato Nemecsek, da Eros Macchi, il quale doveva diventare un noto regista televisivo italiano. Il film io lo vidi a Venezia, non so più in che occasione, e debbo dire che, tenuto conto dell’età degli autori, era già a modo suo maturo e professionale (almeno questo è il ricordo che ne ho io). In questi ultimi anni, Mario aveva fatto una sorta di professione dell’esser vecchio. “L’età migliore – diceva – è quella dei 90 anni. Nessuno ti dice più niente, nessuno ti rimprovera, nessuno si impone, nessuno prova a darti ordini né a impedirti qualcosa”. Almeno era quello che asseriva, perché mi hanno raccontato che una volta entrò, dopo non esservi stato per anni, in una nota trattoria frequentata da registi e sceneggiatori nei pressi di Piazza di Spagna. Mario aperse la porta, dette un’occhiata, guardò bene tutti e poi, ad alta voce, disse “tutti vecchi!” e se ne andò. Da alcuni anni conduceva una vita solitaria, pur avendo figli e nipoti, e su questo argomento dichiarò, in un’intervista, una motivazione paradossale, che è questa: “Vivo da solo per rimanere vivo il più a lungo possibile. L'amore delle donne, parenti, figlie, mogli, amanti, è molto pericoloso. La donna è infermiera nell'animo, e, se ha vicino un vecchio, è sempre pronta ad interpretare ogni suo desiderio, a correre a portargli quello di cui ha bisogno. Così piano piano questo vecchio non fa più niente, rimane in poltrona, non si muove più e diventa un vecchio rincoglionito. Se invece il vecchio è costretto a farsi le cose da solo, rifarsi il letto, uscire, accendere dei fornelli, qualche volta bruciarsi, va avanti dieci anni di più.” Che io sappia la sua ultima compagna è stata Chiara Rapaccini, che lui conobbe quando aveva 59 anni e lei 19. Tempo dopo hanno avuto una figlia, Rosa: la mamma aveva 34 anni, e Monicelli 74.

Si può dire che tutto nella sua vita fu singolare e in certo senso unico. Ad esempio io lo interrogai molto sui suoi rapporti con i cugini Mondadori, e lui mi ripeté molte volte che quando da ragazzo andava nella loro villa di Meina, vedeva Arnoldo sempre con un taccuino in mano, che alla sera faceva dei conti.

E questo mi sembra un ritratto straordinario di un editore altrettanto straordinario, il quale si era fatto completamente da solo e aveva iniziato la vita lavorativa, da ragazzo, spingendo un carretto di libri. Questa mattina, mentre stavo dettando queste righe, mi telefonò Luciano Vincenzoni, mio grande amico e grande testimone di tutto un momento della storia del cinema non solo italiano. Mi disse di essere rimasto molto colpito dal suicidio di Mario, a cui aveva dato il soggetto e con cui collaborò in modo decisivo alla sceneggiatura de “La grande guerra”. “Ho fatto i conti – mi ha detto Luciano – e ho scoperto che sono l’ultimo superstite. Con la morte di Mario sono rimasto il solo ad essere vivo. Sono tutti scomparsi, almeno quelli principali: Alberto Sordi, Vittorio Gassman, Silvana Mangano, Romolo Valli, Folco Lulli, Livio Lorenzon, Bernard Blier, Tiberio Murgia, Elsa Vazzoler, Age & Scarpelli, lo scenografo Mario Garbuglia… ci sono rimasto solo io!”. E Luciano ha concluso tristemente: “tutti hanno scritto di tutto, e a me nessuno ha chiesto niente…”. Egli mi ha anche ricordato anche il padre di Mario, Tomaso, si suicidò, il 25 maggio 1946, e che fu proprio il figlio a trovarlo, dopo aver sfondato la porta del bagno. Tomaso era nato ad Ostiglia il 10 febbraio 1883, era stato per anni un noto giornalista e, dopo un inizio da militante nel sindacalismo rivoluzionario, si era poi imposto come critico letterario e teatrale e aveva successivamente costeggiato, negli anni anteriori alla Prima Guerra Mondiale, il movimento nazionalista, partecipando nel 1910 alla fondazione del partito. Negli anni Venti diresse molti quotidiani e una delle prime riviste italiane di cinema: “In penombra”.

Si avverte nella famiglia, al di là del successo, una spietata vocazione autodistruttiva che si sposa ad un grande talento e, almeno per anni, in apparenza, alla fama ed alla popolarità.


Claudio G. Fava

30 novembre 2010

Battute 8.461

29 novembre 2010



PRECISAZIONI SU DE NIRO

Nell’ultimo mio intervento in video parlo di due film diretti da Robert De Niro. Di quello che forse fra i due è il più importante, e cioè “L’ombra del potere” (The good shepherd), trascinato dall’entusiasmo, dimentico di dare alcuni dati essenziali. Prima di tutto che il protagonista (il personaggio si chiama Edward Wilson) è un eccellente Matt Damon. Il quale, nato a Boston nel 1970, ha già nel suo passato quasi sessanta film. Fra di essi, a partire dai tardi anni Novanta, vanno sicuramente citati alcuni titoli. “L’uomo della pioggia”, “Will Hunting, genio ribelle”, “Salvate il soldato Ryan”, “Ocean’s eleven – Fate il vostro gioco”, “Confessioni di una mente pericolosa” (esordio nella regia di George Clooney), “The Bourne supremacy”, “Ocean’s twelve”, “The Bourne Ultimatum – Il ritorno dello sciacallo” e “Ocean’s Thirteen”. Testimonianze di un talento molto più sottile (e non solo atletico) di quanto non sembri a prima vista. Gli altri attori al suo fianco sono Angelina Jolie, che è Margaret “Clover” Russell, Alec Baldwin, che è Sam Murach, Tammy Blanchard, che è Laura, Billy Crudup, che è Arch Cummings, e Keir Dullea, che è il senatore John Russell. Nel testo ho citato lo stesso De Niro nella particina decisiva di “Wild Bill” Donovan. La sceneggiatura è ottimamente bilanciata ed è opera di Eric Roth, nato a New York il 22 maggio del 1945, autore di una ventina di copioni messi in scena, fra cui mi sembra inevitabile ricordare “Forrest Gump” (1994), “L’uomo che sussurrava ai cavalli” (1998) e “Munich” (2005). Per il 2012 è annunciato il sequel de “L’ombra del potere”, che mi auguro De Niro riesca a realizzare e che dovrebbe arrivare, suppongo, nel ricostruire la storia della C.I.A., dalla Baia dei Porci ai giorni nostri. La mia breve apparizione in video ha provocato questa lettera di Alberto Marcheselli, di cui il 29 settembre ho pubblicato un elzeviro intitolato “Le mammine mannare” e ambientato fra le giovani madri del quartiere genovese di Castelletto. Pubblico ora la lettera di Marcheselli che mi invita ad una sorta di classifica di film secondo me imperdibili. Non so se dargli retta o no e mi sarebbe molto utile l’eventuale opinione degli (eventuali) lettori. Aspetto vostri pareri a stretto giro di “post”.

Ecco la lettera:


Carissimo Maestro,

ho visto A Bronx tale di De Niro ieri sera e mi è piaciuto molto.
Oggi guarderò A Good Shepherd.

Questo mi ha fatto venire in mente un'idea, che probabilmente è stupida, ma che devo comunque manifestare irrimediabilmente.

Sarebbe bellissimo che lei proponesse dei "percorsi di cinema", una specie di "caccia al tesoro".
Non (non necessariamente almeno) una classifica dei film secondo lei imperdibili, che probabilmente è un giochino per lei banale o noioso o troppo arbitrario, ma anche solo un gioco di libere associazioni, una specie di ciclo virtuale, come quei cicli magistrali che hanno allietato la mia infanzia e giovinezza in TV.
Qui si tratterebbe solo di indicarli e poi uno se vuole se li va a reperire e a vedere, ma avendo l'idea di una mano (la sua) che lo guida.

Per me e credo per molti sarebbe veramente una caccia al tesoro

A me già solo essere andato a recuperare questi due di De Niro su suo suggerimento ha divertito tantissimo e dato grandissimo piacere (ognuno ha le sue perversioni).

Chissà, magari piacerebbe anche a qualcun altro.
A me sicuramente sì.

E' solo un'idea e un modo per manifestarle la mia devota ammirazione.

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Alberto Marcheselli
"La mente è come un paracadute. Funziona solo se è aperta" - Frank Zappa

23 novembre 2010

Mafia e Cia - Video


Indispensabile precisazione sui due "De" - Video

Ho registrato, grazie come sempre alla operosa cortesia di Lorenzo Doretti , due brevi video da pubblicare qui sul blog. I due interventi riguardano l’uno Dino De Laurentiis e l‘altro Robert De Niro, con queste due “De”, meridionali e non nobiliari, che curiosamente uniscono due temi i quali in realtà non hanno nulla in comune. Vista l’amplissima e motivata partecipazione della stampa, quotidiana e televisiva, alla morte di Dino de Laurentiis, mi è parso in qualche modo giustificato questo mio breve intervento riguardante due periferici contatti avuti con lui nella bellissima e solitaria villa di Los Angeles, che era appartenuta a Joan Crawford. Le mie considerazioni su De Niro sono invece frutto di una solitaria devozione, e cioè dell’affetto vero e proprio che nutro su di lui come regista di due film semi dimenticati e, nel caso del secondo, “L’ombra del potere – The good shepherd”, del 2006 (lo trovo un piccolo capolavoro), totalmente sottovalutato:

10 novembre 2010

IL DOPPIAGGIO pregi e difetti - Video

Qualche mese fa la professoressa Micaela Rossi, che insegna nella Facoltà di Lingue e Letterature Straniere dell’ Università di Genova, sezione di Francesistica, mi ha chiesto una lezione sul tema del doppiaggio, che interessava gli studenti ovviamente in funzione dei rapporti fra l’italiano e il francese. E’ un tema del quale ritengo di essere autorizzato a parlare, sia per la lunga esperienza specifica che ho avuto alla RAI, sia perché da quattordici anni dirigo il più consolidato festival italiano sull’argomento, prima “Voci nell’ombra” e nel 2010 soltanto “Voci”. La serata di chiusura del festival ha avuto luogo a Genova al Teatro della Gioventù il 30 ottobre scorso, e debbo riconoscere che sono stato fatto oggetto da tutti i doppiatori presenti, alcuni dei quali famosissimi, di una commovente manifestazione di affetto.
La lezione sul doppiaggio richiestami dalla professoressa Rossi la tenni, tenuto conto delle mie condizioni di salute, non di persona ma attraverso un DVD realizzato, come sempre con la sua abituale dedizione, dall’amico Lorenzo Doretti. Venne mostrata agli studenti i giorno 21 maggio 2010, e mi pare di capire che sia stato complessivamente accolto in modo favorevole dagli spettatori. Se ricordo bene dovrebbe durare 45 minuti, che era appunto il tempo previsto secondo le tradizioni universitarie. Ho pregato Doretti di inserire il DVD nel blog, e ritengo che lo farò per tutte le mie altre, eventuali, conferenze in DVD, che forse possono rappresentare materia di curiosità per i lettori.

Ecco dunque il testo come l’abbiamo registrato poco prima del 21 maggio:



4 novembre 2010

Eugenio Corti - Video

Ho conosciuto Claudio Costa, cineasta e documentarista romano (a Roma ci sono moltissimi Claudio, e lui è un Costa non ligure), quando preparò una bellissima intervista a Luciano Vincenzoni intitolata “Il falso bugiardo”. Segnalai il documentario al Genova Film Festival e conobbi l’autore quando venne a presentarlo al cinema Sivori. Da tempo l’ottimo Costa sta preparando dieci monografie da 50 minuti l’una su altrettanti ex-combattenti italiani della Seconda Guerra Mondiale (il più noto di essi è l’ammiraglio Birindelli). A suo tempo ho segnalato a Costa il romanziere Eugenio Corti, che da giovane ufficiale di complemento combatté prima in Russia e poi in Italia nelle file del benemerito e dimenticatissimo C.I.L. (Corpo Italiano di Liberazione), che il Regio Esercito allestì nel 1944 per schierarlo contro i tedeschi in Italia. Originato dal cosiddetto Raggruppamento Motorizzato del generale Dapino, il C.I.L., alternativamente alle dipendenze degli inglesi e dei francesi, combatté coraggiosamente, nonostante la totale mancanza iniziale di mezzi e di divise, agli ordini del generale Massimo Utili. Il quale era stato proprio in Russia, nello C.S.I.R., come capo di stato maggiore del maresciallo Messe, e che ci ha lasciato un bel libro di ricordi. Io segnalai l’esistenza dello scrittore a Costa, indirizzandolo a Milano a Cesare Cavalleri, direttore di “Studi cattolici” e responsabile della casa editrice A.R.E.S., la quale ha appunto stampato i libri di Corti. Cavalleri è stato cortesissimo e grazie a lui l’intervista ad uno scrittore generalmente trascurato (il suo libro più famoso è “Il cavallo rosso”) ha avuto luogo. A lavoro ultimato il DVD su Corti comprenderà anche una intervista a me, che Costa è venuto a girare a Genova (mi aveva chiesto di parlare al massimo 10 minuti, ed esattamente 10 minuti ho parlato, avendo io conservato automaticamente l’abitudine ai tempi televisivi). Adesso grazie alla cortesia di Lorenzo Doretti pubblico l’intervista qui nel blog.


27 ottobre 2010



LIBRI DI CINEMA

Ultimamente ho ricevuto sei nuovi libri di cinema, cinque inviati gentilmente da Francangelo Scapolla, proprietario di Le Mani, casa editrice genovese ormai ben conosciuta fra gli editori specializzati. Ed uno fattomi pervenire da Enrico Lancia, uno dei tre autori (gli altri sono Massimo Giraldi e Fabio Melelli), di un’opera intitolata “Cento caratteristi del cinema americano”. Per scrupolo indico anche l’editore, Gremese, che cesserò di menzionare ulteriormente.
Il libro di Lancia, Giraldi e Melelli è, per una certa generazione di spettatori (alla quale io appartengo), quasi commovente.



I cento caratteristi menzionati nel titolo rappresentano la parte forse più toccante del cinema americano come abbiamo imparato a conoscerlo, almeno nel corso degli ultimi 50 anni. Notoriamente la storia hollywoodiana è, innanzi tutto e prima di tutto, una storia di facce. Una storia di primi piani, equamente divisi fra protagonisti e caratteristi, che da soli riassumono migliaia di film e milioni di sollecitazioni della memoria e del cuore. Ritrovarli tutti insieme costituisce un momento decisivo del nostro passato e quindi della nostra vita. Ognuna delle cento voci implica una ricerca accuratissima e la citazione di un numero infinito di film: si vede che i tre autori hanno passato buona parte della loro esistenza nelle sale oscure; solo grazie a questa vocazione, che risale sicuramente all’infanzia o alla prima giovinezza, è stato possibile concepire e poi realizzare il libro. Come dicevo l’elenco dei cento caratteristi (si comincia con Danny Aiello e si finisce con Gerald Tommaso De Louise, ovvero Burt Young, cioè Paulie Pennino, l’amico e allenatore di Stallone in tutta la saga di “Rocky”) costituisce da solo una sorta di manifesto programmatico del grande cinema americano del passato. Citando alla rinfusa vi ritroviamo Eddie Albert e Alan Arkin, Martin Balsam e Ward Bond, Lee J. Cobb e Elisha Cook jr., Jane Darwell, che apprendiamo chiamarsi in realtà Patti Woodward, e Marie Dressler, Jack Elam e James Gandolfini, Sidney Greenstreet e Peter Lorre, Donald Meek e Thomas Mitchell, e via citando, in una splendida galleria di volti e di nomi, ognuno dei quali evoca un intero film. Per continuare l’elenco in ordine alfabetico troviamo ancora, a casaccio, Karl Malden e Robert Morley, Joe Pesci e Claude Rains, Thelma Ritter, Everett Sloane e Jack Warden, Clifton Webb e James Withmore, giusto per il piacere di riportare nomi familiari e volti decisivi che hanno descritto un secolo intero con l’intensità di una Galleria degli Uffizi. In sostanza è un libro utilissimo.
Costa 35 euro, è arricchito da centinaia
di bellissime foto, da indici molto precisi e da una postfazione che cita anche tutti i grandi caratteristi, da William Bendix a Lionel Stander, da John Carradine a Jimmy Durante, da Adolphe Menjou a Nigel Bruce e Basil Rathbone, per i quali si è dovuto rinunciare ad una voce singola.
E’ un libro per gli appassionati e agli appassionati lo raccomando.

Cambiando editore, i cinque libri inviatimi da Le Mani sono, citandoli senza nessun ordine, “Halloween, dietro la maschera di Mike Myers” (14 euro) di Massimo Causo e Davide Di Giorgio, “Psycho & Psycho” (15 euro) di Massimo Zanichelli, “Elephant Man, l’eroe della diversità” (15 euro) a cura di Gabriele Mina, “Italoamericani, tra Hollywood e Cinecittà” (15 euro) di Flaminio Di Biagi e, infine, l’autorevolissimo “Horror” (18 euro) di Renato Venturelli. Si tratta di una nuova edizione aggiornata di quella apparsa nel 1994 e ristampata nel 2002. Venturelli, critico cinematografico de “Il Lavoro”, edizione genovese de “La Repubblica”, cura “Cinema & Generi”, pubblicazione annuale sul cinema di genere edita sempre da Le Mani, e da poco tempo è il successore di Piero Pruzzo alla direzione di “Film DOC”. Renato ha anche scritto altri due libri della serie monografica specializzata di Le Mani “Poliziesco americano in cento film” (1995) e “Gangster in cento film” (2000). La sua opera forse più impegnativa è “L’età del noir. Il cinema criminale americano 1940-1960”, apparso da Einaudi nel 2007. E’ un’opera di rara importanza, frutto di un enorme lavoro di censimento e di una specializzazione al tempo stesso devota e brillante. Nonostante il carattere minutamente specialistico ha avuto un tale successo che Einaudi ha richiesto un seguito, che dovrebbe apparire entro la fine dell’anno prossimo. Qui in particolare l’intenso lavoro di aggiornamento e di allargamento praticato da Venturelli trova una conferma nella parte introduttiva del libro, che si articola nei seguenti capitoli: 1. Evoluzione dei generi -2. Alle radici dell’horror – 3. Nascita e consolidamento – 4. La nouvelle vague dell’orrore – 5. Una cultura dell’horror – 6. Rifondazione dell’horror – 7. Il ’68 dell’horror – 8. Horror e post-moderno – 9. Global horror. L’elenco dei film inizia con la scheda de “Il gabinetto del dottor Caligari” di Robert Wiene, del 1919, e termina con quella di “Drag me to hell” di Sam Raimi, del 2009. Ci sono naturalmente anche i doverosi indici e una bibliografia di tre pagine che mi sembra considerevolmente ricca. Ci sono evidentemente nel libro, in omaggio alle tradizioni dell’editore, molte fotografie di manifesti di film che ribadiscono anche visivamente la tenace vocazione specialistica di Venturelli. Il libro allinea tante diverse tendenze dell’horror, perché dai film più apertamente “orrorifici” (da “Freaks” a “L’isola degli zombi”, da “Il mostro della Laguna Nera” a “La maschera di sangue”, per citare alcuni titoli molto amati dagli appassionati del genere), si trascolora poi in opere di più larga fruizione, come “L’occhio che uccide” e “Psycho”, “Gli uccelli” e “L’esorcista”, “Lo squalo” e “Shining”. Come accade con tutti i libri di Venturelli è un’opera utilissima, dove la ricerca minuta dell’appassionato si sposa all’eleganza divulgativa tipica della miglior tradizione del giornalismo di alto livello.
Degli altri quattro libri, il più apertamente fruibile come opera di consultazione è sicuramente il già ricordato “Italoamericani” di Flaminio De Biagi. L’enorme apporto degli oriundi alla creazione e alle creazioni di Hollywood è riassunto molto eloquentemente nel libro e a ribadirlo basta l’elenco principale dei capitoli: “Gli italoamericani sugli schermi di Hollywood”, “Gli italiani a Hollywood”, “Il primo esempio” (cioè quello di Rodolfo Valentino), “Il cinema muto”, “Anni Trenta e Quaranta”, “La Guerra”, “Anni Quaranta e Cinquanta”, “Anni Sessanta, “Anni Settanta”, “Anni Ottanta e Novanta”, “Ai giorni nostri” e “Conclusioni”. Una seconda parte del libro riguarda temi più specifici, da quello molto ricco degli italoamericani sugli schermi di Cinecittà alle varie articolazioni di tempi e di sfondi che vanno dal periodo muto sino ai giorni nostri.
Questi due libri, e gli altri tre prima citati (tutti e cinque sono editi nel 2010), costituiscono una riprova della agilità e del coraggio con cui si muove, nel panorama dell’editoria propriamente cinematografica, un uomo d’affari intraprendente e appassionato come Francangelo Scapolla. Essendo anche il mio editore non posso tessere troppe lodi di lui, ma credo onestamente che se le meriti tutte.


Claudio G. Fava


elenco delle foto, in senso orario da sinistra a destra: Hattie McDaniel (con Vivien Leigh), Jackie Oakie, Walter Huston, Donald Meek, Sidney Greenstreet, Eugene Pallette, Marie Dressler, Jane Darwell, "Dame" May Whitty, più in basso a sinistra la pietra tombale di Vincent Gardenia e della famiglia Scognamiglio (dalla quale sembrerebbe di poter dedurre che, dopo Scognamiglio, Gardenia sia il secondo cognome della famiglia) e sotto Vincent Gardenia, Ward Bond, Thomas Mitchell e infine Peter Lorre.


battute testo:7.190

21 ottobre 2010

DON MARIO E SIR ROGER


Mi ha fatto molto piacere il conferimento del bizzarro premio Nobel (lo ha ricevuto anche Dario Fo) a Mario Vargas Llosa, autore di cui ho letto poco in proporzione alla vastità dell’opera. Ma che mi ha sempre incuriosito, grazie alla varietà delle intrecciate esperienze di vita. Nato peruviano, credo sia cresciuto in Bolivia ed è stato largamente gauchiste in gioventù (al tempo dei suoi entusiasmi per Castro). Candidato di centro-destra alla Presidenza del Perù nel 1990 contro il misterioso oriundo giapponese Fujimori, si è via via convertito ad un esplicito liberalismo, continuando a scrivere, senza esitazioni e senza interruzioni, un’opera romanzesca molto ampia per ambizioni e dimensioni, che già da molto tempo lo aveva reso un candidato automatico al Nobel. Ha viaggiato ininterrottamente nel mondo, ha soggiornato a lungo a Madrid e a Parigi (ove è diventato amico di Sartre), adesso abita a Londra e dopo la sconfitta in Perù è ha ottenuto la cittadinanza spagnola, quasi a ribadire la sua fisiologica ispanità di sud americano non meticcio. Mi ha molto colpito il fatto che sia apparso un suo libro (in Italia verrà edito da Einaudi nel maggio 2011) intitolato “Il sogno del celta” che, in originale si intitola “El sueño del celta” e comincerà ad essere venduto in lingua spagnola nelle librerie a partire dal Novembre di quest’anno. E’ incentrato su un personaggio minore che mi ha sempre intrigato ed interessato, Sir Roger Casement, un ex-diplomatico britannico di padre protestante ma di madre nascostamente cattolica, che nei primi anni della guerra mondiale si convertì in modo totale alla causa irlandese. Come è noto, a coronamento di un complesso periodo di lotte e di alleanze, gli irlandesi, in genere cattolici, che desideravano l’indipendenza dell’isola e il suo totale distacco dall’Inghilterra, avevano dato vita ad un esercito clandestino che si preparava ma mano alla esplicita lotta armata. E’ un tema di largo interesse e in genere poco conosciuto dagli italiani, che andrebbe approfondito ma per il quale qui non ho spazio. Mi limiterò a ricordare che, a coronamento di una lotta di un’intera generazione, ebbe inizio a Dublino il 24 Aprile del 1916, lunedì dopo Pasqua, una rivolta armata a cui parteciparono inizialmente circa 1.500 fra uomini e donne e che provocò poi una repressione feroce, conosciuta nei libri inglesi di storia come “The Easter Rising” o “The Easter Rebellion”. Qualche anno dopo, pressappoco all’inizio degli anni Venti, iniziò la guerra di liberazione propriamente detta. Nel 1916, ormai da due anni, imperversava la guerra con la Germania, nella quale morivano nelle trincee di Francia migliaia di giovani, compresi anche molti irlandesi. I più coerenti tra gli insorti, visto che anche loro erano in guerra con gli inglesi, avevano deciso di prendere contatto con il governo tedesco per trarne ogni possibile aiuto. In realtà, quando avvennero i primi contatti, tra l’Aprile e il Luglio 1915, le autorità tedesche nei confronti degli insorti si comportarono inizialmente con freddezza se non addirittura con sospetto. Alla fine, dopo lunghe trattative, si arrivò tuttavia ad un accordo “in base al quale la Germania, in cambio del proprio sostegno logistico e militare alla rivolta, avrebbe ottenuto il libero accesso ad una serie di basi navali lungo la costa irlandese. Tutto quanto fu in grado di fornire fu invece un carico di 20.000 fucili catturati alla fanteria zarista. Il carico non raggiunse però la propria destinazione perché venne intercettato, nei giorni immediatamente precedenti alla rivolta, dalla Marina Britannica”. Qui si innesta il tragico apporto personale di Sir Roger Casement, il quale anni prima, nel 1903, quando era console di Sua Maestà a Boma, in quello che divenne poi il Congo Belga, si era conquistato una notevole fama documentando la crudeltà e la ferocia verso gli indigeni di cui avevano dato prova i coloni belgi appoggiati dall’autorità di Leopoldo II, soprattutto quando quell’immenso territorio faceva ancor parte della proprietà privata del sovrano e non si era mutato in una colonia vera e propria. Un suo minuzioso rapporto, The Casement Report, apparve nel 1904. Lo scandalo che ne seguì ebbe larga notorietà in diversi paesi europei, e il parlamento inglese prese vivamente posizione al riguardo. In Belgio i socialisti guidati da Emile Vandervelde costrinsero il re Leopoldo nel 1905 a dar vita a una commissione indipendente d’inchiesta che nella sostanza dette pienamente ragione a Casement. In conseguenza di ciò il 15 novembre 1908 il parlamento belga fece confluire i beni privati di re Leopoldo in Congo in una colonia amministrata dallo stato. Con la stessa intransigenza morale di cui aveva dato prova nelle colonie, Sir Roger si comportò quando venne inviato in America Latina, ove diventò console generale a Rio de Janeiro. In quel periodo egli riuscì a documentare la crudeltà con cui venivano trattati gli indios Putumayo, a cavallo fra il Perù e la Colombia, soggetti alla feroce autorità della compagnia britannica Peruvian Amazon Company, grande società specializzata nella produzione della gomma. Sir Roger riuscì a dimostrare che la Amazon sottoponeva gli indigeni ad un regime durissimo, in cui la fustigazione rappresentava un abituale meccanismo di oppressione. Per la seconda volta egli realizzò un lodevole esempio di operoso intervento in difesa di popolazioni oppresse. Al punto che nel 1911, pur riluttante, fu nominato Knight Bachelor dal re Giorgio V. Egli si ritirò dal servizio consolare nel 1913 e pressappoco in quel periodo si convertì alla causa irlandese, persuaso che il dominio britannico sull’isola fosse totalmente ingiustificato e nella sostanza crudele. Nel 1914 egli si era recato negli Stati Uniti per raccogliere fondi per i cosiddetti Volounteers cha affiancavano la IRB, Irish Republican Brotherhood, per organizzare la lotta contro gli inglesi. Cerco di semplificare la materia che è complessa: già nell’agosto di quello stesso 1914 Casement ed un altro esponente degli indipendentisti irlandesi, John Devoy, si incontrarono a New York col più alto diplomatico tedesco in loco, il conte Von Bernstorff, per proporgli quel piano di alleanza a cui ho accennato prima: se la Germania avesse venduto armi ai ribelli irlandesi e fornito consulenti militari, questi ultimi avrebbero iniziato una rivolta contro l’Inghilterra bloccando truppe e risorse fra quelle da inviare contro i tedeschi. In seguito all’incontro il presidente del “Clan na Gael”, John Kenny, non poté parlare con il Kaiser ma l’incarico di riceverlo fu curiosamente devoluto all’ambasciatore tedesco in Italia, Von Flotow, ed al suo sostituto, il principe Von Bülow. In ottobre lo stesso Casement andò in Germania passando dalla Norvegia. Cercò di reclutare nei campi di prigionieri inglesi una “Irish Brigade”, senza molto successo perché tutti gli irlandesi che combattevano nell’esercito inglese erano volontari. Nonostante il loro scetticismo, i tedeschi offersero ventimila fucili e dieci mitragliatrici con i proiettili, ma nessuna collaborazione da parte di ufficiali imperiali. Tuttavia le rami tedesche non raggiunsero mai l’Irlanda, malgrado che la nave tedesca che doveva trasportarle fingesse di essere norvegese e quindi neutrale. Alla fine lo stesso Casement si imbarcò su un sommergibile tedesco, l’U-19, venne condotto sulle coste irlandesi a Panna Strand nella contea del Kerry e successivamente individuato dagli inglesi e arrestato. Processato per tradimento, fu impiccato a Londra nella Pentonville Prison il 3 agosto 1916. Mentre aspettava l’esecuzione venne accolto nella Chiesa Cattolica e poté fare la comunione. Molti intellettuali inglesi intervennero in suo favore chiedendo un atto di clemenza. Fra di essi “l’inventore” di Sherlock Holmes, Sir Arthur Conan Doyle, il poeta W. B. Yeats, premio Nobel nel 1923, e George Bernard Shaw.

Potrei continuare a lungo ad occuparmi di Sir Roger Casement, ma non vorrei risultare troppo noioso. Ne faccio cenno qui perché si può dire che fa parte dei miei fantasmi sin dalla mia prima giovinezza. Credo di averne sentito “parlare” per la prima volta in uno dei molti libri sullo spionaggio scritti da un giornalista fascista minore, ma curioso, Italo Sulliotti, nato e cresciuto a Porto Maurizio, figlio di un magistrato sardo. L’ho conosciuto bene, per tanti motivi e perché è stato mio direttore per molti anni alla “Gazzetta del lunedì” (si tratta di una invenzione giornalistica genovese, e cioè di un settimanale con la forma e le caratteristiche grafiche di un quotidiano, che uscì autonomamente per anni e che esiste ancor oggi ma come settimo numero del “Corriere mercantile”). Sulliotti meriterebbe un elzeviro a parte, e non è escluso che, un giorno o l’altro, io lo scriva. Mi limiterò qui a dire che, dotato di quella facilità retorica di scrittura tipica dei liceali della sua epoca (era nato intorno al 1892/93), doveva trovare nel fascismo una tribuna ed uno sfogo naturali. Entrò nel giornalismo prima della Prima Guerra Mondiale, durante il conflitto fu propagandista per conto del Ministero degli Esteri e poi inviato speciale in Marina, durante il fascismo divenne, fra l’altro, ispettore dei Fasci italiani all’estero e, cosa a cui lui teneva moltissimo, per cinque anni direttore di un settimanale parigino, “L’Italie nouvelle”, scritto in francese ma di fatto rivolto ad una platea fascista o filo-fascista e pagato dal nostro Ministero degli Esteri. Il suo predecessore si chiamava Nicola Bonservizi, ed era stato ucciso a Parigi da un fuoriuscito italiano. Sulliotti, che non mi parve mai molto coraggioso, di Bonservizi parlava poco, ma della sua esperienza parigina parlava molto e con entusiasmo. Spesso iniziava il suo discorso dicendo: “… nei miei cinque anni di Parigi …” giusto per ribadire quella naturale inclinazione alla Francia che era allora così diffusa fra i liguri di Ponente e che conviveva con lui con una istintiva fascinazione per un paese che era tutto sommato una democrazia, ma che poi doveva deprecare per obbedienza fascista. Ripeto, potrei scrivere di lui a lungo, rievocando i suoi tic e le sue allusioni politiche. Ma credo che lo farò un’altra volta. Qui l’ho citato soprattutto per ricordare che è stato in uno dei suoi libri che, poco più che bambino, ebbi occasione di trovare un’esplicita rievocazione della tragica avventura di Sir Roger, che Sulliotti descriveva come se fosse stata conosciuta da tutti (e forse all’epoca lo era). I suoi libri conobbero un notevole successo. Erano generalmente rievocazioni del primo conflitto mondiale con particolare attenzione al mondo dello spionaggio, in un contesto che era tipico dell’epoca. A metà fra Salgari e Guido da Verona, all’insegna del mito trionfante della capitale francese ma anche di quello degli hotel di lusso e dei raffinati convogli della “Compagnie Internationale des Wagon-lits”. Fu nelle sue rievocazioni che io, piccolo com’ero, ebbi occasione di imbattermi in personaggi favolosi come Sidney Reilly, Bolo Pascià, Mata Hari, e appunto Sir Roger Casement. I quali convivevano in Sulliotti con l’ombra di Georges Clemenceau (“il Tigre”) e con i primi ricordi della Società delle Nazioni. Lavorando con Sulliotti, che per combinazione conoscevo sin dall’infanzia perché avevo abitato nel suo stesso palazzo a Genova, capii che cos’era quel giornalismo italiano furbesco e, per così dire, collaborazionista, che aveva mutato la sua iniziale vocazione unitaria e democratica con un’adesione al fascismo che, per essere totale e conclamata, non cessava di coltivare una dimensione al tempo stesso ironica e servile. Due aggettivi che potrebbero riassumere la vita e le opere di tanti giornalisti del periodo fascista. Anche di alcuni ben più grandi e intelligenti di Sulliotti che avevano senza alibi di sorta ceduto ad ogni suggestione del potere. Basterebbe fare il nome di professionisti e letterati di grandi qualità come Paolo Monelli, se non di quell’enigma giornalistico d’epoca che fu il pur intelligentissimo e dottissimo Giovanni Ansaldo.
In attesa di tornare sulla figura di Italo Sulliotti, come emblema di un’intera classe politico-professionale, mi limiterò a ricordare che paradossalmente fu proprio nei suoi libri che cominciai ad amare i mondo dello spionaggio ma anche quello della democrazia prefascista, senza sapere che la mia convivenza con lui mi avrebbe, in questo senso, marchiato in modo decisivo.

P.S. Mi scuso per l’eccessiva lunghezza del testo.


Claudio G. Fava


Battute: 12.492

13 ottobre 2010

Risolto l'enigma su Sordi

I lettori di questo blog hanno sicuramente un vantaggio. Io non sono in gamba, ma per fortuna lo sono i miei amici. Il post di richiesta di Enrico Paganelli (in data 6 Agosto ma pubblicato da poco) ha ricevuto una risposta fulminea dal mio amico Natalino Bruzzone il quale indica l' episodio del film ove si ritrova l'apparizione minacciosa di Alberto Sordi che impersona un automobilista. Anche la precisazione sul fatto che Sordi indossi i guanti è stata fornita, anche senza firma, da Natalino.
Mi auguro che il signor Paganelli sia contento e che continui ad avere fiducia, magari non in me ma nei lettori del blog. (C.G.F.)

12 ottobre 2010

Enigma su Alberto Sordi

Rispondo con ritardo ad un post pubblicato in questo blog il giorno 6 Agosto. L’autore è il signor Enrico Paganelli che mi chiede di individuare un film con Alberto Sordi del quale ricorda un frammento che rievoca così: spezzone in bianco e nero visto tempo fa in TV : spiazzo assolato,utilitaria bianca ferma col conducente a bordo. Si avvicina Albertone (avrà avuto 35 anni) : è in canottiera, mani sommariamente bendate (un pugile?) : batte il pugno sul palmo più volte, si avvicina al finestrino e mormora : "Io offendo : primo, perchè er fisico me lo consente;secondo, perchè madre natura m'ha dotato de'n intelletto de prim'ordine e uno come te m'o magno". Sa forse dirmi che film era?
Francamente mi dispiace ammetterlo ma non lo so. Non riesco assolutamente a situare il brano e il contesto. Pubblico il tutto sperando che qualche “sordologo” venga in mio aiuto. Cercherò anche di far circolare una richiesta di informazioni che mi eviti una totale brutta figura.
Cordiali saluti
Claudio G.Fava

7 ottobre 2010

Un presente sempre più veloce e sempre più triste

Per concludere il discorso di ieri sugli spaventosi cambiamenti di vita e di abitudini che ci impone oggi la velocità con cui trascorre il tempo, vorrei tornare rapidamente sull’argomento del telefono e affrontare quello riguardante i computer.
Il telefono fisso non era solo un sistema di corrispondenza fonetica ma un simbolo fondante delle famiglie. Quando si arrivava a mettere il telefono voleva dire che si era approdati ad un minimo di solidità morale e civile. Il telefono rappresentava una conquista ed un simbolo. Inizialmente era un apparecchio a muro che godeva di una naturale autorevolezza proprio perché sporgeva dalla parete come una macchina ed un feticcio. Adesso col telefonino la gente parla anche con paesi stranieri ma io sono cresciuto in un mondo di difficili ed eroiche comunicazioni tra città e città. C’è un film del 1954 di Gianni Franciolini (opera graziosa per l’epoca e ricca di ammiccamenti romani) intitolato significativamente “Le signorine dello 04” . Lo 04 era appunto il numero di centralino della SIP a cui bisognava rivolgersi per richiedere le cosiddette “intercomunali”, vale a dire le telefonate che superavano i ristretti confini territoriali. A seconda del prezzo che si pagava si andava da un minimo “normale”, che spesso implicava lunghe attese quando la linea era affollata di richieste, sino al massimo che era l’”urgente”, ovviamente molto più cara ma dotata di un diritto di prelazione. Era tipico del momento l’espressione rabbiosa del commendatore di turno che chiamava lo 04 e gridava “Signorina, allora me la faccia urgente, non posso aspettare all’infinito!”, tutto il funzionamento del meccanismo riposava, come implica il titolo stesso del film, sulle impiegate del centralino e sulla loro maggiore o minore efficienza lavorativa. Esse avevano contatto con le colleghe delle altre città, ragazze che non avevano mai visto (proletari e piccolo-borghesi all’epoca viaggiavano molto poco) ma con le quali, durante gli anni, finivano con lo stabilire rapporti di autentica amicizia. Se ricordo bene tutto questo c’è nel film, dove fra le telefoniste figurano Antonella Lualdi, Giovanna Ralli e Marisa Merlini, mentre Franca Valeri, come sempre geniale, impersona la severissima capo-turno, in uno di quei ritratti di carattere che furono una delle più toccanti manifestazioni del suo grande, insuperabile talento di attrice.
Naturalmente gli apparecchi di casa avevano quel disco numerato che per noi era il simbolo stesso del telefono, ove trovavamo i numeri ruotandoli devotamente per stabilire una connessione, e che i giovani di oggi, abituati se mai ai tasti dei telefoni fissi ed ancor più a quelli minuscoli dei telefonini, ignorano completamente. L’idea stessa della teleselezione costituì una sorta di rivoluzione silenziosa. Mi ricordo ancora oggi Roberto Rossellini che me ne parlava col tono di chi racconta una favola affascinante. Mi diceva: “Sai, prima del numero ne fai un altro che si chiama prefisso e che ti mette in linea automaticamente. Pensa che puoi parlare con Parigi e in questo modo ottieni automaticamente il numero dell’appartamento che cerchi.” Mi ricordo ancora il sapore di mirabile stupefazione che lievitava nella sua voce, affine a quello che animò il suo cinema degli ultimi anni, tutto teso verso una sorta di auto-compiacimento didattico.
Molto più recente del telefono è ormai l’uso del computer. Non c’è dubbio sul fatto che l’umanità di oggi si divide tra chi usa e chi non usa il computer. Fra i primi praticamente tutti i giovani e i giovanissimi, fra i secondi molti vecchi della mia età, più di quanto si creda, ma come me in qualche modo spaventati da uno strumento che travalica tutte le loro precedenti esperienze di vita. La sostituzione stessa delle lettere normali con gli e-mail costituisce una rivoluzione silenziosa contro un passato antichissimo e radicato nei nostri animi. Cioè quello della posta cartacea, che rappresentò per secoli il simbolo più evidente dell’utilità dell’alfabeto e della scrittura. E’ tutto un mondo che ci stiamo rapidamente lasciando alle spalle, via via che i computer si perfezionano. Sembra quasi incredibile che la fortuna di una grande famiglia della nobiltà europea, i Thurn und Taxis, derivante dagli italiani Torre e Tasso, sia stata costruita grazie al’idea rivoluzionaria di dar vita ad una rete europea di recapito di lettere, quando ancora il continente era frazionato in centinaia di stati grandi e piccoli. L’impatto fu così forte che dal secondo nome della famiglia è nato quel comodo veicolo di trasporto cittadino che, a seconda della lingua, si chiama Taxi o Tassì.
Il computer non è solo una forma fulminea di missiva, ma è anche una terribile fonte di informazioni. Sempre di più ci abituiamo a rinunciare alle Enciclopedie ed ai manuali di consultazione. “Mettilo su Google e vediamo cosa dice”, è una frase ormai diventata una riflessione di uso comune. Secoli di lavoro di amanuensi e di bibliotecari, durati fino a pochi anni fa, sono stati ripudiati da una mano miracolosa ma maligna. Nel mio piccolo mi ricordo le fatiche che facevo ancora in un recente passato (libri, riviste, pubblicazioni varie da individuare e sfogliare, eccetera) per stabilire con sicurezza una filmografia. Adesso, soprattutto se si tratta di un film americano, vado su IMDB (International Movie Data Base) e il passato mi salta agli occhi. In questo caso abbiamo almeno un referente formale. Nessuno si chiede cosa nasconde IMDB. Ma mi è bastato mettere in Internet (appunto!) il termine “IMDB history” per stabilire che uno dei suoi fondatori è stato Col Needham, un ingegnere di Bristol che ne è diventato poi direttore generale sino a quando la società nel 1999 è stata ceduta ad Amazon, una sorta di multinazionale che vende libri, DVD, CD, permette di scaricare musica in formato MP3, e commercia inoltre, on-line, in computer, software, videogiochi, apparecchiature elettroniche, mobili, cibo e giocattoli. (Ho usato il minor numero di parole inglesi possibile ma spesso si tratta di una scelta forzosa ed inevitabile).
Mi pare con queste considerazioni di aver per ora esaurito il tema telefoni ed il tema computer. Ma non è detto. Può darsi che a qualche lettore vengano in mente altre considerazioni e le aspetto a piè fermo.

Claudio G. Fava

6 ottobre 2010

Il presente è veloce e triste

Parlavo l’altro giorno con Piero Pruzzo, che ha due anni più di me e che pertanto, come e più di me, è testimone di un passato scomparso. “In fondo” mi disse Piero “noi abbiamo vissuto in tre secoli diversi.” Nell’800 quando eravamo prima della guerra alla scuola elementare. Nel ‘900 durante la guerra e nei decenni successivi alla fine del conflitto. Negli anni 2000 siamo stati introdotti a forza in un terzo secolo, di cui non comprendiamo le usanze, di cui ignoriamo l’idioma, i cui abitanti e la cui televisione ci fanno paura.”
In fondo è proprio così. Ho riflettuto spesso sulle parole di Piero e sono stato invogliato a riflettere sulla furiosa velocità della vita che siamo costretti a vivere. Ogni nuovo decennio è un mondo nuovo. Per fare un esempio banale si pensi all’adozione furiosa dei telefoni cellulari. In una decina di anni o poco più abbiamo abbandonato i telefoni pubblici (vi ricordate quando li cercavate per strada frugandovi le tasche per trovare un gettone?)e abbiamo scoperto il cosiddetto “telefonino”. Tutti lo hanno e il fatto che lo si abbia sembra doveroso e obbligatorio. Anzi, si assiste ad uno spettacolo rivelatore. Sempre di più, se dipende da loro, i giovani rinunciano al telefono “fisso”ed usano solo il cellulare. E’ una cosa che colpisce tutti quelli della mia generazione e ribadisce quel senso di separazione fra vecchi e giovani che presumibilmente non è mai stato così intenso come nel periodo che stiamo vivendo. Non è una riflessione molto intelligente la mia ma è tuttavia strettamente legata a quel senso di cambiamento furibondo di vita e di relazioni che è tipico di questi ultimi sessant’anni della vita degli umani. In realtà fino all’inizio della seconda guerra mondiale la gente viveva in un modo assai simile a quello delle generazioni che l’ avevano preceduta. C’erano stati, è vero, i massacri della prima guerra: ad esempio il mio amico Paolo Cervone ha pubblicato da poco, presso Mursia, un libro sulle grandi battaglie in Francia, dalla Marna a Verdun e Le Chemin des Dames in cui sono riproposte, sul solo fronte francese, le ossessive carneficine amministrate dai diversi generali sui vari fronti europei. Esperienze terribili da cui milioni di persone, in prevalenza contadini ed operai con una significativa presenza di giovani liceali frettolosamente mutati in sottotenenti di complemento, uscirono ulcerati ma in qualche modo ancora segnati dal loro modo di vivere anteriore al conflitto. In qualche modo era ancora esistente quel legame col passato che rappresentò il tessuto della vita per secoli e secoli fino a tutto l’Ottocento. Erano epoche in cui molta gente, soprattutto i contadini che rappresentavano in modo determinante il rapporto col passato, vivevano pressappoco come erano vissuti gli uomini e le donne della generazione precedente alla loro. In una campagna rigorosamente legata la flusso delle stagioni, coltivata a mano o con l’uso antico degli animali come i buoi e i muli, tutti vivevano “come nel passato”. Nonostante l’avaro uso di macchine nuove e rivoluzionarie, abitudini e coltivazioni erano pressappoco simili a quelle che avevano contraddistinto l’esistenza dei padri e dei nonni. E così via via, risalendo nel tempo per anni e per secoli. L’esistenza di un contadino della prima metà dell’Ottocento non era poi fondamentalmente diversa da quella di un contadino del Settecento. Il quale a sua volta riproponeva gli schemi fondamentali della vita ereditati, insieme al dialetto ed alla religione dai padri dei nonni. Lentamente risalendo sino al Medioevo. Si confronti questo lento, austero, meditato fluire del tempo e delle usanze, filtrate ed assaporate attraverso i secoli, con la vita degli anni successivi al lancio della bomba atomica sul Giappone. Ormai ogni decennio finisce col costituire un mondo a sé, con i suoi miti e la sua lingua. Il che spiega il vago senso di vertigine che, ad esempio, ci coglie quando vediamo un vecchio documento della televisione. In realtà il mondo cambia troppo in fretta per le possibilità di reazione dell’uomo medio. Tutti – e particolarmente noi vecchi- soffriamo di una sorta di faticosa esposizione allo scorrere troppo rapido del tempo. Tutto sembra immobile ma in realtà tutto cambia ad una velocità incongrua. Non possiamo abituarci, e paradossalmente questo disagio colpisce anche i giovani che stentano sempre di più ad inserirsi nella vita lavorativa di una società ove tutto cambia in fretta non solo per noi ma anche per loro.
Se non fosse sintomo di una sterile reazione senile direi che la mescolanza di antiche usanze automaticamente riprodotte e di nuovi dettami spesso misteriosi costituisce una terribile alternativa. Spaventa i vecchi come me e impedisce ai più giovani di fare quello che gli antenati hanno fatto per secoli se non per millenni. E cioè inserirsi con calma nella vita di tutti i giorni, in modo da modellare la propria esistenza in funzione di un’attività lavorativa perseguita senza drammi e senza dolori.
Probabilmente mai come oggi la difficoltà del vivere, che ogni generazione ha creduto di dover affrontare come se fosse una novità assoluta, si manifesta con tale intensità. Non è una prospettiva divertente.
Claudio G. Fava

1 ottobre 2010

Un debito con Alan Furst

Tempo fa avevo fatto cenno, qui nel blog, di uno scrittore di “spy-stories”, Alan Furst, da me scoperto grazie ad un articolo del mio amico Natalino Bruzzone nel Secolo XIX. Mi ero ripromesso di tornare sull’argomento e mantengo la promessa. Si tratta di un personaggio molto interessante, un americano nato a New York nel 1941, cresciuto nell’ Upper West Side di Manhattan e poi per lunghi anni residente in Francia, dapprima per qualche tempo a Sommières, a 28 chilometri da Montpellier, nella cui Università ha insegnato, e poi per lunghi anni a Parigi, la sua città di elezione che lui definisce “il cuore della civiltà”. Attualmente è tornato a vivere negli Stati Uniti ed esattamente a Sag Harbor, (Long Island), cittadina a circa cento miglia da New York. Non è mai stato giornalista in senso strettamente professionale ma ha un ampio passato di collaborazione con pubblicazioni americane diversissime fra loro (mi limiterò a citare “Esquire”, “International Herald Tribune”, “The New York Times”, ecc.). Divenne Bachelor of Arts (B.A.) all’Oberlin College nel 1962 e nel 1967 Master of Arts (M.A.) alla Penn State, l’Università Statale della Pennsylvania. Cominciò a pubblicare libri nel 1976, ma il suo primo successo arrivò nel 1988 con “Night Soldiers” che è considerato il primo di una serie di romanzi (tuttora undici), uniti da una comune vocazione, e cioè dall’amore e dalla curiosità di Furst per l’Europa, in particolare dal ‘36 al ’40 ed ancor più per le nazioni balcaniche e, più largamente, per tutte quelle che furono poi trascinate nella seconda guerra mondiale. Mi pare utile riportare qui (senza ritoccare il testo inglese) l’elenco dei suoi romanzi, appunto della serie “Night soldiers”, così come appare in internet, in Wikipedia. Lo trascrivo letteralmente, con una precisazione che mi pare fondamentale. Purtroppo, solo 4 dei romanzi della serie sono stati tradotti in italiano, pubblicati da editori diversi dato che lo scrittore non è (ancora) divenuto un caso letterario di successo. Pertanto ho aggiunto fra parentesi, in questi quattro casi, i titoli italiani.

Night Soldiers novels:
1. Night Soldiers, 1988
2. Dark Star, 1991 (L’ombra delle stelle)
3. The Polish Officer, 1995
4. The World at Night, 1996
5. Red Gold, 1999)
6. Kingdom of Shadows, 2000 (Il regno delle ombre)
7. Blood of Victory, 2003
8. Dark Voyage,2004
9. The Foreign Correspondent, 2006 (Il corrispondente all’estero)
10. The Spies of Warsaw, 2008 (Le spie di Varsavia)
11. Spies of the Balkans, 2010
Una ulteriore precisazione di Wikipedia consente di individuare nel ciclo i personaggi che compaiono in più di un romanzo, anche se in linea di massima i protagonisti sono tendenzialmente diversi.
Ecco l’elenco:
• Ilya Goldman, NKVD (Night Soldiers, Dark Star, Kingdom of Shadows, The Foreign Correspondent)
• Colonel Vassily Antipin (Night Soldiers, Red Gold)
• Colonel Anton Vyborg, Polish military intelligence (The Polish Officer, Dark Star, The Spies of Warsaw)
• Count Janos Polanyi (Kingdom of Shadows, Blood of Victory, Dark Star, The Foreign Correspondent)
• S. Kolb, British agent (Dark Voyage, The Foreign Correspondent, Spies of the Balkans)
• Dr. Lapp, German military intelligence (Kingdom of Shadows, The Spies of Warsaw)
• Boris Balki, Russian emigre bartender in Paris (Kingdom of Shadows, Blood of Victory)
• Mark Shublin, Polish painter (Kingdom of Shadows, The Spies of Warsaw)
• British intelligence operatives in Europe (mainly Paris), such as:
o Lady Angela Hope (appears in Night Soldiers and Dark Star; mentioned in Red Gold, The Foreign Correspondent, Kingdom of Shadows, Blood of Victory)
o Mr. Brown (Night Soldiers, Blood of Victory, Dark Voyage, The Foreign Correspondent).

Una particolare manifestazione dell’amore di Furst per Parigi è ribadita dal fatto che in ogni romanzo c’è almeno un riferimento ad un locale parigino, la Brasserie Heiniger .
In attesa di tornare ancora una volta sull’argomento, vorrei limitarmi qui a dire che, in genere, nei suddetti romanzi di Furst la rievocazione d’epoca, (nel “Il corrispondente all’estero” tutta la parte finale è centrata sulla Genova del tempo, comprese le citazioni del Secolo XIX) è minuziosa. Ad esempio la descrizione di città e cittadine che via via cambiano nome a seconda del cambiamento di nazionalità, è appassionata, minuta e spesso toccante.
Dei quattro suoi libri pubblicati in italiano quello che mi è piaciuto di più è senz’altro “Le spie di Varsavia”, con una serie di allusioni e descrizioni che rievocano un affascinante mondo perduto. Due dei libri, e cioè “Il regno delle ombre” e “L’ombre delle stelle”, esauriti nelle librerie italiane, li ho trovati grazie ad un negozio di libri usati che si chiama:
“La botteghina del libro”, Via G. Regnoli, 48 -47100Forlì
tel.+390543370227
(Si sono dimostrati con me puntuali ed efficienti,ed i prezzi mi sono apparsi ragionevoli: uno dei due libri costava solo 2,50 €!).
Furst mi sembra uno scrittore di talento, veramente degno di riallacciarsi alla miglior tradizione anglosassone della “spy-story” di grande livello.
Fra non molto tornerò una terza volta sull’argomento.
Claudio G. Fava

29 settembre 2010

Le mammine mannare

Fra le risposte che ho ricevuto al mio blog su Emanuele Filiberto ve ne è stata anche una del dottor Marcheselli. E’ un signore dalla personalità spiccata che per tredici anni ha fatto il giudice nelle carceri, poi, dopo aver scritto un libro sull’argomento, ha abbandonato la Magistratura e adesso è divenuto professore universitario a Torino. Abita a Genova in un quartiere medio-alto borghese (si chiama Castelletto), e sulle giovani madri del quartiere ha scritto un elzeviro che mi ha mandato. Mi pare divertente e con la sua autorizzazione lo pubblico qui nel blog:

Caro Maestro,

leggerla è sempre una gioia e un conforto (ma anche una ragione di un relativa depressione, per tutto il resto intorno).
Su Emanuele Filiberto posso solo dire che, imbattutomi nel video e notandolo boccheggiare come un'aragosta lessa, in frac, di fianco alla Presentatrice mi sono, per qualche momento, pentito di aver provato pena, qualche volta, al ristorante, vedendo l'acquario dei crostacei da cucinare.

Alberto Marcheselli

P. S.
Non c'entra niente, ma mi viene da accluderLe una cosa che avevo scritto, in preda a una analoga irritazione, qualche tempo fa, quando ero solito accompagnare i bambini a scuola e imbattermi nelle terribili mammine di Castelletto.
Che poi è il mio ambiente amatissimo, per carità.

Le Mammine Mannare
Un mostro si aggira per le città italiane. Non con il favore delle tenebre, ma in pieno giorno, sotto i nostri occhi ancora incapaci di distinguere il pericolo.
Effetto collaterale della dovuta emancipazione femminile e fenomeno meno evidente del vituperato (e temutissimo) fenotipo della vigilessa, per le nostre strade circolano decine, centinaia, migliaia di mammine mannare. Come in quel film di Buster Keaton, dove la città era scorsa da un’orda di donne in abito da sposa, alle ore giuste e nei posti giusti i nostri quartieri sono battuti da legioni di puerpere feroci e mamme grintose.
Scarpe basse Ferragamo, maglioncino cachemire blu (o giallino crema) con collo a v, filo e/o orecchini di perle, nei quartieri in. Tuta, scarpe da ginnastica, tinta casalinga e tatuaggio d’ordinanza, nei quartieri out.
Ma la sostanza è la medesima. Circolano per le strade brandendo le carrozzine come sciabole di invisibili duelli ed esibendo cinturoni messicani di port-enfant, tra gli sguardi bassi dei pochi maschi all’orizzonte e quelli, severi, delle suocere da passeggio.
Ogni quartiere, poi, ha il suo Giardino delle Primipare. Chi abbia sufficiente sprezzo del pericolo può avvicinarsi e carpire qualche brandello di conversazione. Fitti conciliaboli per determinare quale sia il pediatra più autorevole per stabilire se “Luca possa già mangiare l’uovo” o “quale sia l’ora più giusta per Miriam per fare il bagnetto”. Non ci si stupirebbe di veder evocato un ingegnere per insegnare ad Alessio ad allacciarsi le scarpe o un astronomo per misurare l’altezza di Vanessa.
Poco più in là le panchine delle Mamme in Gamba, dove ci si scambiano esperienze sui corsi di Aikido, vela, flamenco, nuoto sincronizzato, arpa e robotica antropomorfa cui i pargoli più cresciuti vengono coartati, per realizzare tutti i sogni dismessi dai genitori.
Alle loro spalle, svolazzano, operose, le più disinvolte mamme in carriera, ansiose di propalare il loro perniciosissimo cattivo esempio. Al posto del collant velatissimo bianco delle prime si azzarda qualche mossa avventata. Un accenno di pitonatura, un tacco assassino sono il punto di appoggio - malfermo, ci mancherebbe - di uno sguardo ugualmente e disperatamente vacuo.
Dopo pochi minuti vieni individuato. I primi a muoversi, come sempre, sono i bambini. Stai giochicchiando con una nespola per terra. Si avvicina il primo innocente: “Cosa è ?” “Una nespola: quando è arancione è molto buona”. Ne accorre un secondo che pesta gioiosamente sul frutto, e chiede cosa succede se si sbucciano i noccioli. Una terza bambina, almeno 7 chili sopra il suo limite di peso, che sarebbe a occhio non più di 25, domanda se “mettere i piedi nell'erba è pericoloso”. Rassicuri sorridendo la bambina da appartamento: è pericoloso solo in caso di maremoto. Sembra sollevata: oggi non c'è maremoto, vero ?
Ma la Psicopolizia è in agguato, una mammina e una vedova ancora in gamba, inesorabili come un pattuglione della morte, ci piombano addosso: una grida, con la calma con cui annuncerebbe un incendio: "attento che ti sporchi". L'altra è disperata: "Le nespole sono velenose !"
Ti allontani, giusto in tempo perché un assembramento attiri di nuovo la tua attenzione. Dai cancelli sotterranei di un edificio giallo e alto, in cui l'occhio del cronista riconosce senza esitazione un luogo istituzionale (si direbbe la sede del Partito) sciamano a frotte bambini, in gruppi omogenei. Hanno qualche cosa di predefinito, una nota di sottofondo unica, come il bordone della musica tradizionale: i maschietti sono vestiti come piccoli ammiragli, come generali in pensione, come commercialisti al sabato, "quando non ci sono clienti da ricevere". Le bambine sembrano bambole meccaniche, ancora lucide, appena uscite dal cellophane. Una frotta di mammine, tutta intorno, li squadra con l'occhio consumato e professionale di un sarto e di uno stilista, considerando con apprensione l'entità di una gualcitura, la simmetria di una pince e, con stizza, la piega della vicina.
Prima di essere catturato, noti che molte di loro, recuperato il Piccolo Prodigio, lo caricano su un SUV Fuoristrada dalle Dimensioni Inverosimili e dalla Potenza Inarrivabile, nel quale annegano, annaspano, galleggiano, allungandosi disperatamente nel tentativo di raggiungere pedali e leve sempre troppo iperuranici e lontani.
Negligentemente, mi lascio sfuggire la terribile domanda: ma perché in fuoristrada, alla fine dell’estate o in primavera, in Italia, quando si potrebbe viaggiare su una biga di petali di rosa trainata da un cocchio di aironi ?
"Perché sono macchine molto robuste, soprattutto in caso di incidente"
Hai capito la mammina previdente? Vuole essere sicura di una cosa, piccolo fiore scrupoloso: che, in caso di scontro con un'altra deliziosa mammina munita di utilitaria, siano - semmai – quella e il suo tenero piccino a morire tra le lamiere.
I bambini - galeotti ai ferri sui seggiolini posteriori di centinaia di auto - roteano gli occhi, cercando un'occasione, un mezzo, un complice per una non facile evasione.

Alberto Marcheselli