Blog - Crediti


L'audio e i video © del Blog sono realizzati, curati e perfezionati da Lorenzo Doretti, che ha anche progettato l'intera collocazione.
L'aggiornamento è stato curato puntualmente in passato da diverse collaboratrici ed attualmente, con la stessa puntualità e competenza, se ne occupano Laura M. Sparacello ed Elisa Sori.

29 dicembre 2009

Per piacere, intercettate! - Mario Sconcerti - audio

Ormai Mario Sconcerti non è più soltanto una firma prevalente delle pagine sportive de "Il Corriere della Sera", ma insieme a Ilaria D'Amico e Massimo Mauro, è anche l'animatore dell'appuntamento calcistico domenicale che i tre conducono su Sky, e che ha ormai un vasto pubblico. Mi è parso interessante recuperare telefonicamente il personaggio, il quale mi ha concesso una lunga ed appassionata intervista, perfino un po' più lunga di quella rilasciatami da Claudio Bisio. E ricca di notazioni d'ogni genere sul suo articolato cammino giornalistico nonché di molte sue affettuose considerazioni su Genova, città nella quale ha diretto per circa tre anni il "Secolo XIX". Non gli ho chiesto come si evolverà nelle prossime puntate la rubrica su Sky, visto che la D'Amico è in stato interessante e ne ha parlato apertamente l'ultima volta che è apparsa. Aspettiamo notizie.

28 dicembre 2009

A volte ritorno

In questi ultimi tempi non sono stato bene di salute (per ora non darò altri particolari) e, inoltre, con l'aiuto determinante di Chiara ho consegnato all'editore Scapolla ("Le Mani") le bozze definitive di un libro sul cinema di guerra che dovrà apparire entro Maggio prossimo. Infatti, da quest'anno, "Le Mani" hanno ottenuto la fondamentale distribuzione delle "Messaggerie". E queste ultime su ogni libro nuovo esigono tre mesi di tempo, per potere controllare con le librerie quante copie di esso possano essere richieste, in funzione dei presumibili desideri dei lettori.
Adesso, più o meno, ritorno a tempo pieno ad occuparmi del Blog. In attesa di apporti ben più definitivi, ho intanto corretto un mio precedente articolo intitolato "Uno Zelig genovese". Per errore in testa al pezzo abbiamo inserito un'immagine, fornita via internet, che avrebbe dovuto rappresentare Giovanni Ansaldo, appunto lo "Zelig genovese", e invece ritraeva Mario Missiroli. Devo ringraziare un noto giornalista genovese che abita a Milano, Marcello Staglieno, che si è accorto dell'imprecisione e mi ha mandato via e-mail un ritaglio de "Il Giornale" in data 20 Luglio 2006 riguardante Ansaldo, corredato da una fotografia di quest'ultimo. Ho pensato di aggiungerlo qua per rimediare alla mia disattenzione e per ringraziare Staglieno.


Vi anticipo inoltre che, grazie all'aiuto dell'amico Doretti ho effettuato una bella intervista telefonica ad un personaggio noto a quelli che seguono il calcio su Sky. Dovremmo riuscire a trasferirla sul Blog entro il 1 Gennaio 2010.
A presto
Claudio G. FAVA

17 novembre 2009

Per piacere, intercettate! - Claudio Bisio

Claudio Bisio: Da Claudio a Claudio, una confessione totale.

16 luglio 2009

Per piacere, intercettate! - Steve Della Casa (2) - audio

Steve Della Casa è una fonte quasi inesauribile di informazioni. Dopo la telefonata a proposito del "RomaFictionFest", eccone un'altra su un argomento che interessa gli appassionati di cinema, e cioè il cosiddetto "Poliziottesco all'italiana".
Restate di buon umore, perché altre telefonate verranno. La prossima riguarderà obiettivi e funzionamento della "Piemonte Film Commission", organismo di cui Steve è Presidente.

6 luglio 2009

KARL MALDEN, BASTA NON FARCI NASO





















(Nella foto qui sopra: Karl Malden ai tempi di "Le strade di San Francisco)


In questi giorni molto si è doverosamente scritto nei giornali italiani per ricordare la figura di Karl Malden, morto a Los Angeles all’età di 97 anni (era nato a Chicago il 22 Marzo 1912). E tutti quelli che gli hanno dedicato un coccodrillo (a cominciare dal mio vecchio amico Maurizio Porro su “Il Corriere della Sera”, ma potrei citarne molti altri) hanno insistito su alcuni elementi trainanti della sua carriera di attore. E cioè, per l’esattezza, su quelli strettamente cinematografici. E quindi l’esperienza all’ “Actors’ Studio” e apparizioni spesso decisive in film come “Un tram chiamato desiderio” (“A Streetcar Named Desire”, 1951) di Elia Kazan, per il quale ricevette un Oscar come attore non protagonista, “Fronte del porto” (“On the Waterfront”, 1954) sempre di Kazan, dove era il coraggioso prete cattolico padre Berry, e un lungo elenco di film importanti sino agli anni ’60 e ’70 in cui spiluzzicando quasi a caso troviamo “Il 13 non risponde” (“Rue Madeleine”, 1946) e “Il bacio della morte” (“Kiss of Death”, 1947), entrambi di Henry Hathaway, e poi ancora la parte di un ispettore in “Io confesso” (“I confess”, 1953) di Alfred Hitchcock, “Baby Doll, la moglie bambina” (“Baby Doll”, 1956) ancora di Kazan, “L’albero degli impiccati” (“The Hanging Trees”, 1958) di Delmer Daves, “I due volti della vendetta” (“One Hayed Jacks”, 1961) di e con Marlon Brando, fu l’antagonista di Steve McQueen in “Cincinnati Kid” (“The Cincinnati Kid”, 1965) di Norman Jewison e “Nevada Smith” (idem, 1966), ancora del grande Hathaway, via via sino a “Uomini selvaggi” (“Wild Horses”, 1971) di Blake Edwards, ribadendo ancora ai giorni nostri una cauta ma concreta carriera divistica, che purtroppo trovò solo una traduzione nella regia, con “Fronte del silenzio” (Time Limit”, 1957), ove diresse Richard Widmark.



(Nella foto qui sopra: Karl Malden, insieme a Eva Marie Saint, in una scena di "Fronte del porto")

Salvo errore, la sua ultima apparizione risale alla presenza di padre Thomas Cavanaugh in un episodio dell’eccellente seriale televisivo “The West Wing” e non è un caso che, a partire dagli anni ’80 quasi tutte le sue ultime interpretazioni siano di origine televisiva. Come a ribadire quello che è stato il successo determinante della sua carriera di attore che i miei amici cinefili hanno in qualche modo fatalmente trascurato. E cioè le 120 apparizioni come protagonista in cinque anni di televisione dal 1972 al 1977 nei panni del tenente Mike Stone, ne “Le strade di San Francisco”, successo televisivo che in realtà limitò ma condizionò la sua carriera. Cinque anni di televisione a getto continuo – ne so qualcosa perché poi a RAIDUE trasmisi molti degli episodi in replica – costruirono un fondamento divistico decisivo nella carriera di Malden, che rimase impresso nella memoria di milioni di spettatori con una continuità ed una tenacia che solo chi non ha esperienza attiva di televisione può considerare equivalenti a quelli di un film di successo. La vocazione divistica propria del piccolo schermo, e in particolare dei seriali di successo, non solo impose in modo totale il viso simpatico e il naso spappolato di Karl Malden, ma di fatto servì ad issare alle soglie della popolarità il riluttante Michael Douglas. Non è un caso che Karl fosse un vecchio amico di Kirk Douglas, il cui vero nome ribadiva in modo clamoroso l’origine esotica di tanto vecchio divismo americano. Il vero nome di Kirk era Issur Danielovitch Demsky, di una famiglia israelita di origine russa, così come il vero nome di Malden, era Mladen George Sekulovich, nato a Chicago da madre ceca e da padre serbo. Ancora due intrecci slavi che davano vita a tipici prodotti degli Stati Uniti. Ammetto che dopo tanti coccodrilli separarmi definitivamente da Karl Malden mi costa un po’ di dolore. Cercherò di attenuarlo ricordando anche una sua presenza in un film italiano di Dario Argento, “Il gatto a nove code” (1971), nel quale, salvo mio errore, era il protagonista a fianco di James Franciscus, Catherine Spaak, Rada Rassimov e Tino Carraro. Così lo sentiamo più nostro.

Claudio G. FAVA

25 giugno 2009

Per piacere, intercettate! - Steve Della Casa - audio

La seconda puntata della rubrica telefonica riguarda una delle tante iniziative di Steve Della Casa (in futuro lo farò parlare anche dei suoi compiti come presidente della "Piemonte Film Commission"), e cioè la direzione artistica del festival romano dedicato alla "Fiction televisiva", ovvero il "RomaFictionFest" che, giunto alla 3 a. edizione, comincia a godere di una certa notorietà nel mondo del piccolo schermo.

La disponibile genialità di Alain Resnais

(Alain Resnais, ospite dell'ultimo Festival di Cannes 2009)

Nel supplemento della Domenica de “Il Sole 24 Ore” del 24 Maggio 2009 (a mia vergogna devo dire che è una pubblicazione che ho scoperto da poco, ma che mi sembra forse il più bel settimanale italiano) c’è un profilo di Alain Resnais, a cura di Cristina Battocletti. L’ho letto con interesse per via di un antico amore, occasionalmente deluso, verso il regista francese, e ancora una volta ho scoperto un suo segreto. Che non è per niente segreto, anzi, che è palese, ma è tanto palese che si rischia di dimenticarlo. In effetti Resnais dopo un primo e lungo periodo, dal 1936 al 1958, nel quale dirige soltanto documentari o pseudo-documentari (da “L’avventure de Guy”, a 14 anni, sino a “Le chant du Styrène”, per un totale di 25 titoli) passerà poi alla “fiction”. Non ho deliberatamente contato fra i documentari “Nuit et brouillard” (“Notte e nebbia”, 1955), che insieme a “Guernica” (1950), “Les statues meurent aussi” (1953) e “Toute le mémoire du monde” (1956) – che invece ho incluso – rappresentano, in un mondo di film spesso commissionati da altri, i prodotti più personali e più vicini agli imminenti film di fantasia. Com’è noto, la carriera “inventiva” di Resnais continua con “Hiroshima mon amour” (Id., 1959), “L’année derniere à Marienbad” (“L’anno scorso a Marienbad”, 1961), “Muriel” (“Muriel, il tempo di un ritorno”, 1963), “La guerre est finie” (“La guerra è finita”, 1966), “Loin du Vietnam” (“Lontano dal Vietnam”, 1967), documentario polemico a più mani, “Je t’aime, je t’aime” (“Je t’aime, je t’aime” – anatomia di un suicidio”, 1968), “Stavisky…” (“Stavisky, il grande truffatore”, 1974), “Providence” (Id., 1977), “Mon oncle d’Amérique” (“Mio zio d’America”, 1980), “La vie est un roman” (“La vita è un romanzo”, 1983), “L’amour à mort” (Id., 1984), “Mélo” (“Melò”, 1986), “I Want to Go Home” (“Voglio tornare a casa!”, 1989), “Smoking; No Smoking” (Id., 1993), “On connaît la chanson” (“Parole, parole, parole…”, 1997), “Pas sur la bouche” (“Mai sulla bocca”, 2003), “Coeurs” (“Cuori”, 2006), fino a “Les herbes folles” (2009). In questa puntigliosa elencazione ho eliminato qualche titolo, che in linea di massima non è un lungometraggio e non è di “fiction” e ho lasciato un totale di 18 opere. Ma già così, da questo elenco si vede l’ampiezza e la continuità della sua ispirazione e, al tempo stesso, l’estrema disponibilità di Alain Resnais a “tradurre” in immagini inarrivabili idee e parole altrui.
Ci ho messo anni a capire perché un regista, che mi aveva sempre sedotto fin dagli inizi, si atteggiasse poi, nei successivi lungometraggi, in modi completamente diversi e non comunicanti. Non dimentichiamo che proprio in quegli anni ci veniva dalla Francia, e particolarmente dai “Cahiers du cinéma”, l’idea fondante della “politiques des auteurs”, che era alla base di un rapporto fisiologico con l’autore. Che, se autore era veramente, custodiva dentro di sé le stigmate stilistiche e concettuali di una geniale ripetizione di modi e di racconti. Invece, Resnais ci poneva apparentemente di fronte, ogni volta, ad una totale differenza di accenti e di impulsi narrativi, lasciandoci spesso sconcertati e stupiti. Solo con l’andar del tempo io mi accorsi che egli era animato da una umiltà totale e da una fedeltà senza incrinature nel trasfondere in immagini “fornitegli” da altri. Basta guardare ed ascoltare i suoi film per ritrovare in “Notte e nebbia” la terribile memoria di Jean Cayrol, in “Toute la memoire du monde” l’intimità bibliofila di Remo Forlani, in “Le chant du Styrène” l’organizzata follia di Raymond Queneau, in “Hiroshima, mon amour” il poeticismo umido e furbesco di Marguerite Duras, in “L’anno scorso a Marienbad” l’occhio stravolto di Robbe-Grillet, in “Muriel” l’occhiata multi-temporale sulla provincia francese ma anche sulla Guerra d’Algeria, di nuovo attinta alla fantasia di Jean Cayrol, in “La guerra è finita” la straordinaria esperienza e la vocazione militante di un eccezionale testimone della guerra e del dopoguerra di Spagna come Jorge Semprùn, in “Je t’aime, je t’aime” l’eredità anarco-fantascientifica di Jacques Sternberg, col protagonista che fa un tuffo a ritroso nel tempo, in “Stavisky, il grande truffatore” di nuovo la sensibilità storiografica di Jorge Semprùn, in “Providence”, grazie anche all’arte straordinaria di Sir John Gielgud, l’ossessione di David Mercer per i fantasmi a volte perversi che circondano la vecchiaia di uno scrittore, in “Mio zio d’America”, “La vita è un romanzo” e “L’amour à mort” la presenza creativa di Jean Gruault articolata secondo schemi differenti ma tutti legati da una dolorosa duttilità, in “Melò” la drammaturgia primonoventesca di Henry Bernstein, vista come una sfida e come un pretesto, in “Voglio tornare a casa!” il mondo di un famoso cartoonist diventa una chiave ed una spiegazione, in “Smoking; no Smoking” le possibilità combinatorie del teatro di Alan Hayckbourn, che ritroveremo anche i “Cuori”, filtrate dalla sceneggiatura di Jean-Pierre Bacri e Agnès Jaoui, in “Parole, parole, parole…” ancora una volta questi ultimi forniscono un alibi verbale ingegnosissimo per animare vecchie canzoni, in “Mai sulla bocca” la sceneggiatura di Resnais filtra clima, retorica e canzoni dell’operetta omonima di André Barde e Maurice Yvain prodotta nel 1925, e infine “Les herbes folles” dove, attraverso l’adattamento di Alex Reval, il romanzo di Christian Gailly “L’incident” diventa ancora una volta pretesto e motivazione di una tipica variazione di Resnais sul furto di una borsa e il ritrovamento dei documenti in essa contenuti.
Si potrebbe continuare a lungo, ma mi pare che anche questi brevi cenni consentano di recuperare la lezione di un uomo straordinario, ovvero di un regista di 87 anni che ad ogni nuovo film dimostra la freschezza di un giovinetto e la sagacia di un vecchio geniale. Credo che il suo insegnamento sia senza pari e stimolato da una umiltà che non tutti gli riconoscono: il suo modo di porsi all’ascolto dei libri e delle sceneggiature altrui e di recuperare tutto con un segno stilistico senza paragoni. Vorrei ricordare che contrariamente a quello che spesso si è scritto, Resnais in senso stretto non ha mai fatto parte della “Nouvelle Vague”. Nel già citato profilo di Cristina Battocletti, Resnais dice testualmente a proposito dei “colleghi”: “Figuriamoci! Mi escludevano! Truffaut e Rivette a malapena mi salutavano. Il critico André Bazin (padre spirituale del movimento e protettore fedelissimo di Truffaut - n.d.r.) invece era per me un fenomeno. Parlava di cinema come se stesse descrivendo le opere di Stendhal, ma ci andava pochissimo. Usava me, incallito frequentatore di sale, come suo informatore”.
(Nella foto qui sopra: un manifesto d'epoca di "Notte e nebbia")

Mi pare utile riportare qui anche questa minima testimonianza, perché serve per ricostruire la complessa fisionomia di Alain Resnais uomo, cinefilo e regista. Non mi lusingo di avere proceduto ad un approfondimento reale della sua personalità di autore, ma quel che ho scritto è la testimonianza di un’antica fedeltà nata a Venezia nel 1959 quando vidi, nella cosiddetta “informativa”, insieme a Peppino Calzolari che mi faceva fretta perché temeva di perdere l’inizio del film, “Notte e nebbia”. Nella compilazione di questo articolo mi sono stati di estremo aiuto non solo il recente “Alain Resnais – L’avventura dei linguaggi”, ricca antologia a cura di Roberto Zemignan, edita da Il Castoro nel 2008, ma anche il fondamentale “Alain Resnais o la persistenza della memoria” di Sergio Arecco, edito da Le Mani nel 1997. Come tanti libri dello stesso autore, è un’opera essenziale per conoscere e capire un regista.

Claudio G. FAVA

22 giugno 2009

Per piacere, intercettate! - Tatti Sanguineti - audio

Per piacere, intercettate!
Da oggi inauguriamo una nuova rubrica. Si tratta della registrazione fedele e integrale di un dialogo telefonico fra il sottoscritto ed un vecchio amico (o anche un amico tout-court o, nella peggiore delle ipotesi, con un vecchio nemico) sugli argomenti più disparati: la vita privata e pubblica dell'interlocutore, il suo passato ed il suo presente professionale, i libri letti o da leggere, eccetera, eccetera. Iniziamo con una telefonata a Tatti Sanguineti. Mi auguro che tutte le prossime presentino lo stesso straordinario interesse della prima. Quando saranno numerose gradirei ricevere da voi lettori qualche testimonianza scritta.

12 giugno 2009

ANGELA, NON SEMPRE ANGELICA


(A lato: la Lansbury nell'immagine codficata di Jessica Fletcher)

La prima volta che sentii parlare de “La signora in giallo” non si chiamava ancora “La signora in giallo”. Mi trovai a Los Angeles nel 1984 a comprare materiale per RAIDUE insieme a Carlo Fuscagni, massimo acquirente di RAIUNO. Un giorno vedemmo, presso la stessa casa di distribuzione (la Universal), due “piloti”, o più esattamente un “pilota” vero e proprio e la prosecuzione di una serie già iniziata, che si chiamava “Murder, She Wrote”. Mentre lo visionavamo Carlo mi disse: “Questo è un seguito. I primi telefilm della serie li abbiamo già” (bisogna spiegare che all’epoca, contrariamente a RAIDUE, RAIUNO trasmetteva pochi telefilm, tenendone un mucchio inutilizzati in magazzino). Infatti Carlo mi spiegò che “Murder, She Wrote” era doppiato e pronto, ma non veniva mai messo in onda. Allora, visto che in quel momento avevamo una certa possibilità di manovra con quel venditore, io gli dissi: “Miami Vice lo prendo io. E l’altro lo
prendi tu, visto che è un seguito”. Siccome eravamo amici, accadde proprio così e le due serie, una volta in onda, ebbero successo. Il primo lo battezzai “Miami Vice – Squadra anti-droga”, temendo che il solo titolo originale risultasse enigmatico. L’altro aveva già un titolo italiano, che io conobbi dopo, “La signora in giallo”, tuttora ampiamente ricordato dai telespettatori italiani. Ne è al centro un’attrice che ha diviso la sua carriera fra parti da protagonista ed altre, forse più numerose, di caratterista di lusso. E che mi sembra un personaggio di alta qualificazione professionale, di cui forse si parla poco. Si tratta di Angela Lansbury.
Inglese di origine e di educazione, si rifugiò negli Stati Uniti durante la prima adolescenza, quando la Gran Bretagna irruppe nella Seconda Guerra Mondiale. Nacque a Londra il 16 Ottobre nel 1925, figlia di un’attrice e nipote di un famoso uomo politico laburista, iniziò a studiare recitazione in una scuola inglese (la “Webber-Douglas School of Singing and Dramatic Art”) e poi in una americana (la “Feagin School of Drama and Radio”), ed esordì al cinema nel 1944, appena diciannovenne, in un film che godette di una notevole notorietà, “Angoscia” (“Gaslight”) diretto da un regista famoso George Cukor. A testimonianza del suo talento d’attrice e della varietà delle sue tonalità, la parte della Lansbury era quella di Nancy Oliver, una scaltra e piacente servetta, di fatto complice di un marito astutamente criminale (Charles Boyer), deciso a spingere sull’orlo della pazzia la moglie (Ingrid Bergman), salvata poi da un abile agente di Scotland Yard (Joseph Cotten).



(Nella foto qui sopra: una scena tratta dal film "Angoscia", con la Lansbury e la Bergman)

Con questo film ho un particolare rapporto affettivo, perché mi capitò una cosa molto curiosa. Ero ancora, credo, a RAIUNO, e quindi presumibilmente negli anni ’70, ed avevo allestito un ciclo su Ingrid Bergman. Alla RAI si viveva nella tradizione di Bernabei, per cui quando un titolo era - come si diceva allora – “in locandina”, e cioè era stato inoltrato per essere stampato sul “Radio Corriere”, diventava intoccabile e non si poteva mutare per nessuna ragione. Mi capitò questo: la settimana prima di andare in onda i montatori dei magazzini RAI mi comunicarono inaspettatamente che la copia originale di “Angoscia” c’era, ma non si trovava il doppiaggio italiano. Feci una cosa che con l’età che ho adesso non rifarei nemmeno per un milione di euro, e cioè organizzai un doppiaggio nuovo di zecca. Si badi che la durata della pellicola è di 114’, a dimostrazione del fatto che non è una lavorazione semplicissima. Per farla breve, grazie ad una eccellente doppiatrice e direttrice di doppiaggio che si chiama Genta, organizzammo una sorta di catena di montaggio. Alla notte lei curava l’adattamento del testo originale, lo faceva battere a macchina, io lo ricevevo a casa mia verso le otto del mattino, lo leggevo apportando le eventuali correzioni e lo restituivo immediatamente. Lei si metteva al lavoro, doppiava il testo corretto e alla sera si metteva al lavoro per preparare un nuovo frammento. Chi è pratico di doppiaggio sa che cinque giorni effettivi di lavoro non sono molti. Ma lei ci riuscì e il Lunedì successivo andammo in onda, sul Primo Canale – come si diceva all’epoca – e nessuno si accorse che si trattava di un nuovo doppiaggio. Noi pochi al corrente ne ricavammo un forte senso di orgoglio, senza riuscire a comunicarlo quasi a nessuno.
Per tornare alla Lansbury, ricordiamo che agli inizi essa apparve tonda e sensuale, ribadendo una capacità di adattamento ai personaggi che nell’ultima parte della sua carriera, legata al successo televisivo di Jessica Fletcher, probabilmente sfugge a chi l’ha conosciuta solo grazie al piccolo schermo. Non bisogna dimenticare che la Lansbury è inglese, anche se naturalizzata americana dagli anni ’50. Vale a dire che partecipa della stessa condizione di cui godono tanti attori “americani” famosi nati e spesso cresciuti in Inghilterra - come Bob Hope, il più americano di tutti, Cary Grant e Elisabeth Taylor ed a maggior ragione Charlie Chaplin, che non ha mai avuto la cittadinanza americana, o ancora Sidney Greenstreet per non contare C. Aubrey Smith, inglese di professione che della sua nazionalità fece un marchio di fabbrica - a cui l’origine europea sembra aver spesso conferito una elasticità ed una sottigliezza differenti dagli attori che sono nati negli Stati Uniti. Un’occhiata alla carriera della Lansbury ne è un’ulteriore riprova. Non è un caso che essa ricevette il primo “Golden Globe” nel 1946 per la sua partecipazione a “Il ritratto di Dorian Gray” (“The Picture of Dorian Gray”) di Albert Lewin e il secondo nel 1963 per “Va’ e uccidi” (“The Manchurian Candidate”) di John Frankenheimer, ove la Lansbury incarna una forsennata americana di destra, che in realtà è una spia russa e spinge il figlio (Laurence Harvey) a compiere inconscio dei crimini sotto l’influenza dello spionaggio nord-coreano. La sua interpretazione è strepitosa e conferma un genio recitativo complesso e raffinato. Dimostrazione di talento, peraltro, disseminata nel corso di una lunga carriera durante la quale ha ricevuto molti premi di ogni sorta, fra cui diversi “Tony Awards”, “Emmy Awards”, e i già ricordati “Golden Globes”, non sempre e non solo per via de “La signora in giallo”. Che ovviamente ha rappresentato una consacrazione televisiva totale, poiché gli episodi sulla CBS andarono in onda con 264 puntate, ovvero 12stagioni dal Settembre 1984 al Maggio 1996, più 4 film tv dal 1997 al 2003. In Italia - poi RAIUNO ha deciso di trasmetterli dal 1988 per lo stesso numero di stagioni – la somministrazione non è mai terminata perché gli episodi sono stati ripresi sui satelliti da Fox Crime, a partire dal 18 Settembre 2006, e sono quindi tuttora trionfalmente in onda e accompagneranno per quasi un decennio gli italiani (che hanno avuto occasione di rivedere recentemente delle repliche anche su RAIUNO). Il trionfo televisivo della Lansbury è quindi completo e senza pause, celebrando una mitologia fra le più importanti del piccolo schermo. Va detto che ha molto contribuito all’esito finale della serie l’eccellente doppiatrice, e cioè Alina Moradei, chiavarese di nascita, attrice di talento, e in particolare in possesso di una voce particolare – si tenga conto che la Lansbury è anch’essa nota per la bellezza del timbro e per la scioltezza nel canto – voce che per milioni di spettatori è diventata quella della Lansbury, protagonista della serie in cui, ovviamente in altri personaggi si sono cimentati molti dei migliori doppiatori italiani (Bruno Alessandro, cioè la tipica voce di Derrick, Elio Pandolfi, Michele Kalamera, Gianfranco Bellini, Glauco Onorato, Giorgio Lopez, solo per citarne alcuni). Il successo de “La signora in giallo” non è solo dovuto alla scorrevolezza medio-borghese con cui la Lansbury disegna il personaggio molto americano di una giallista di successo, ma anche alla tecnica di fondo basata su uno dei “segreti”, peraltro molto palesi, di tanti seriali polizieschi. E cioè il continuo imbattersi della protagonista in morti ammazzati, che la circondano sia nella fittizia cittadina del Maine, Cabot Cove, ove sono ambientati molti episodi, sia nelle altre città, anche all’estero, dove l’hanno via via spostata gli sceneggiatori. È questa una caratteristica tipica di tutti i telefilm di successo legati ad una forsennata intenzione ripetitiva che fa a pugni col buon senso, ma non con la vocazione liturgica del genere.

1 giugno 2009

Monicelli Uno e Due


(Nella foto qui sopra: Manio Monicelli in uno scatto di Maurizio Galimberti)

Pochi giorni fa Steve Della Casa, che andava a Torino per vedere Torino-Genoa (com’è noto è andata male a lui e al Torino, che ha collezionato un numero altissimo di squalifiche per i giocatori coinvolti in un frenetico pugilato finale), è venuto a trovarmi e mi ha lasciato un libretto con dedica affettuosa. Il libretto si chiama “Mario Monicelli – Il mestiere del cinema” (a cura di Stefano Della Casa e Francesco Ranieri Martinotti, Donzelli Editore, prezzo € 15) ed è composto da un’introduzione articolata nei seguenti capitoli:
1. Esiste un metodo?
2. Una generazione del “fare”.
3. Prima del primo ciak.
4. Le riprese, croce e delizia del regista.
5. Dopo le riprese.
6. Allora, un metodo esiste.
A cui segue una lunga intervista con Monicelli, circa una cinquantina di pagine, ove i due autori cercano di porre Mario di fronte alle principali scadenze professionali di un regista. A conclusione del libricino 8 tavole con immagini di Monicelli durante la lavorazione di “Le rose del deserto” (2006), suo film più recente. Si ricordi che Monicelli, nato a Viareggio il 16 Maggio del 1915, ha diretto la sua ultima opera, appunto “Le rose del deserto” – ha raggiunto ora i 63 titoli - all’età di 91 anni, a dimostrazione della sua incredibile vitalità. Che è la stessa di cui dà prova nel libro. Sempre puntualissimo nei riferimenti e aguzzo e tagliente nelle risposte. La sua principale preoccupazione è quella di togliere enfasi alle ossessioni culturali dei critici i quali, secondo il regista, sono portati a inventarsi complesse sovrastrutture linguistiche ed operative nel far cinema. Non è un caso che uno dei primi capitoli si intitoli, appunto, come abbiamo prima riportato, “Una generazione del fare”. Dicono Della Casa e Martinotti: “Il verbo fare ricorre continuamente quando Monicelli racconta le storie dei suoi film. Fare, per lui che ha cominciato il mestiere come assistente, vuol dire innanzitutto agire, muoversi, non stare fermo. E riferito a ogni nuovo film significa partire per un lungo processo fattivo che comincia prima di scrivere una sola parola di quello che sarà il soggetto, la storia […] parlarne con gli sceneggiatori, che il più delle volte sono anche i suoi più cari amici. L’amicizia, il piacere di stare insieme, la complicità nel lavoro vengono prima di tutto il resto. Racconta Monicelli […] che l’origine di ogni film, anche di quelli più piccoli o meno riusciti, è sempre il frutto della condivisione collettiva delle diverse esperienze”. E qui scattano fuori i rapporti iniziali con Steno, Metz, Marchesi, Maccari e successivamente il duo fondamentale composto da Age e Scarpelli, e ancora dopo Suso Cecchi D’Amico, Benvenuti, e De Bernardi, a cui si sono aggiunti Sonego e Pinelli, a testimonianza del fatto che egli e i suoi colleghi nascono e si affermano in un momento irripetibile nella storia dell’Italia post-bellica. Vale a dire in un momento in cui l’ansia di raccontarsi ad ogni costo, tipico della nazione com’era allora, si salda con una prodigiosa fertilità di invenzioni, che diede origine, fra le altre cose, al cinema dalla fine degli anni ’40 sino a metà dei ’60. Che resta un involontario e magistrale capolavoro della nostra storia recente.
La tentazione che si prova qui è quella di riportare per esteso quasi tutte le dichiarazioni di Monicelli, ognuna delle quali solleva un lembo della storia ovvia ma segreta del cinema italiano dal dopoguerra ad oggi. Mi limiterò qui a ricordare il suo lungo apprendistato come assistente alla regia fra l’altro di Genina, di Gentilomo e di Mattoli, grazie ai quali ha imparato moltissime cose sul “fare cinema”. E poi sul frenetico modo di lavorare inserito all’interno di un meccanismo di produzione cinematografica che girava a piena velocità, in un mondo in cui il cinema era il divertimento più ampio e più praticato dalla maggioranza della popolazione (gli autori gli fanno osservare che nel solo 1949 lui e i suoi amici avevano firmato ben 10 sceneggiature, a testimonianza del fatto che il “fare cinema” era l’alternativa più intensa e febbrile di una vita per il resto costituita da poche attrattive: in casa c’era molto freddo d’inverno e non soltanto lui e Steno ma tutto il cinema italiano si incontrava nei caffè, nei bar, nei ristoranti, dove si svolgeva la maggior parte del lavoro. E da quando ha cominciato a firmare i film, da solo o in compagnia, ecco l’incredibile addensarsi di particolari che riguardano non solo le vicende e i personaggi ma anche gli attori, trasformati e completamente mutati rispetto all’immagine corrente. Si prenda il caso di Gassman che Monicelli ha completamente trasfigurato, rispetto all’aulica visione shakespeariana e un po’ uggiosa che lo stesso Gassman aveva dato di sé nel corso dei suoi primi anni di teatro. È il caso non solo de “I soliti ignoti”, ma anche de “L’armata Brancaleone” e de “La grande guerra”. Gli autori ricordano anche lo stravolgimento del caratterista napoletano Carlo Pisacane in “emiliano doc”, o del sardo Tiberio Murgia in archetipo di autentico siciliano. Per non parlare dell’Alberto Sordi di “Un borghese piccolo piccolo”. Gli autori gli chiedono: “Per stravolgere così radicalmente un attore comico in drammatico hai dovuto lavorarci molto o è stato semplice?”. Risponde Monicelli: “Sordi era un attore di una qualità suprema. Aveva capito, leggendo la sceneggiatura, quale era il personaggio, e c’era poco da dirgli. Poi, specialmente per quella trasformazione, era inutile dirgli qualsiasi cosa. Io volevo lui, perché conoscevo lui. Sapevo com’era fatto e quali qualità avesse dentro di sé. Sennò, non è che io gli potevo insegnare alcunché. L’ho sempre messo a suo agio perché si ritrovasse sempre nei momenti giusti, nei panni giusti, con gli interlocutori giusti, gli ambienti giusti, con la luce…tutto giusto”. Altro caso tipico di Monicelli fu quello di mutare Monica Vitti, che allora era la diva attonita de “L’avventura”, “La notte”, L’eclisse”, in una divertente e divertita attrice comica ne “La ragazza con la pistola”, a testimonianza di un sesto senso cinematografico che esiste in lui dall’inizio della carriera e che nel corso dei decenni ha affinato e perfezionato sino a limiti quasi irraggiungibili. Si veda, ad esempio, quel che scrive del suo rapporto con Totò, genio assoluto che, ad esempio, modellato dalla sua abitudine di lavorare in teatro, preferiva girare i film in sequenza, e non nel disordine temporale tipico della struttura frammentata imposta dalle utilità produttive.
Queste sono alcune osservazioni marginali rispetto al tono generale dell’intervista che nella sua autenticità è affascinante e non ricostruibile a citazioni. Il consiglio, per quanto ovvio possa sembrare, è di comprare il libricino e di leggerselo tutto, per non togliere colore e profondità alle parole di Mario. L’unico appunto che mi sento di fare riguarda il riferimento alla prima guerra mondiale, che viene definita, per quanto riguarda l’Italia, una “carneficina programmata da politici senza scrupoli, industriali avidi e generali ottusi”. È un’affermazione vera solo in parte, perché non tiene conto della volenterosa ampiezza della partecipazione popolare ad un conflitto magistralmente rievocato da un tenente dell’artiglieria austro-ungarica, Fritz Weber, in alcuni libri fra cui il fondamentale “Le tappe della disfatta”. Ma si tratta di osservazioni marginali, di cui parlerò a voce con Steve.
Per tornare a Monicelli, con lui, alcuni anni fa, ho condiviso una curiosa esperienza, in certo senso affine a quella di Della Casa e Martinotti, e che il libricino di questi ultimi due ha contribuito a farmi ricordare. Nel 2003, grazie a Gianluca Farinelli, Direttore della Cineteca del Comune di Bologna, partecipai insieme a Mario Monicelli, ad una puntata di una complessa “Scuola di retorica”, allestita dall’Università di Bologna e centrata su 6 lezioni dedicate ai linguaggi della moderna comunicazione (L’anno seguente questo corso è stato replicato, questa volta focalizzandosi su alcune delle tradizionali figure retoriche della retorica dei linguaggi di oggi).
Noi eravamo stati invitati per illustrare il linguaggio del cinema. Successivamente tutto il materiale ricavato dalle varie lezioni è stato riunito in un volume (edito dalla Bononia University Press nel 2006) dal titolo “Scuola di retorica”, a cura di Angelo Varni. Per quel che mi riguarda si tratta di una trentina di pagine, articolate in un vero e proprio dialogo, in cui io cerco di estorcere da Monicelli i segreti creativi di un’intera esistenza, e lui ribatte sempre con semplice e feroce precisione. Rileggendo il testo ho avuto la sensazione che possa ancora interessare oggi gli spettatori. Ed ecco perché mi permetto di citarlo qui in coda al mio pezzettino sul libro ora dedicato a Monicelli. La mia intervista la riporto qui integralmente utilizzando un delicato lavoro di scansione, operato sul volume da mia moglie Elena e da Chiara Sgarro, a cui Lorenzo Doretti ha apportato, come sempre, il suo decisivo contributo tecnico e creativo. Credo di non commettere nessuna violazione di copyright inserendola qui, con tutti i dovuti riferimenti editoriali. Devo fare una piccola correzione. Nella sua introduzione al dialogo Fava-Monicelli, Farinelli parla di me con molta gentilezza e con molto affetto, commettendo tuttavia un piccolo errore, dicendo che alla RAI io ho comprato la più famosa serie poliziesca tedesca, e cioè “Derrick”. In realtà “Derrick”, come capo-struttura a RAIDUE, io l’ho amministrato per quasi tredici anni, comprando le nuove serie, ricomprando quelle vecchie e compiendo annualmente il quasi miracolo di tenere in piedi una programmazione che prevedeva solo undici titoli nuovi all’anno (undici mesi di lavorazione ed un mese di sosta). Ma la serie venne comprata da Piero Castellano, al primo MIPCOM di Cannes, quando io ero ancora a RAIUNO. Passato a RAIDUE, divenni il superiore ma restai l’amico di Piero Castellano, che lavorò poi con me per molti anni.


***

Il linguaggio del cinema - Claudio G. Fava e Mario Monicelli


Claudio G. Fava
L’aneddoto, che piace molto al direttore della Cineteca del Comune di Bologna, è curioso. La prima volta che mi sono recato a Cannes, per motivi professionali, è stato nel 1956. Come Monicelli sa, il festival di Cannes dell’epoca era completamente diverso, come era diverso il mondo in generale. La Croisette era splendida. Intanto la Francia disputava guerre in Algeria e in Cocincina, o meglio si accingeva a fare la guerra in Algeria e stava facendo la guerra in quello che poi fu il Vietnam. Ma a Cannes non se ne aveva la sensazione: signore bellissime uscivano nella notte cariche di gioielli, con la pelliccia, senza essere rapinate, e i giornalisti (qualche centinaio) non venivano brutalizzati come adesso nei festival. A Venezia quest’anno [2003], Tonino Pinto è stato addirittura gettato per terra dalle guardie del corpo di Stallone, cavandosela con una capriola. Io non l’avrei potuta fare: se fosse capitato a me, sarei già morto.
A Cannes, dunque, stavo assistendo a una conferenza stampa di Zavattini. I francesi all’epoca adoravano alcuni registi italiani, pur non conoscendoli perfettamente (scrivevano “De Sicca”, per esempio, e alcuni di questi difetti sono rimasti). In realtà non sapevano assolutamente nulla di Zavattini, se non che era lo sceneggiatore di “De Sicca”. Così gli hanno chiesto che rapporti aveva con lui e questa è stata la tragedia perché Zavattini, con quel suo forte accento emiliano — anche se ha fatto l’istitutore al collegio Maria Luisa di Parma, quindi aveva avuto contatti con le lingue internazionali — si è messo follemente a parlare in francese, spiegando che i suoi rapporti con De Sica erano rapporti costruttivi perché loro due erano come il caffè e il latte. Mescolando il caffè e il latte, viene fuori il cappuccino, che è un’altra cosa. Qui la questione si è incagliata perché i francesi, nel 1956, non conoscevano il cappuccino, conoscevano il caffè crème, che è tutt’altro. E i francesi, da quel momento, hanno scoperto le capucinò.
Ad esempio a Cannes, finché ci sono andato, c’era un caffè, vicino a una strada dal nome romanzesco, Rue du Bivouac Napoléon (Strada del bivacco Napoleone, perché, avviandosi ai Cento giorni, lui sbarcò a Cannes: è l’unica cosa per cui Cannes era ricordata, prima del festival), che si chiama “Il Cappuccino”, “Le Capucinò”, perché i francesi non riescono a pronunciare le due “c” insieme. (Una volta uno mi parlò a lungo di uno scrittore italiano, che amava molto, e che lui chiamava “Siasià”: era Sciascia).
Tornando a Cannes, di fronte al discorso in francese di Zavattini, la platea si è bloccata, nessuno capiva niente, così gli hanno fatto un’altra domanda.
In breve, ho scritto questo libro Clandestino in galleria perché un piccolo festival di Genova, il Genova Film Festival, ha deciso, preso ormai da delirio, di dedicarmi, durante la settimana del festival, un omaggio quotidiano, cosa che ha destato assoluta indifferenza nella città, salvo qualche eccezione. Questo omaggio è consistito nella scelta di alcuni film serali da me presentati e, ogni giorno, un brano o più brani televisivi. Siamo riusciti a estirpare dalla RAI, con difficoltà inenarrabili, alcuni documentari, alcune presentazioni, che non mi ricordavo quasi di avere fatto.
In cambio, i ragazzi che organizzavano, Antonella e Cristiano, mi hanno chiesto di fare un’intervista, che si è dilatata a tal punto da concretizzarsi in questa specie di autobiografia (in preda ormai a delirio di onnipotenza e credendo di essere una persona importante), in cui racconto i miei anni di giornalista a Genova: parlo di un giornalismo che fisicamente non esiste più (sono stato tanto amico di Dario Zanelli, che è stato anche vicedirettore del «Resto del Carlino»), un giornalismo assolutamente diverso (noi lavoravamo col piombo), retorico rispetto a quello di oggi, che lo rievoca solo per gli errori di sintassi che sono gli stessi, tramandati di generazione in generazione.
Io ho scritto questo, ho raccontato la mia storia e il passaggio alla RAI, quella monopolistica di Bernabei, in cui ho lavorato per sei anni. Poi la RAI si è divisa ed è noto che la riforma, cioè la formazione di due reti indipendenti, era stata un gioco politico, che presumeva il monopolio.
Ho vissuto tutte le varie fasi della RAI: nel 1976 ho diretto la programmazione cinematografica del lunedì dell’appena costituita Rai Uno, completamente solo. Scrivevo, parlavo, e spesso sembravo un pazzo, ma i film andavano in onda realmente e questo è il vero problema della RAI: trasmetteva sempre qualcosa, senza preoccuparsi, senza verificare nulla. Ma in realtà, dietro a ogni frammento di lavoro c’erano delle persone, in genere delle donne, straordinarie, che si occupavano della cura dei programmi e della loro messa in onda.
La definizione di retorica tratta dal dizionario Devoto Oli (sono due persone, non è un prete) è la seguente: «I. L’eloquenza come disciplina del parlare e dello scrivere, fondamento di gran parte dell’educazione letteraria dell’antichità classica, fino a un’età molto recente. La retorica greca, romana, bizantina, i precetti della retorica, scuola, maestro di retorica». Esistono altre definizioni, ma questa è fondamentale perché ci consentirà finalmente di far parlare Monicelli, affrontando il tema.
Si parla di linguaggio e di lingua e la retorica è, in qualche modo, una forma, una derivazione e al tempo stesso uno stimolo della lingua. Oggi parleremo della lingua del cinema. Mi pare di estremo interesse farlo, perché il cinema, come ha sapientemente annotato Farinelli, è, fra le arti, quella che esige più collaborazione. C’è un autore, il regista — ormai il problema della politique des auteurs è indiscussa — che, per potersi esprimere, ha bisogno di molta gente intorno a sé, di una troupe, di alcune persone essenziali, come il direttore della fotografia, il cameraman, lo scenografo, il costumista... È vero Mario?
Mario Monicelli: Di scrittori del cinema. Soprattutto di chi scrive il cinema.
Fava: ... e gli sceneggiatori. Lui è stato anche molto spesso sceneggiatore e, non a caso, ha diretto i primi film, dando origine a una coppia famosa, Steno e Monicelli, con Steno che era fondamentalmente, nell’animo, più sceneggiatore che regista. O sbaglio?
Monicelli: Sì. Ma nessuno di noi due era regista. Eravamo sceneggiatori. In particolare avevamo collaborato e lavorato nei giornali umoristici.
Fava: «Marc’Aurelio»?
Monicelli: «Marc’Aurelio», «Bertoldo», i vari giornali umoristici che si facevano allora, con Manzoni, Metz, Mosca. Scrivevamo per divertire coloro che compravano questi giornali.
Fava: Perché siete passati insieme alla regia, che è un atto decisivo? Una cosa è stare in casa e dire “La baronessa esce”; un’altra è passare alla regia, trovarsi improvvisamente con la troupe, con una macchina da presa e con la necessità di girare qualcosa. Come si diventa registi?
Monicelli: Se lo si diventasse, non credo che sia l’iter migliore. Sia Steno che io, che eravamo una coppia molto ricercata, scrivevamo soggetti e sceneggiature per film comici, per i comici di allora (Totò, Macario, Rascel), i quali avevano un grande successo. Scrivevamo per loro. Eravamo una coppia molto ricercata, lavoravamo molto, guadagnavamo bene. Eravamo ricercati anche dai produttori (Ponti, ormai noto — forse fra un po’ ignoto, anche perché scomparirà anche lui — De Laurentiis, che è stato anche intronato con il Leone d’oro a Venezia).
Fava: Solo un’interruzione. Hai lavorato con Peppino Amato?
Monicelli: Con Amato. Ho lavorato con tutti.
Fava: È famoso per gli errori. Diceva “Si sono tutti alcolizzati contro di me”. Diceva cose di questo tipo. È vero?
Monicelli: Sì, sì.
Fava: “Devo fare una puntura lombarda”.
Monicelli: “La pietra emiliana”... Sì. Però aveva un intuito straordinario. In realtà, ci siamo accorti che all’inizio questi errori, questi strafalcioni, li faceva naturalmente, poi però, visto che avevano successo, un pochino se li inventava anche. Era diventata una firma di civetteria, per dire, “Sono un ignorante, ho fatto soltanto la terza elementare, però sono quello che ha prodotto Fellini o film, quali La dolce vita, Roma città aperta”.
Fava: Scusa, ne ho trovata un’altra, nel libro di Stefano Della Casa, che a Venezia ha fatto questa retrospettiva, che è la più bella di tutte. Dice: ‘Ti faccio dormire in un albergo dove ha dormito il cigno di Pier Busseti” (confondendo il paese nobile di Verdi con una nota agenzia di viaggi all’epoca).
Monicelli: Noi lavoravamo con tutti felicemente. È successo che, a un certo momento, Ponti, il produttore, aveva scritturato Totò per Otto settimane — vi devo dire queste cose un po’ spicciole ma è così — e aveva convocato Comencini — penso che molti di voi lo conoscano per Pinocchio, per il vero Pinocchio — senza polemiche verso nessuno...
Fava: E con qualche allusione, però! Diciamo la verità.
Monicelli: Hai ragione. Sono contento. Lo so. Aveva scritturato Comencini perché facesse questo film per Totò. Allora erano tempi in cui i soldi erano pochi, non bisognava perdere tempo e, soprattutto, Totò aveva un successo popolare clamoroso, veramente indistruttibile: qualunque cosa lui facesse, rappresentasse, sia in teatro — faceva l’avanspettacolo e curava la rivista insieme alla Magnani — sia al cinema, era di grande successo.
Costrinse Comencini a fare il film, invece che in otto, in quattro settimane e mezzo, inventando delle cose, non si sa cosa, delle cambiali, delle madri moribonde in ospedali, ecc.
Quindi aveva disponibile Totò per altre quattro settimane, in cui poteva fare un altro film, il ché portava danaro a lui perché, ripeto, Totò era molto, molto popolare.
Allora si rivolse a noi, a me e a Steno, dicendoci di inventare un soggetto.
Fava: Steno era Stefano Vanzina, molti lo sanno, papà dei fratelli Vanzina.
Monicelli: Allora Ponti si rivolse a noi per avere un soggetto. E noi avevamo un’idea, lo facemmo subito, in una settimana. Lui non trovò il regista, perché erano tutti occupati. Allora erano tempi in cui i registi erano pochi, il pubblico riempiva i cinema qualsiasi cosa si proiettasse, quindi gli esercenti, cioè le botteghe del cinema, erano anelanti, avevano bisogno di film. I registi erano tutti occupati, quei pochi che allora facevano cinema, perché allora il cinema sembrava una magia, una cosa che pochi conoscevano: una cosa misteriosa, con immagini in movimento, che si illuminavano, che poi si dovevano montare, cominciando dalla fine; con attori che erano quasi tutti del teatro, quindi non abituati a questo tipo di racconto, a questo modo di lavorare, per cui si doveva cominciare dalla fine della commedia. Insomma tutto era in mano a questo essere misterioso che era il regista.
Allora Ponti ci chiese se conoscevamo Totò, se avevamo lavorato con lui, ecc., e ci propose di curare noi la regia. E così l’abbiamo fatto noi. Questa è stata la mia vocazione da regista.
Fava: Ti ricordi ancora il primo giorno?
Monicelli: Facevamo il cinema tutti e due da una decina di anni, avevamo cominciato prima della guerra. È tutta una generazione che viene dalla fine degli anni Venti, anni Trenta, intendiamoci. Quindi avevamo fatto gli aiuto-registi, assistenti a decine di registi; eravamo stati nei set, avevamo lavorato con gli attori per spiegare i soggetti, le battute, ecc. Sapevamo come si svolgevano le cose, più o meno.
Quasi tutti voi, tu e i tuoi colleghi, avete il difetto di pensare che sia un mistero, un trauma decidere dove mettere la macchina da presa la prima volta per inquadrare gli attori, o quello che si vuole inquadrare. In realtà non è un trauma. Devi far vedere Totò che si avvia a bere un bicchiere d’acqua? La metti lì e fai vedere Totò che beve un bicchiere d’acqua. La cosa è semplice, non è così complicata. Fra l’altro eravamo in due.
Fava: E quindi l’avete fatto a turno.
Monicelli: A dividere le responsabilità, i guai e i benefici di questa cosa. E basta. Abbiamo cominciato a fare il mestiere — perché è un mestiere — la professione del regista, che non è un artista, come sperate voi critici. È un artigiano, come Donatello — capito come?
Fava: Sì. Una domanda banale: come si lavorava con Totò?
Monicelli: Molto bene. Intanto Totò era uno di grandissima esperienza, autorevolezza, ma soprattutto era un professionista, che lavorava in teatro da decine di anni, quindi conosceva il pubblico, soprattutto. Grande conoscenza del pubblico avevano, a quell’epoca, tutti gli attori che usavano il cinema italiano, in quanto attori di teatro.
Fava: Quelli che venivano dall’avanspettacolo.
Monicelli: Dall’avanspettacolo e dalla rivista. Quindi affrontavano il pubblico, il quale andava all’avanspettacolo per poter interloquire con l’attore, per dirgli qualcosa, per poterlo provocare, in modo che l’attore fosse pronto ad avere la risposta che fosse spiritosa, che fosse caustica, insomma, che si facesse valere. Quindi era gente sveglia, pronta a qualsiasi evenienza. Totò era uno di questi, proveniva da questa scuola, aveva questa prontezza. Quando si girava, aveva una sua sceneggiatura da leggere, doveva imparare delle battute e le studiava. Poi la qualità di Totò non era tanto quella. Mi si chiede sempre cosa faceva e cosa inventava. Ripeteva le battute che gli davano, ma le diceva in una maniera spiazzante. Questa è la verità. Era un modo di gestire, di pronunciare la battuta, di emettere un’intonazione che non era contemplata, che però era quella che poi faceva la grandezza e la stupefazione dell’attore. In genere lo fanno tutti gli attori, ma lui in particolar modo, perché era un attore paradossale. Fra l’altro aveva imparato da un altro. In giovinezza era stato a scuola da un attore che lavorava con Boccioni...
Fava: I futuristi?
Monicelli: Veniva dalla scuola futurista, perciò aveva questi lampi di surrealismo, astratti, aveva una comicità straordinaria, strepitosa, di astrattismo, di surrealismo, che gli è stata cancellata, soprattutto da me. Abbiamo tentato tutti — e ci siamo riusciti facilmente perché lui era un attore — di portarlo su una dimensione di attore divertente, comico, anche umana, qualche volta anche patetica, comunque realistica. Mentre lui aveva questa vena, che non è stata sfruttata, che sarebbe stata strepitosa, oggi, poterla avere documentata. Ci ha provato un po’ Pasolini, ma lui ormai non era più in grado.
Fava: Quando facevate questa operazione, eravate consapevoli, in qualche modo, di tagliargli un po’ le ali?
Monicelli: Certo che eravamo consapevoli. Non solo, ma eravamo orgogliosi. Eravamo contenti di fare questo, pensavamo che l’operazione da fare fosse quella. Invece non era vero.
Fava: E tu, quando te ne sei accorto?
Monicelli: Quando è morto, perché esistono alcune riprese, fatte per pigrizia e per far presto — perché bisognava fare tre film all’anno con Totò, quindi bisognava fare alla svelta — che catturano ciò che lui faceva sul palcoscenico. Gli sketch che lui aveva inventato, scritto, o comunque messo insieme, con la sua “spalla”, Castellani. “Spalla”, nel gergo, vuol dire l’altro attore che lo sostiene...
Fava: Quello che sono io con Monicelli, in questo momento, tanto per dare un’idea.
Monicelli: ... che gli dà anche la controparte alle battute, che insiste. Se il pubblico si diverte e prende parte al dibattito che stanno facendo, allora vanno avanti parecchio, anche a soggetto. Vanno avanti dicendo altre cose in cui sono preparati. Oppure si fermano, se vedono che il pubblico non ci sta. Con questa spalla, lui sapeva come fare e come comportarsi. Noi abbiamo fatto due o tre volte con lui quella scena del vagone letto, è una cosa sua, appartiene a lui. Nessun regista c’entra. In un vagone letto c’era la macchina da presa che spaventa tanto, stava lì e fotografava lui, Castellani e quello che faceva il ministro, Pavese. Oppure, altre cose, come la scena del burattino. C’è una situazione in cui il burattino cade — abbastanza sinistra, fra l’altro — che dimostra tutta la sua grandezza di attore. Anche quella la faceva in palcoscenico.
Fava: L’ultima cosa su Totò. Il suo rapporto con Peppino De Filippo — sono strepitosi insieme: improvvisavano a volte?
Monicelli: Più che improvvisare, ripeto, era come un canovaccio. Se la cosa che gli si dava — che gli davamo noi ma non sempre noi, perché ha fatto film con tutti — se il tema che gli si dava, la lettera (la famosa storia della lettera)...
Fava: Totò, Peppino e la malafemmina.
Monicelli: Quella lettera è un cosa che apparteneva alla tradizione del teatro napoletano. Ogni comico napoletano, quando vede che le cose vanno male, detta una lettera a un altro, che la scrive. Tutti i comici napoletani hanno questa scenetta della lettera in repertorio. Figurarsi se Peppino e Totò non conoscevano la lettera. Sono due ignoranti e quindi è una cosa strepitosamente divertente. Quindi, quando era il momento, facevano la scena...
Fava: Che poi si dilata perché c’è anche l’arrivo a Milano, il dialogo col vigile che dice: «Ma lei parla italiano? Che gentile!» «Noio...» comincia a dire Totò. “Noio” per dire “noi”. Non so cosa diavolo dice esattamente... Comunque...
Farinelli: Ne approfitto. Una domanda sempre sul rapporto con Totò. Voi scrivevate la sceneggiatura e poi c’era un momento di discussione con lui?
Monicelli: No.
Farinelli: Quindi lui accettava ogni cosa?
Monicelli: C’era un momento in cui gli si dava la sceneggiatura. Lui la leggeva, poi si parlava un momento, appena. Lui faceva qualche domanda e niente di più. Anche perché, insisto, noi conoscevamo Totò, non scrivevamo delle cose adatte per Tatì, erano per lui. Caso mai qualche cosa avveniva sul set. Quando si andava a lavorare, lui faceva delle proposte, che erano sempre molto intelligenti e che trasportavano il personaggio verso questo astrattismo, verso qualcosa di surreale, che venivano subito bocciate, naturalmente, e poi lui faceva subito altre proposte.
Fra l’altro Totò aveva una grande qualità: la gestualità. Era un mimo strepitoso. Il vero grande attore lavora con tutto il corpo: le smorfie non si levano. Il regista che sa girare non fa primi piani sulle smorfie degli attori. Possibilmente li fa, se è possibile, a figura intera. Infatti, tutti si ricordano Chaplin e Buster Keaton a figura intera, non si ricordano dei primi piani, non hanno importanza. I grandi attori si ricordano tutti a figura intera, come James Stewart, Gassman. Quindi lui era un mimo straordinario, come lo erano anche gli altri, intendiamoci, però il vero attore, comico soprattutto, è un mimo. Noi lavoravamo con lui per questo. Lui faceva tutto quello che gli si diceva, però a modo suo e prolungando qualche volta le cose, in modo che bisognava stare attenti e mettere due macchine, così da poter tagliare. Perché se, per esempio, aveva una scena con Fabrizi e se, loro due, si accorgevano che il canovaccio lo consentiva, si divertivano, andavano avanti e non finivano più. Invece noi dovevamo finire perché poi il film aveva un suo seguito, non è che la cosa si esaurisse lì. Erano attori abituati sul palcoscenico a chiudere lo sketch anche dopo venti-quaranta minuti. Poi dopo avvenivano altre cose. Al cinema non si poteva fare. Quindi dovevamo usare dei trucchi da poter poi sacrificare. Se si potessero avere le cose che sono state tagliate, buttate via, questi momenti sarebbero molto interessanti.
Fava: Ritorniamo alla sceneggiatura. Nella sceneggiatura, normalmente, secondo convenzioni grafiche che possono cambiare, da un lato c'è il dialogo, dal film sonoro in poi...
Monicelli: Allora. Adesso non si fa più nemmeno questo. Adesso si fa un racconto, una novella, con tutte le battute e basta, scritto su una pagina intera, come un racconto.
Fava: Invece un tempo c'era questo rito della pagina...
Monicelli: C'era il rito della metà con dialogo e della metà con la parte visiva. A sinistra c'era scritto “Una bella giornata chiara, si avvia balzelloni andando verso l'acqua per fare il bagno”. A destra c'era quello che l'attore doveva dire.
Fava: Però c'erano queste indicazioni nelle vecchie sceneggiature, come “La macchina da presa si sposta”.
Monicelli: non esiste più da circa vent'anni.
Fava: Quando voi le scrivevate, quando eravate un po' più giovani, sapevate quello che stavate scrivendo, non avendo mai manovrato una macchina? O il fatto di stati aiuto-regista vi ha aiutato?
Monicelli: Eccome. Io sono stato aiuto-regista per dieci anni. Ho cominciato con un regista pazzo, Machatý, che faceva delle follie incredibili. Urlava, sbatteva contro il suo assistente, gli dava delle bicchierate in faccia, faceva spegnere le luci del teatro perché veniva colto da una crisi.
Fava: Con chi ha imparato veramente qualcosa? Con quale regista?
Monicelli: Con i cattivi registi si impara molto. Si impara a non fare. Con Felini cosa vuoi imparare? Non impari niente perché, o sei lui, oppure lasci andare. Cosa vuoi imparare con Fellini o con Antonioni? Non si impara. Impari, caso mai, l'atteggiamento, un certo tipo di di serietà, oppure, al contrario, di non prendere troppo sul serio quello che stai facendo, come faceva questo Machatý, che era un pazzo.
Fava: Siccome dobbiamo parlare del linguaggio, parliamo degli elementi essenziali, cioè l'inquadratura, la sequenza, ecc. Parleremo del linguaggio fonetico e del linguaggio – non so come si può dire – visuale. Perché è quello che la gente vede. La gente vede delle sequenze, delle inquadrature, delle immagini in movimento.
Monicelli: È semplice la cosa, è lo stesso di quello che succede nel teatro. Hai fatto mai una regia teatrale?
Fava: Io no.
Monicelli: No? Perché si impara molto da lì. Se tu sei un regista teatrale, hai un solo modo di inquadrare quello che avviene, che è il palcoscenico. La grandezza del palcoscenico è quella. Quello che dicono gli attori, se lo vuoi sottolineare, lo devi fare in qualche maniera, senza vedere sullo schermo un primo piano, una parola, una lacrima, un urlo; oppure ti metti lontano, da una parte, lo vedi di spalle, ecc. Quindi devi trattare con gli attori e con quello che avviene in modo che tutto quello che l’autore ha scritto, ha sottolineato di drammatico, di divertente, di insolente, venga fuori, senza poter avere la possibilità, che hai con il cinematografo, di fare il cosiddetto primo piano. Cioè di sottolineare veramente, con altre inquadrature più ravvicinate, oppure fare un campo grande in una battaglia. In teatro non la fai la battaglia.
Fava: Questo vuol dire? Che il teatro è più difficile, migliore, più intelligente, più profondo del cinema?
Monicelli: No. La differenza di linguaggio è questa. Il cinematografico è un linguaggio e hai a disposizione una varietà di inserimenti sugli attori che non hai nel teatro, che è quella per cui puoi andare da un grande campo di battaglia sterminato, a seconda dei quattrini che ha il produttore che ti ha chiesto di fare il film, al dettaglio in primo piano dell’attore, sia esso Sordi, o sia Kirk Douglas, quello che ha fatto Spartacus.
Fava:. Va bene, però questa graduazione dei movimenti... Perché si usa il dolly, a un certo punto? Perché si fanno dei carrelli, per esempio? O si facevano? Per quale motivo questa articolazione, che è anche complicata tecnicamente? Le troupe lo sanno, richiede del tempo, bisogna preparare i binari, ecc. Perché?
Monicelli: Richiede il tempo necessario. Perché si fanno i carrelli? Perché se tu e lui parlate insieme e vi dovete spostare da qui a lassù, per seguirvi, in maniera che, mentre parlate, seguo le vostre espressioni, bisogna che vi tenga sempre in campo. Allora vi devo seguire e, per seguirvi, metto la macchina da presa su una rotella, un binario, che mi precede o mi segue, a seconda dei casi. Ma non si fa più questo. Sono cose da principianti.
Fava: Mi guardi sempre con deprecazione. Io faccio le domande. Come se fossi un commissario di polizia!
Monicelli: Perché mi interroghi con l’occhio un po’ ladrocinesco, come se dovessi rubare non so che cosa. Non c’è da rubare niente.
Fava: Non voglio rubare niente. Chiedo semplicemente delle cose, come a una dogana chiedono se si ha qualcosa da dichiarare. Allora passiamo a tutt’altro genere di cose.
Monicelli: L’altro linguaggio, quello che si fa nei film, quello che facevo io, con i miei amici, che erano sempre gli stessi (Age, Scarpelli, Suso Cecchi D’Amico, Benvenuti e De Bernardi), era un linguaggio di...
Fava: Luciano Vincenzoni mai?
Monicelli: Vincenzoni ha fatto un paio di soggetti con me.
Fava: Questi nomi che tu hai fatto, e pochissimi altri, sono in realtà quattro quinti della storia del cinema italiano del dopoguerra, o no?
Monicelli: Se vuoi anche otto decimi, ma della storia della commedia all’italiana, stai attento. La storia del cinema non è mica la storia della commedia all’italiana.
Fava: No, però, se tu togli i nomi che hai fatto, chi rimane?
Poi non era né all’italiana, né commedia. Non so cosa fosse. Age e Scarpelli — lo dico con il massimo rispetto, perché a suo tempo fui l’unico che in televisione fece un ciclo su Age e Scarpelli, perché gli italiani cultori di cinema, non amavano la sceneggiatura, non gliene fregava niente di chi scriveva i testi. È vero? L’armata Brancaleone, senza Age e Scarpelli e il tuo contributo decisivo, non esisterebbe.
Monicelli: Sì, certo. Ma non credere che quel linguaggio fosse una cosa così semplice. Mi fa piacere che tutti credano che sia un’invenzione, che sia scaturita da cervelli come Minerva. In realtà è venuta fuori questa cosa perché, mentre sceneggiavamo e dicevamo quello che, secondo noi, doveva fare questo Brancaleone, che era una specie di Don Chisciotte un po’ stupido, diciamolo, però simpatico, noi...
Fava: A me ha dato la sensazione di un commesso viaggiatore. Era un po’ commesso viaggiatore, sbruffone, approssimativo...
Monicelli: Anche sciocco e un po’ coraggioso. Noi mimavamo e, mimando, parlavamo. Siccome il film era ambientato nell’anno Mille, vagamente, per divertirci fra noi parlavamo un linguaggio che un pochino rispondeva al quel periodo — avendo conosciuto Jacopone da Todi, qualche lettera di Gregorio VII, San Francesco d’Assisi, ecc. - dicevamo delle parole che ci sembravano divertenti, inventate da noi, attraverso i dialetti che conoscevamo molto perché li studiavamo. Poi ci accorgemmo che, tutto sommato, quello che ci divertiva per andare avanti nel costruire questi personaggi e queste vicende, poteva anche essere una cosa vera, si poteva anche tradurre, scrivere, far imparare e far dire agli attori, in realtà, sullo schermo.
Fava: C’è Salerno che, a un certo punto, grida “Passiamo lo cavalcone”, che è irresistibile, perché si capisce benissimo che loro erano goliardicamente divertiti all’idea di fare queste grida stridule. Però è affascinante. Volevo chiedere due cose. Tu dicevi dell’uso dei dialetti...
Monicelli: Era proibito, ricordati, negli anni Cinquanta e Sessanta l’uso dei dialetti.
Fava: Allora, prima di tutto c’è, consentimi, la grande lezione di Paisà, in cui ogni episodio è scandito da dialetti esattamente parlati. Si comincia col siciliano e si finisce col dialetto rodigino, del Po, che è un capolavoro, come tutti i film di Rossellini che, forse, nascevano per caso...
Monicelli: Anche Roma città aperta era in romanesco.
Fava: Se qualcuno si ricorda Paisà, si ricorderà che si comincia in siciliano, poi c’è l’episodio del soldato nero americano in napoletano, c’è l’episodio di Roma della ragazza prostituta, c’è l’episodio di Firenze che è programmaticamente fiorentino, col barone Avanzo, cugino di Rossellini.
Monicelli: Sì, però quello a cui eravate deferenti, Aristarco...
Fava: Io per lui non ho mai avuto deferenza. Ma per amor di Dio!
Monicelli: È un problema questo.
Fava: Insomma... è morto, non voglio dire niente, ma se c’è una persona con cui non ho avuto rapporti di nessun genere, è stato Aristarco.
Monicelli: Ma, voglio dire, Aristarco e gli altri (non parliamo di Aristarco) proibivano. Rossellini era Rossellini ed era perdonato per questi due film, poi basta, perché quando ha fatto tutti gli altri con la Bergman, parlavano italiano e guai se non si parlava italiano.
La commedia all’italiana, dove si parlavano i dialetti, era considerata spazzatura. Però i dialetti c’erano.
Fava: Ti interrompo per dirti che un regista, molto amato da Aristarco, tale Visconti di Modrone, di buona famiglia, come il nome indica, inizia il film, La terra trema, con la scritta (semplifico): “In Italia ci sono due lingue. I ricchi parlano in lingua, i poveri parlano dialetto. Questo film è parlato in dialetto”.
Aristarco trovò questa cosa nobilissima, credo. Quindi non è vero. Se c’era un’implicazione ideologica molto forte, tollerava tutto e avrebbe tollerato qualsiasi cosa, qualsiasi dialetto, anche il tagalog, che è lingua filippina, se a qualcuno interessa.
Monicelli: Era trattato come una lingua, il dialetto. Nella commedia italiana non trattavamo il dialetto come una lingua, altrimenti nessuno capiva niente. Si trattavano i dialetti, per gli accenti, per certe allocuzioni che erano particolarmente divertenti. Infatti è quello che dava fastidio. Certo, se uno poi avesse fatto... sei genovese?
Fava: Io sono genovese.
Monicelli: Se si parla in genovese, nessuno capisce niente. È un’altra lingua, O no?
Fava: Sì. Certamente. Diciamo che il discorso è molto lungo e non si può fare qui. Il problema è molto complesso, perché riguarda, innanzi tutto, l’Italia che, fra i Paesi neolatini, è uno fra i più ricchi di dialetti e uno dove i dialetti sono durati più a lungo. I dialetti sono stati spazzati via da Mike Bongiorno, in un certo senso. La televisione degli anni Cinquanta, in certe regioni d’Italia — non in tutte, perché in Veneto e in molte regioni meridionali si parla ancora abbastanza in dialetto — ha avuto una grande influenza e il telegiornale lo dimostra (quando vengono interrogate alcune persone e non sono sottotitolate, la gente extraregionale non capisce). Nel cinema di oggi — è una cosa che tu conosci benissimo — abbiamo assistito all’intrusione decisiva del romanesco.
Monicelli: Certo, perché si faceva tutto... Lo stesso vale per il napoletano.
Fava: Sì, ma il romanesco è diventato ormai una complicità fonetica perché vive come in una nube nel doppiaggio. Il doppiaggio, voi sapete, si fa a Roma. Sempre più i doppiatori sono gente di doppiaggio, sono figli di doppiatori, nipoti di doppiatori, come le famiglie medioevali (se il nonno è pittore, diventavano pittori). Le tonalità delle voci sono cambiate completamente. Le voci di Cigoli e di Peppino Rinaldi, le voci di Besesti...
Monicelli: Ricordati che negli ultimi venticinque anni, in realtà, il cinema italiano, per il 70% si svolge in Toscana, parla toscano e ha attori toscani, ingiustificatamente. Ed è così, non si sa perché. L’unica cosa è che, sfortunatamente per voi, il vernacolo toscano coincide con l’italiano, altrimenti sarebbero molto dialettali, tutti quanti.
Fava: Noi stiamo parlando di cose molto interessanti, stiamo parlando, come dire, della “benignità” degli ultimi vent’anni, quando gli italiani hanno scoperto che questo dialetto, che è anche (non sempre) la lingua nazionale, è veicolo di comicità.
Monicelli: Il vernacolo.
Fava: Vernacolo è più colto e anche un po’ antiquato.
Monicelli: Non so perché si chiama vernacolo.
Fava: Si chiama vernacolo perché fa pensare alle veglie di Neri: «Essi si rivolsero a me parlando in vernacolo».
Monicelli: Anche il romanesco è vernacolo.
Fava: Però l’intrusione totale del romanesco, nella vita italiana, è chiara, si sente. Io ho vissuto a Roma ventisei anni. I telegiornali sono per due terzi parlati con tonalità romanesche. Tutte le persone giovani, i cronisti sportivi, dicono “Allora, Trapattoni, che ce dice der centro- campo?”. Avete sentito queste voci?
L’uso del dialetto è stata una cosa molto complessa ed è stata appena sfiorata perché nessuno ha avuto il coraggio di dire che buona parte dei dialetti italiani erano — dico “erano” e non “sono”, perché ormai non li parla quasi nessuno — reciprocamente incomprensibili. Se un piemontese e un siciliano si fossero incontrati nel 1880, parlando esclusivamente il dialetto, non avrebbero capito una parola.
Monicelli: Ma non conoscevano l’italiano, in realtà.
Fava: Non conoscevano l’italiano. Infatti De Felice ha dimostrato che, al momento dell’Unità d’Italia, il 5%, al massimo il 10% degli italiani sapeva parlare la lingua, in gran parte toscani o persone colte. Questa era una divisione...
Monicelli: È stata la guerra che ha cominciato...
Fava: La Prima Guerra Mondiale, sicuramente. Nella Prima Guerra Mondiale i sottotenenti morivano in italiano e i soldati in dialetto, perché i sottotenenti di complemento avevano fatto il liceo, in genere. Prima che il cinema italiano riuscisse a restituire questa complessità — in questo mi pare che Monicelli possa dire una parola decisiva — secondo me, è scomparsa la presa diretta e si è cominciato a doppiare tutto, anche i film italiani. È vero o no?
Monicelli: Sì, ad un certo punto, sì.
Fava: E,non essendoci la presa diretta, venivano doppiati a Roma. Io ho conosciuto il grandissimo doppiatore Carletto Romano, che era la voce di Jerry Lewis, aveva lo stesso sonoro... che era persuaso di saper parlare con accento genovese. Vi posso assicurare che il suo accento genovese era lontano dal genovese come l’accento di Stoccolma, non c’entrava niente. Molti doppiatori sono persuasi — tutti noi raccontiamo le barzellette in pseudo-siciliano se siamo del nord, o in pseudo-milanese se siamo del sud... È successo questo fenomeno: non usando la presa diretta, è stato quasi impossibile fare parlare persone autenticamente dialetto-parlanti. Si è atteso di ridoppiarli, sono doppiati a Roma e quindi tutto l’uso del dialetto è stato falsato, mentre il dialetto stava scomparendo come lingua veicolare. Sono sicuro che, come a Genova e come a Bologna, il 60% delle persone al di sotto dei trent’anni, il dialetto non lo sa e non lo capisce. Io vedo che i genovesi giovani non capiscono le parole, quanto più si allontanano dall’italiano, o questa specie di italiano mutante che è l’italiano della RAI.
Monicelli: Adesso mi pare che ci sia una spinta a rivalutare i dialetti, a volere che i dialetti siano salvati, che siano coltivati, perché è una grande risorsa, una forza, una ricchezza della lingua italiana che nessun’altra lingua ha. Soltanto noi abbiamo questa varietà di dialetti che ci consente di avere intonazioni, modi di dire, anche vocaboli, che hanno un sapore, una qualità, un’originalità, che non esistono in altre nazioni. Se uno va in Francia i dialetti non ci sono, ci sono alcune intonazioni.
Fava: In realtà non ci sono più, sono scomparse. Ma il discorso ci porterebbe lontano. La Francia ha distrutto l’occitano, che è una lingua autonoma, parlata da dieci milioni di persone.
Monicelli: Non esiste più. Da noi invece si tende, oggi, per lo meno...
Fava: Comunque è un recupero un po’ burocratico. Faranno gli uffici comunali per il recupero del dialetto.
Monicelli: Il Devoto Oli, che tu prima rammentavi, va insistendo nel dire di rivalutare i dialetti.
Fava: Certamente. Comunque, la rivalutazione, in genere, salvo casi specifici, è faticosamente burocratica. I ragazzi se ne fregano. Onestamente quanti di voi conoscono dei bambini bolognesi che sappiano bene il dialetto? Io credo che non ci sia più nessuno. A Genova non lo conosce più nessuno. Certo, se uno si mette a studiare furiosamente il dialetto, prende un master in dialetto, come se studiasse l’aramaico. Tutto è possibile. Però il cinema, questa possibilità, non avendo la presa diretta, in parte l’ha perduta ma vi sono persone, come un tale Monicelli, per esempio, che invece hanno avuto delle idee — pensiamo a I soliti ignoti — al punto che l’altro giorno, Chiambretti ha detto: “Perché avete premiato i soliti ignoti?”. Era una battuta polemica per dire “Avete premiato un regista russo, sconosciuto”. Questa battuta è assolutamente incomprensibile fuori d’Italia, perché nessuno sa che i vecchi brani dei giornali d’epoca dicevano “Un furto ad opera dei soliti ignoti”. Il film in Francia si chiama Le pigeon vole, per esempio. Però ne I soliti ignoti, chi ha avuto l’idea di questi doppiaggi differenziati, a cominciare da Murgia, sardo, che dice “Carmela, componiti” (quando parla con la sorella)?
Monicelli: L’abbiamo voluto noi sceneggiatori. Chi abbia avuto l’idea non te lo posso dire, eravamo in tre, l’abbiamo avuta noi. Volevamo il siciliano, perché conoscevamo e conosciamo il dialetto, siciliano uno, emiliano l’altro, romano quello che doveva essere romano. Se uno conosce i dialetti e gli piacciono, va a fondo e ci si diverte, li fa. Fa parlare doppiatori che sono siciliani o genovesi, i quali sanno come dire queste battute, sanno l’inflessione e li parlano. Se uno vuole che uno sia siciliano, deve far sì che quello parli siciliano.
Fava: Sì, ma non tutti hanno il vostro scrupolo. Comunque avete avuto l’idea di fare “zagaiare”, come dicono a Roma, balbettare Gassman che, secondo me, “è una cosa scientifica”.
Monicelli: C’era stata la battaglia, perché i produttori del film non volevano Gassman, perché Gassman fino allora (a parte che in teatro era un grande interprete di Shakespeare, Ibsen e compagni) aveva fatto cinema anche negli Stati Uniti, principalmente nel ruolo del latin lover. Poi era tornato in Italia, aveva rotto il contratto con gli Stati Uniti, perché aveva capito che lì non poteva far niente, non gli interessava, e in Italia faceva il cattivo, l’antagonista. Preso per fare un film comico, in cui doveva fare l’attore comico e, non solo, un proletario.
Allora mi dicevano: “Come si fa a prendere...? A parte il suo passato di attore, che è tutt’altro, non vedi che è col naso aquilino, la fronte spaziosa da intellettuale, il labbro sottile... ?”. Quindi avremmo dovuto abbassargli la fronte, mettergli delle cose in modo che le labbra non fossero sottili, mettergli nelle narici dei pezzi di sughero — fra l’altro era anche pugilatore suonato, quindi doveva essere un po’ rimbambito, un po’ stupido.
Fava: E lui come fu? Accettò? Fu collaborativo?
Monicelli: Si divertiva come un matto. L’attore è attore. L’attore lo vedi da come gli piace trasformarsi, diventare un altro. L’attore vero è quello che si diverte proprio a essere un altro. Hai visto XX secolo?
Fava: Sì.
Monicelli: Ti ricordi John Barrymore, quando si trasforma?
Fava: XX secolo è il nome del treno che andava da New York a Los Angeles. È maieutica questa domanda. Ho fatto delle domande su Gassman perché vorrei arrivare a un’altra cosa. Io ricordo sempre che Gassman diceva: “Ti interessi ancora di cinema? Ma non hai capito che è una truffa?! Tu prendi uno, lo porti lì, gli fai dire dei numeri, come fa Federico, poi viene doppiato con grandi attori”. Invece in teatro non c’è più il suggeritore adesso. Il monologo di Shakespeare lo devi sapere, non è che possa dire: “Un momento. Stop. La luce”, ecc. Però Gassman aveva questo vezzo di non credere nel cinema.
Invece, c’era un’altra persona che al cinema credeva profondamente, che tu hai diretto in un film, Alberto Sordi. Io mi permetto di parlarne perché ho scritto un libro su Sordi, che mi considerava un suo scriba, ma non mi ha mai ammesso nella sua villa.
Monicelli: Ma non ammetteva quasi nessuno.
Fava: Lo dico con molta simpatia, perché Sordi era un personaggio, secondo me, straordinario. Aveva un’intelligenza naturale incredibile, che bisognava cogliere.
Monicelli: Era anche un professionista.
Fava: Una delle persone più romane che ho conosciuto a Roma. Lo dico sempre e sembrano battute. Lui era credente come un personaggio di Belli. Belli ha scritto cose violentissime su preti e papi, però poi, alla fine, è morto in modo ortodosso. Lui ha fatto quel monsignore nell’ascensore, che fa l’amore con la Sandrelli e poi le spiega che, non avendo essi il libero arbitrio, non hanno commesso colpa. Sordi si divertiva moltissimo, però mi disse: “Caro Fava, l’ultimo Papa è stato Pio XII. L’ultimo Papa. Senta un po’: questo Papa polacco, quando dice ‘La Matonna’, ma che fa? Bestemmia!” Questo era Sordi.
Monicelli: Lui era profondamente cattolico, però. Molto cattolico e molto osservante.
Fava: Molto osservante e, tra l’alto, era abilissimo perché, una volta che aveva litigato con un produttore, disse: “Io non lavoro la domenica. La domenica non lavoro”. “Come non lavori?”. “Non lavoro, devo andare a messa. Vuoi impedirmi di andare a messa?”. “No, per carità!”. Terrorizzato da una possibile notizia. Il produttore interviene e non impedisce a Sordi di andare a messa. Lui in queste cose era strepitoso. Era un uomo d’affari eccezionale. Come fu il tuo rapporto con Sordi?
Monicelli: Bellissimo. Ci siamo divertiti sempre, stavamo molto insieme. Eravamo amici, al di fuori del set, e quindi stavamo insieme a ridere, a scherzare, ecc. Lui, come tutti i veri, profondi cattolici, era anche molto libero, perché il cattolico, quando si pente, è a posto. Lui era così.
Fava: Anche Graham Greene lo pensava.
Monicelli: Poi c’è una cosa di lui che si diceva — e lo era anche, in realtà — che era molto avaro, molto ristretto. Avaro è un po’ troppo, era molto ristretto perché lui ha lasciato miliardi, quasi tutto alle Opere Pie, alla chiesa cattolica, a ospizi di vecchi, per i bambini, ecc.
Fava: Ha lasciato molti terreni all’Opus Dei, dicono. Per capire Sordi, bisogna leggere Belli, in cui si trovano questi tipi di romani incredibili.
Monicelli: Era un censore fra l’altro. Era il censore della curia.
Fava: Quando andai a Roma, mi misi a leggere Belli per capire un po’ questa strana città. Io non ho mai pensato di andare a Roma, ho sempre pensato che sarei andato a vivere a Parigi, un giorno o l’altro. E invece sono andato a Roma.
Tornando al rapporto con Sordi, per esempio, nel film Un borghese piccolo piccolo, siete stati d’accordo sempre?
Monicelli: Siamo stati d’accordo sempre, in quanto gli ho fatto leggere la sceneggiatura e il romanzo. Lui era un po’ restio perché il personaggio era repellente, una specie di mostro che andava in giro ad ammazzare. Lui voleva mantenere la sua simpatia con il pubblico, voleva essere il beniamino del pubblico e sapeva che, se faceva dei personaggi che erano veramente odiosi, poi perdeva la sua immagine. Però era anche un attore e gli piaceva affrontare certi rischi e quindi l’ha fatto. Eravamo d’accordo in quanto lui — per chi ha visto il film o per chi ha letto il libro — era d’accordo con il personaggio, che faceva bene a trattare l’assassino di suo figlio così.
Fava: Gli ha ammazzato il figlio!
Monicelli: Secondo lui era una reazione giusta. Io ho detto: “Tu pensala così, io la penso diversamente ma non importa”. Volevo che ci fosse questa ambiguità, e per questo ho scelto Sordi. A quei tempi arrivavano film dagli Stati Uniti quali Il giustiziere della notte, dove la polizia non funzionava, e quindi farsi giustizia da sé era un diritto. Lui era d’accordo con questa tesi. Io, invece, che volevo dire il contrario, ho fatto il film cercando un attore che fosse molto popolare e molto amato dagli italiani perché potessero ribellarsi. Se pigliavo uno che fosse odiato, antipatico, il gioco era semplice, era fatto.
Fava: Io ho letto — non so se è vero — che per documentarti ti sei iscritto brevemente alla massoneria? È una battuta o è vero?
Monicelli: No, no, quella iniziazione alla massoneria è autentica. L’hanno fatta a me. Sono andato a iscrivermi alla massoneria, era una piccola loggia che stava a San Giovanni, frequentata in genere da viaggiatori di commercio, da impiegati e da operai. Era una piccola loggia di gente molto modesta.
Fava: Quando non ti sei più presentato ci sono state rappresaglie?
Monicelli: No, rappresaglie non pensavo certo, ma addirittura nessuno si è fatto vivo. Non mi sono fatto vivo io, non si sono fatti vivi loro e la cosa è andata avanti così. Fra l’altro c’è anche nel libro, perché la massoneria aveva una certa funzione — e forse ce l’ha ancora — nell’ambito degli statali, degli impiegati, perché lì possono avere qualche vantaggio, un avanzamento. Insomma, dei piccoli vantaggi li possono avere e quindi sono tutti iscritti alla massoneria, alla fine.
Fava: Quindi si annullano a vicenda. Volevo chiederti una cosa: sicuramente in Italia avrai avuto molte rassegne a te dedicate. All’estero ti è capitato spesso?
Monicelli: Moltissime rassegne, sì. All’estero, siccome penso che capiscano meno, sono ancora più propensi a divertirsi e ad applaudire un film di quanto facciano in Italia, che capiscono bene le cose e qualche volta possono capire che sono anche un po’ imbrogliate, un po’ falsificate. Il cinema è tutta una falsificazione. Tu credi che sia realtà, invece è tutto finto. Dalle pareti alle luci, dagli attori, che sono doppiati, ai vestiti che sono messi da altre persone, ai trucchi, ai capelli. Tutto è finto nel cinema.
Fava: C’era una cosa di cui volevo parlare con Monicelli perché lui, che è una persona straordinaria, è una specie di diciottenne che porta per snobismo un trucco bianco sul volto. Esordì giovanissimo ma non perché era stato sceneggiatore, esordì perché, con un suo cugino, diresse un film, se ricordo bene ancora muto, girato nei giardini di Milano, che era, niente meno, I ragazzi della via Paal. Racconta come è andata, come avete deciso di farlo, con tuo cugino che poi era Alberto Mondadori.
Monicelli: Era a passo ridotto. Abbiamo deciso di farlo intanto perché ci piaceva riverire questo “maestro”, il cinema che era stato inventato da poco, convenzionalmente nel 1895, vent’anni prima della mia nascita. Eravamo presi da questo nuovo mezzo di espressione che poi catturò tutti. Volevamo esprimerci attraverso questo nuovo mezzo di espressione che finalmente liberava dalla pagina scritta chi non sapeva scrivere, dalla tela dipinta chi non sapeva dipingere, dal pentagramma chi non sapeva suonare. Finalmente era uscito un mezzo di espressione che ci toglieva tutti questi guai e ci permetteva di dire delle cose, in tanti. Una troupe è fatta di quaranta persone, comunque i responsabili sono almeno cinque o sei, quindi dividi le responsabilità e dai la colpa anche agli altri se il film va male, ti prendi i meriti, invece, se va bene. È una cosa abbastanza simile a una truffa. Il cinema è una truffa, è un baraccone.
Fava: Fu entusiasmante quell’esperienza? Venne girato, se ricordo bene, nei giardini pubblici di Milano, qualcosa del genere.
Monicelli: Anche ai giardini, non solo ai giardini.
Fava: Il protagonista era Eros Macchi. È vero? [Fava dice Eros, ma vuoi dire Giulio Macchi]
Monicelli: Sì, era un ragazzino.
Fava: Il soldato Nemecsek.
Monicelli: Faceva il liceo. Noi eravamo in terza liceo e prima università, più o meno. Lui aveva due o tre anni in meno di noi. C’era questo romanzo di Molnar, uno scrittore che aveva molto successo negli anni fra le due guerre.
Fava: Che è famoso anche come commediografo.
Monicelli: Aveva molto successo. Avevano successo proprio gli ungheresi, in quegli anni, non so perché. L’Ungheria aveva un grande successo, non si è mai capito per quale ragione. Uscì questo romanzo di grande successo, I ragazzi della via Paal, di cui gli americani fecero un film che vinse a Venezia o forse no, ma comunque fu un film importante. Noi, da ragazzetti, ci impegnammo a fare questo film. Lo facemmo.
Fava: In quell’epoca vivevi a Milano, o venisti da Viareggio?
Monicelli: Vivevo a Milano.
Fava: Hai vissuto a Milano diversi anni?
Monicelli: Sì, ho vissuto quattro o cinque anni. Fino al 1940 circa. Poi sono stato chiamato sotto le armi, c’era la guerra e sono andato via.
Fava: Chi vide quel film? Al Cine Guf? Chi l’ha visto?
Monicelli: No, non al Cine Guf.
Fava: A chi l’avete fatto vedere? In famiglia?
Monicelli: A quell’epoca c’era una cosa molto intelligente, anche alla mostra di Venezia, che fu inaugurata nel 1932-1933.
Fava: Nel 1932.
Monicelli: Era l’unica mostra al mondo. Fu la prima nazione che decise di dire: “Perché non facciamo una mostra, oltre alla Biennale?”.
Fava: Infatti era biennale anche quella.
Monicelli: “Facciamo una mostra anche di questa nuova attività che sono le immagini in movimento”. E fecero questa prima mostra che era molto tranquilla, molto signorile, piena di sussieghi, di conformismi durante la quale si vedevano dodici-quindici film, non di più. Era una cosa tranquilla, molto meditata. Parlo dei film a 35 mm.
Accanto a questa mostra c’era anche una mostra dei film, che oggi si chiamano “corti”. Film a passo ridotto, soprattutto per i giovani. Noi partecipammo, tra gli altri, a fare un corto, che poi, in realtà, era lungo.
Fava: Era lungo, infatti. Era un corto lungo.
Monicelli: Un corto lungo di quasi un’ora, perché ci intestardimmo a non mettere le didascalie. Volevamo che tutto fosse esplicito attraverso le immagini.
Fava: Ha avuto successo? La gente l’ha visto?
Monicelli: Non so da chi e dove sia stato visto, ma ha avuto successo, perché a Venezia vinse il primo premio, che consisteva non in un orso, in un cerbiatto, ma nel permettere al vincitore di entrare a fare l’assistente di un regista, sia pure miserabile, che accendeva le sigarette — perché io questo feci: aiutare a mettere il cappotto a un regista in un film normale, in un set normale. Così ho cominciato la mia carriera, accendendo le sigarette, mettendo i cappotti, però stavo lì. E adesso sono qua.
Fava: Ti sei tolto il cappotto. È imbarazzante dirlo in presenza di Monicelli, ma avete di fronte veramente un personaggio straordinario, eccezionale. Ho qui la sua filmografia. È impressionante la scioltezza con cui è passato di epoca in epoca, di Italia in Italia. Sono quasi commoventi. Per questo momento di commozione, volete chiedergli qualcosa? Potete chiedergli tutto, nei limiti della morale intendo, sul cinema italiano, che lui ha conosciuto.
Monicelli: Vedete che in fondo non ho bisogno di grandi domande.
Fava: Domande semplici. Questa è molto bella. Fellini, che non voleva mai partecipare alle conferenze stampa, una volta mi ha detto: “Mi hanno beccato in una conferenza. In genere ho notato che sono donne, le giornaliste terribili e una di queste ha detto: ‘Scusi, signor Fellini, lei si considera un regista realista o un regista d’urto?”. Lui continuava a raccontare: “Forse io leggo meno. È un aggettivo?... Un regista d’urto? e le ho chiesto: ‘Scusa, d’urto come? D’urto. Di apostrofo urto’. Non lo so”. Non fate questa domanda, ma fatene altre.
Voce femminile: Lei ha parlato dei suoi esordi. Io chiedo: un giovane che oggi volesse intraprendere questa carriera, questa professione, come sceneggiatore e, in un secondo tempo, come regista, attraverso quali canali può accedere, ammesso che abbia le doti, la volontà e anche la preparazione?
Monicelli: Lei mi ha fatto tante domande. “Vorrei sapere, uno che voglia fare del cinema, quali canali deve usare?” A chi deve accendere la sigaretta?
La verità è che, oggi, un giovane che voglia esprimersi, che ha qualcosa da dire, attraverso questo mezzo, passa dei grossi guai perché sono intervenuti tali e tanti cambiamenti — non nell’ambito del linguaggio, figuriamoci. Quello è rimasto uguale. La tecnologia, caso mai, è riuscita a migliorare, a facilitare il linguaggio strettamente cinematografico, come se ne parlava prima. Inquadrature, carrelli, ecc. Quello è diventato più semplice oggi. Quello che è diventato difficile è trovare chi ti commissiona un film. La mia generazione, che è quasi scomparsa, ha avuto la fortuna di trovare un momento in cui, in Italia almeno (un po’ dappertutto ma parliamo dell’Italia), l’unica maniera per passare il tempo libero era il cinema.
Era un’Italia che veniva da una guerra perduta, quindi un cumulo di macerie; veniva da una dittatura disastrosa, quindi non c’era niente, se non questa magia, questa cosa per cui si poteva andare, con poco prezzo, a vedere delle immagini, passare un pomeriggio insieme alla famigliola e chiudere la faccenda. Quindi il cinema era proprio ricercato, c’era la sete, la golosità del cinema, perché non c’era altro.
Il cinema lo facevano in pochi. Pochissimi conoscevano questa tecnica — non so come chiamarla — questo modo di esprimersi. Eravamo in pochi a conoscere la professione, il mestiere del cinema. Si lavorava ininterrottamente. Eravamo molto pochi, dico, perché io avevo cominciato a entrare nel 1934-1935, avevo lavorato fino al 1940. Poi c’era stata la guerra. Insieme a me, tutta quella generazione che aveva cominciato il cinema fra le due guerre, un cinema fascista, dopo la guerra erano tutte persone, poche, che sapevano quel mestiere. Mestiere che era richiestissimo, perché si vendevano ottocento milioni di biglietti all’anno. Oggi se ne vendono ottanta, di milioni. Pensi un po’ la fatica che farei a trovare da fare il cinema oggi. Non ho fatto invece nessuna fatica allora, come non la faceva nessuno che si occupasse di questa cosa che era fra l’arte e il baraccone, il circo equestre, ecc.
Quindi cominciamo a stabilire che oggi un giovane che voglia fare il cinema si mette nei guai. Deve avere proprio una grande pazienza e tanta passione perché è difficilissimo. Per quanto riguarda i canali, poi, deve imparare a fare le sceneggiature, che non è una cosa così grave, in realtà. Adesso ci sono delle scuole dove si impara, bene o male, a capire cos’è una sceneggiatura. Ma non è così difficile; i cambiamenti che ho detto prima sono molto marginali.
Imparare a usare una macchina da presa. Non c’è più il carrello perché non ce n’è più bisogno, però i carrelli si fanno lo stesso con un nuovo sistema, che è lo steadycam. È un sistema che facilita, ma si può fare ugualmente la stessa cosa. Tutto si può fare come si faceva negli anni Quaranta e Cinquanta, con grande sforzo, fatica, urli, strilli, falegnamerie, ecc. Si fa ugualmente. Il guaio è che non va più nessuno al cinema come ci andavano allora, perché con un po’ di benessere nelle famiglie hanno cominciato a volere il frigorifero; allora la rata da pagare per il primo frigorifero cominciava a far sì che la famiglia andasse una volta di meno al cinema. Poi è venuta la lavapiatti e la rata della lavapiatti. Poi è venuto il boom della macchinetta, la 600 Fiat, e poi è venuta la televisione. Ecco qua cosa è successo!
Se suo figlio vuole fare questo mestiere, deve avere molta pazienza, molta fiducia in se stesso, nel cinema, e la deve avere anche lei, perché poi, se no, se lo ritrova a trent’anni a casa, come succede spesso, che ancora non ha trovato la sua strada. Certo, non sono molto confortante, lo so, ma devo dire la verità.
Altra voce femminile. Stiamo parlando di retorica e di linguaggi e vorremmo affrontare, almeno oggi, il discorso sull’importanza del racconto, quindi della sceneggiatura, della trama, nel linguaggio del film. Perché altrimenti, se non si tiene conto del contenuto, abbiamo l’impressione che qualcosa manchi in questo discorso.
Monicelli: Lei parla di racconto. Qual è l’importanza del racconto? Il racconto è fondamentale, certo. La sceneggiatura, il soggetto, il racconto sono fondamentali. Sia il racconto, quindi l’idea in sé e per sé, sia poi come è sviluppato e sceneggiato, è fondamentale, per la riuscita e anche per il trattamento che si usa per trasferirlo in immagini. La narrazione è la cosa più importante che esista da quando si comincia a voler dire qualcosa attraverso delle immagini, trasformate in un racconto. È la cosa più importante.
Il trattamento consiste nel mettere in scena l’idea iniziale, le cinque paginette che sono servite per dire: questa è la trama, per cui lei si innamora di lui, lui la tradisce, lei lo ammazza — faccio per dire, anche se poi è sempre lì che si ritorna. In realtà, se viene accolto da un regista, o da uno sceneggiatore, o da un produttore, è una cosa un pochino più sviluppata e ha, per lo meno, la pretesa di avere un minimo di originalità nella scansione delle cose.
Si dice: questa è una cosa che può interessare, che può venire, che ha una sua originalità, oppure c’è dentro un divertimento, oppure c’è qualcosa che può interessare dal punto di vista anche dell’orrorifico, anche del pentimento. Insomma ci deve essere dentro un sentimento che fa da tirante, per cui si prendono dei signori, i quali a questo mestiere sono abituati, che estendono questa prima idea, subito in varie scene, poi riempiono queste scene di dialoghi. Poi vengono cercati gli attori, che possono realizzare questi passaggi.
Voce femminile: Volevo chiederle quale è stato il limite, tornando al discorso del linguaggio, dell’uso del dialetto nei film italiani, sia nei confronti della critica in generale, sia nei confronti del pubblico mondiale, o di una diffusione dei film spesso al di fuori dell’Italia e, naturalmente, quali sono stati i problemi di doppiaggio.
Monicelli: Sono due cose diverse. Il limite nell’ambito del cinema italiano, dei film italiani, è stato che il cinema cosiddetto dialettale, cioè che si serviva dei dialetti per raccontare la storia, è stato a lungo tempo “ostracizzato”. Non credo esista il verbo ma, comunque, era in ostracismo perché si voleva che il cinema parlasse un linguaggio, come del resto accadeva in teatro — in teatro si parlava soltanto toscano, per un certo momento. Guai se un attore invece di “colónna” diceva “colònna”: succedeva il finimondo.
Il cinema italiano — come prima io, scherzando un po’, dicevo, attraverso Aristarco — voleva che si parlasse un italiano pulito. Noi che facevamo, invece, il cinema comico, che era la commedia all’italiana, spazzatura, ecc., invece usavamo molto il linguaggio napoletano, romano, siciliano, veneto. Era molto usato il veneto, che era un linguaggio della comicità, veniva dalla tradizione teatrale veneta. A un certo punto è successo che, attraverso vari avvenimenti che non sto a raccontare, questa commedia all’italiana è diventata il pilastro del cinema.
Fava: Aristarco non se ne accorse mai.
Monicelli: Sì, esagerando anche in questo perché, come non era prima la fossa della spazzatura, non era nemmeno vero che fosse il pilastro del cinema. Comunque è diventato il pilastro e allora si iniziò a parlare con il proprio dialetto! Ma non dialetto stretto: nessuno, neanche i romani, o i napoletani, o i siciliani, o i veneti, parlavano il loro dialetto stretto, altrimenti nessuno avrebbe capito niente. Erano accenti, erano modi di dire. Così è diventato che, a un certo punto, si poteva parlare con degli accenti.
Io ho fatto un film con Tognazzi tra i tanti in cui lui faceva un sindacalista a Milano che parlava un sindacalese molto carico, molto divertente, fatto da Jannacci — erano dialoghi di Jannacci, molto divertenti — in milanese, un milanese comprensibile. Però era milanese, voglio dire. Quindi si è passati a questo.
Era proibito in Italia fare i film in toscano, perché il toscano era un umorismo un po’ troppo aggressivo, un po’ troppo corrodente, era sempre puntiglioso, quindi si diceva che in fondo era antipatico. Poi, Amici miei ebbe un successo tale che, da quel momento, si facevano film solo in toscano, in Toscana e con attori toscani, anche lì esagerando. Però si facevano. Salvo che il toscano, come dicevo prima, in fondo coincide con la lingua italiana, questo purtroppo per voi; io — che sono toscano — sono contento, ma per voi è così. Il dialetto bolognese non coincide con la lingua italiana. Come quello genovese.
Voce Femminile: Io avrei una curiosità. Vorrei sapere se c’è un film che rimpiange di non aver fatto, o una sceneggiatura rimasta in un cassetto che se avesse la possibilità, una macchina del tempo, tornando negli anni Sessanta, avendo a disposizione quel cast di attori straordinari, farebbe.
Monicelli: No, guardi, io non ho nessun rimpianto, per nessun film. Le spiego anche il perché. Intanto perché ho avuto la fortuna, essendo nato nel tempo giusto, come tutti quelli della mia generazione, di fare i film senza tanta fatica, anzi, dovevo rifiutarli. Ho fatto quindi i film che volevo.
Avendo anche la fortuna di fare dei film che hanno avuto, spesso, un buon successo per cui non hanno penalizzato l’imprenditore
— perché il film è un’industria — che metteva i soldi per fare il film, ho sempre avuto la possibilità di fare abbastanza quello che volevo.
Un paio di volte non ci sono riuscito, però, e una volta ho avuto la riprova che, in fondo, se non si riesce a fare un film, c’è una ragione, che non sta soltanto nel detto che il produttore è un cretino o altro: c’è una ragione profonda.
Avevo un film che mi piaceva fare e me l’hanno letto in parecchi e mi hanno detto: “Questa roba oggi! Ma figurati! Non viene a vederla nessuno. Cosa ti inventi queste stupidaggini? Non servono a niente e a nessuno”. E io lo avevo abbandonato, per sette anni.
Dopo sette anni è venuto un altro produttore che, dopo aver letto la sceneggiatura, mi ha detto che aveva intenzione di farlo, senza che l’avesse capito, però.
Io l’ho fatto e ha avuto moltissimo successo, però ho capito che ha avuto quel successo perché l’ho fatto sette anni dopo. Se lo avessi fatto quando volevo io, non avrebbe avuto nessun successo.
Fava: Ma qual è questo film, scusa?
Monicelli: Speriamo che sia femmina. Era troppo anticipato, se lo facevo sette anni prima. Invece allora era il momento giusto, anche perché devono uscire nei momenti giusti, i film. Deve essere giusto e uscire nel momento giusto.
Un altro che ho fatto e che ho insistito a fare, che mi sembrava fosse giusto, fu un fiasco totale — non è stato il primo, intendiamoci, ho fatto parecchi fiaschi.
Fava: Questo qual è?
Monicelli: La mortadella.
Fava: C’è un film di Monicelli, che io ho sempre amato molto, Temporale Rosy, che è andato male.
Monicelli: Sì. Anche quello mi piace molto. Mi dispiace sia andato male, però è un film a cui tengo molto. Non ci tengo solo io, ci tiene anche lei e mi fa piacere.
Voce femminile: in che modo il linguaggio del cinema usa la retorica?
Monicelli: Cosa intende lei per retorica? Questo mi piace, perché pensavo che si parlasse di retorica. La retorica io credevo che fosse — non ne sapevo niente, perciò ero spaventato, poi la cosa è finita invece così, alla meno peggio — l’arte di esporre il proprio pensiero, i propri concetti, in una lingua...
Fava: ... paludata.
Monicelli: Non so se paludata, o forse non paludata, o forse anche più secca, comunque era l’arte di esprimere, di esprimersi, non in maniera forse ampollosa. Voi non usate questo termine “ampolloso”, noi in Toscana lo usiamo spesso, che viene da ampolla. L’ampolla è quell’affare che usano anche i farmacisti, con tanti giri sopra, per cui un liquido, per uscire, impiega inutilmente un sacco di giravolte senza nessun bisogno. Perché la persona ampollosa, che parla ampolloso, viene da ampolla.
Quindi pensavo fra me qual è il metodo migliore per imparare e capire come usare la nostra lingua, italiana, per esprimerci al meglio. C’è chi leggeva ogni mattina il codice civile...
Fava: ... bisogna leggere anche il vocabolario.
Monicelli: Il vocabolario per imparare, ma il codice serviva per imparare a essere essenziale, stretto. Il codice civile l’ho provato anch’io, ma dopo tre mattine l’ho abbandonato, anche perché non dovevo fare lo scrittore, anzi, mi ero scelto tutto un altro genere di espressione.
Per esempio, ho da dire che nel gergo che si usa oggi in Italia, attraverso il cinema e la televisione (si accusa sempre la televisione, e va bene, ma c’è anche il cinema di mezzo), c’è una parola usata da tutti: “questo problema” e mi dà fastidio. Tutto è problema. Esiste soltanto questo, il problema.
Il problema è: il treno che parte alle ore cinque dalla stazione e quell’altro alle undici, che si incrociano. Io mi ricordo, da bambino, i problemi erano questi. Quelli erano i problemi, non erano altri. Adesso tutto è problema. “Tu sei innamorato di quello là”, “Adesso non mi va più bene”, “Ma qual è il problema?”.
Che c’entra? Qua! è il problema? È una cosa che riguarda i sentimenti, ecc. Tutti usate in maniera selvaggia “questo problema”, che nasce dal cinema americano. Usano la lingua loro e hanno ragione, ma è loro. Quindi questo “problem”, “no problem”, ecc., è venuto da “no problem”, nessun problema. Questo è il linguaggio del cinema...
E un’altra è la parola “esatto”.
Fava: Ne parlavamo prima. Vengono dal doppiaggio queste cose. Lui lo sa meglio di me, per una questione di labiali. Dicevano “Come tomorrow?” e l’altro diceva: “Exactly”. E gli italiani adesso, invece di “sì” dicono sempre “esatto” per qualsiasi cosa.
Monicelli: Qualche volta in America dicono “ciao” e allora uno si consola un po’, perché sente dire “ciao”.
Fava: Anche i francesi dicono “ciao”, ma lo scrivono “tchao” se no si pronuncerebbe “siaò”, come “siasià”. Non so più di cosa stiamo parlando.
Monicelli: Il Devoto Oli il più delle volte accetta questi nuovi termini linguistici.
Fava: Anche i linguisti in genere, alla lunga, sono costretti ad accettarli, perché sono dei notai della lingua. Quando tutti usano le espressioni sbagliate — error communis facit jus, come dicevano i giuristi — bisogna accettarle. Oltre il Devoto Oli c’è un altro incredibile dizionario, il Battaglia, che ci ha messo quarant’anni per arrivare alla lettera “z”. È un lavoro ciclopico. Pensa che, per ogni parola, ti danno la schedatura della parola nella narrativa italiana. Dal Duecento fino ai giorni nostri, agli ultimi scrittori. Questo criterio, applicato indiscriminatamente, può sembrare grottesco perché alla parola “cavallo” ci sono dieci pagine — scherzo — con scritto “Egli montò a cavallo — Vittorio Alfieri” ed è un lavoro eccezionale, che è stato fatto, credo, con schede a mano. Uno può passare la vita a leggerlo. Sono una ventina di volumi, editi dalla UTET (non che io abbia una percentuale sulla vendita, ma è fatto davvero bene). Non so cosa costino, circa 200.000 lire a volume. Io l’ho pagato in quarant’anni di lavoro ininterrotto. Mi permetto di consigliarlo perché avete veramente il baluginio della lingua. Posso usare questa parola, “il baluginio della lingua”?
Monicelli: No, il baluginio no. Il baluginio è un fatto che riguarda la luce, non riguarda la lingua, soprattutto non riguarda il suono. Riguarda la luce.
Fava: Ho capito. Allora non è niente. Arrangiatevi un po’ voi, fate quello che volete.
Voce femminile: Lei, in tutto questo lunghissimo periodo, ha mai pensato di mettersi dietro a una macchina da presa? Perché è stato sempre dall’altra parte? L’ha già scritto nel suo libro?
Fava: No. Questa tentazione, che ormai hanno tutti, di fare il regista (perché non tutti sono Monicelli) devo dire, forse per frustrazione, per assoluta mancanza di fiducia nelle mie qualità non l’ho avuta, pur identificandomi con molti, amando fraternamente certi registi, come se li avessi conosciuti da piccoli, magari registi minori.
Io amo molto i registi: a Jean-Pierre Melville ho dedicato un ciclo, cui sono fedele totalmente. Anche a Richard Brooks, di cui non si cura più nessuno, ma è autore di quello straordinario film con Humphrey Bogart, che si chiama L’ultima minaccia che è stato rilanciato, in cui c’è la veglia funebre per il giornale che muore, che è un pezzo che la Federazione della Stampa dovrebbe far vedere a tutti e c’è quell’ultima inquadratura che è servita per la pubblicità, quando Bogart dice «Questa è la stampa e non puoi farci nulla, bellezza!». È il doppiaggio italiano, perché figuratevi se dicono “Bellezza”! Però non ho mai avuto questa tentazione. In questo, devo dire, sono stato anche rispettoso degli italiani e della loro lucidità mentale. Non li ho mai messi a dura prova. Poi Monicelli ha fatto tanti film, che ha fatto anche i miei.
Voce femminile: Volevo sapere la sua opinione circa il rapporto fra la letteratura e il cinema. O meglio, non pensa che attualmente si attinga troppo dalla letteratura per fare cinema?
Monicelli: Sì. Il guaio è che la letteratura ha attinto troppo dal cinema e non fa più letteratura, ormai, da trenta o quarant’anni. Fa solo romanzi, narrazioni — a meno che non facciano saggi, ecc. — soltanto in vista del cinema. Come se fossero delle sceneggiature. Questo fa la letteratura, cioè non fa più letteratura.
La letteratura sta morendo per colpa del cinema e per colpa di questi che non sono letterati, che sono romanzieri, che saranno anche illustri, che venderanno anche molto, ma non fanno certamente letteratura. Se lei legge un libro di Calvino o di Parise, non ne può fare un film, per fortuna, O quasi mai. Voglio dire, è difficile poter trafficare dentro. Invece oggi, per lo meno quelli che oggi vendono, è tutta gente che scrive per il cinema e non fa più letteratura.
Fava: Ma di Tolstoj lo puoi fare il film ed è letteratura.
Monicelli: Sì, certo. Ma devi farlo, però, riducendo le pagine di Tolstoj a un decimo di quelle che sono, tagliando quelle pagine che sono fondamentali nel romanzo, in cui ci sono delle battute di Pierre, o del soldato nel finale. Illetterato deve spaziare: comincia un racconto, un rapporto fra due persone e poi gli viene in mente una cosa e sfugge, evade, ti fa sognare; poi ritorna lì. Moravia è così. Moravia è stato il corruttore dei letterati italiani.
Fava: Volevo solo dire una cosa. Io chiedo scusa al pubblico perché forse le mie domande — Farinelli me l’ha fatto capire più di una volta — non sono state abbastanza pregnanti per fare parlare, come avrebbe meritato, Monicelli. Ma credo che anche le mie goffe domande siano servite a fare risaltare le sue qualità. Lo dico senza nessuna piaggeria, ma con piacere.
Varni: Volevo aggiungere un’altra cosa. È evidente, ed era previsto, l’andamento un po’ diverso di questo incontro, e per l’argomento, e per le straordinarie personalità che avevamo presenti, però se voi traducete quello che è stato detto qua, riferendolo a quanto si è detto nei due giorni precedenti (in termini teorici, in termini di sollecitazioni, di quadri di riferimento, in relazione a una retorica e a un uso del linguaggio nei diversi ambiti, nell’esperienza che, in atto, ci ha presentato Monicelli, sollecitato dal suo interlocutore), abbiamo avuto moltissime delle cose che in realtà ieri e l’altro ieri i teorici che avevamo al tavolo ci hanno spiegato.
Abbiamo avuto l’ambiguità, la finzione, l’uso dell’attore come intermediario, il doppiatore, poi la sceneggiatura. Siamo partiti dalla sceneggiatura, anche se poi c’era questo gusto un po’ dissacrante, forse un vezzo piacevole del nostro ospite Monicelli, di dire “Va beh, insomma, è un mestieraccio, una cosa che ho fatto perché avevo questo estro in testa ma poi non ha nulla di artistico, non c’è nulla di particolarmente emozionante dentro. È solo un mestiere, ci sono dei soldi che girano, ecc.”. Questo ci ha detto in un certo momento. Credo che non ci creda affatto.
Monicelli: Qualche emozione la dà, ma è diversa l’emozione, commozione. È rara.
Fava: Dipende dai registi forse!
Monicelli: Sì, dipende dai registi.