Blog - Crediti


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24 giugno 2008

SESSO MATTO


RIVOLI

SESSO MATTO
di Dino Risi

Italia - Technicolor
Anno: 1973 – Sogg.: D. Risi e Ruggero Maccari – Scenegg.: R. Maccari - Foto:Alfio Contini – Mus.: Armando Trovajoli – Mont.: Alberto Gallitti – Cost. trucco: Enrico Job - Interpreti: Giancarlo Giannini, Laura Antonelli, Alberto Lionello (“Gilda”), Rullio Del Prete, Paola Borboni. Pippo Starnazza, Lino Puglisi, Carla Marcini, Lorenzo Piana, ecc. – Prod.ne: Pio Angeletti, Adriano De Micheli per Dean Film – Distr.ne: Delta (Regionali).

Regia: 7 – Sogg. e scenegg.: 4 – Fotografia: 7 – Attori: 5 – Media voto: 6.

Un altro di quei film in cui Dino Risi sciupa e getta al vento della banalità erotica di moda uno dei più bei talenti nativi di narratore di cinema che possegga il cinema italiano. Quello che, in 21 anni di carriera, gli ha permesso di firmare opere come “Viale della speranza”, “Il mattatore”, “Una vita difficile”, “Il sorpasso”, “La marcia su Roma”, “I mostri”, “L’ombrellone”, “Il gaucho”, “Straziami ma di baci saziamo”, lo stesso “Mordi e fuggi”; ma anche di abbandonarsi ad altri film, indegni della sua capacità e della sua intelligenza (basterà ricordare, fra quelli recenti, la maggior parte degli episodi di “Vedo nudo”).

Anche in questo “Sesso matto” Risi presenta un elenco di frammenti – 9 episodi in tutto ò ove la flebile ispirazione dei temi e la sceneggiatura da goliardo invecchiato di Maccari (i tempi del vecchio “Marc’Aurelio” sono finiti, ma lui sembra non accorgersi) sono posti senza estro e spesso con distratta sfacciataggine al servizio di una nuova coppia di successo, la Giannini-Antonelli. Lui, attore non eccezionale, che il cinema italiano sta rapidissimamente divorando e distruggendo a forza di caratterizzazioni calcate e di dialetti assortiti e male imitati; lei, in fondo meno ambiziosa all’apparenza, meno impegnata, meno costretta a recitare, e che qui, tutto sommato, se la cava in fondo meglio di lui, ridotta quasi sempre ad una vera “spalla”, maliziosamente sensuale, così come il recente e fortunato “cliché” di “Malizia” la rende appetibile ai produttori e ai noleggiatori.

9 episodi, s’é detto, di cui forse il solo che in qualche modo si salva è l’unico, per combinazione che non preveda la presenza dell’ Antonelli, ma di Gianni e si Alberto Lionello. Si intitola “Un amore difficile” e racconta dell’incontro di un ingenuo, ma scaltro emigrante meridionale a Milano con una fascinosa passeggiatrice notturna, che si rivela poi uomo e padre di famiglia e consanguineo strettissimo…Al di là della scabrosa scelta del tema “familiare” e omosessuale, resta la inattesa e maligna presenza “femminile” di Lionello, attore teatrale il quale solitamente si concede poco e male al cinema, e che qui si diverte a schizzare il suo personaggio di “travesti” pomposo e isterico, con una scioltezza beffarda…Per il resto degli episodi c’è poco da scegliere: “Signora sono le otto”: cameriere fedele e padrona fintamente distratta: una sciapa barzelletta senza storia; “Due cuori e una baracca”: due poveracci carichi di figli fanno l’amore parlando di mangiare per non svegliare i bambini: miserabilismo a freddo. “Non è mai troppo tardi”: avvocato con bella s’innamora solo di donne vecchissime, diventa l’amante di una senile Paola Borboni e ne violenta la madre; fra il surrealista e il disgustoso; “Viaggio di nozze”: focoso emiliano riesce a consumare l’atto matrimoniale solo su mezzi di locomozione: discretamente idiota; “Torna piccina mia”: bruttissimo impiegatuccio piemontese paga prostituta perché simuli d’essere la moglie, che l’ ha abbandonato e di cui tiene una bambola fac-simile in salotto: irrisolto e presuntuosetto; “Lavoratore italiano all’estero”: in Danimarca meridionale integratissimo e sposato in loco, vive bene e mantiene la famiglia vendendo il suo seme ad una locale “Banca della riproduzione”, e per farlo deve immaginarsi che la suora che lo accoglie lo assista nel compimento del lavoro. Discretamente sciocco e geo-politicamente improbabile (perché una suora, se suora è, in un paese dove i cattolici sono circa lo 0,60% della popolazione e dove è comunque poco probabile che le pochissime religiose si dedichino ad una attività di tecnica riproduttiva?). “La vendetta!: vedova siciliana sposa l’anziano capo-mafia uccisore del marito e lo uccide a sua volta con accelerati ludi amatori: prevedibile e noioso; “L’ospite”: moglie di industriale provoca in tutti i modi ignaro ospite a cena per eccitare il marito con il quale è d’accordo: faticato e sbrindellato.

Come si vede, c’è poco da scialare. Emana dal film un saporuccio di noia ed una vocazione al cattivo gusto, che non sono riscattati dal nitore di confezione “tecnica”, l’unico motivo, del resto, per il quale ci si induce a dargli la sufficienza nell’abituale tabellina.

Claudio G. Fava (“Corriere Mercantile”, 22/12/1973)

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO


LUX

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
di Dino Risi

italia – Colore
Anno: 1971 - Scenario: Age e Scarpelli – Foto: Sandro D’Eva – Mus.: Carlo Rustichelli – Scenogr.: Luigi Scaccianoce - Mont.: Alberto Gallitti – Arred: Enrico Sabbatini - Interpreti: Ugo Tognazzi (giudice Bonifazi), Vittorio Gassman (ing. Lorenzo Santenocito), Yvonne Furneaux (Lavinia, sua moglie), E. Galleani, M. Cimarosa, R. Baldini, F. Angrisani, P. Tordi, S. Stefanelli, ecc. – Prod.ne: Edmondo Amati per FIDA – Distr.ne: FIDA Cinematografica.

Regia: 7 – Scenario: 7 – Fotografia: 6 – Attori: 7 – Media voto: 7.

Uno dei film più vivaci fra quelli diretti negli ultimi anni da Dino Risi – regista dotato e spavaldamente esperto, ma assai spesso propenso, o costretto, a buttarsi via in film indegni del suo scorrevole talento – ed è una delle sceneggiature più furbesche stilate da Age e Scarpelli; coppia fertilissima, rotta a tutte le astuzie del mestiere e non di rado brillantemente scattante nel cogliere al volo gli umori e i risvolti del momento e dei tempi. I quali, sia sa, sono adesso favorevoli al film “giudiziario”, intinto centralmente o collateralmente, di implicazioni politiche o parapolitiche. Ed ecco dunque prontamente sul mercato questo testo astuto e furbesco, amarognolo e, al bisogno, facilmente farsesco, e pronto a concludersi con ambigua e insieme univoca intenzione moralistica e provocatoria; con una sorta di sberleffo fin troppo palese, in cui si preferisce pigliar la via della menzogna per far trionfare la giustizia.
Film di farsa moralistica, “In nome del popolo italiano” è anche, come i titoli di testa apertamente indicano, film di mattatori. Il prevedibile duello Tognazzi – Gassman (non è certo il primo: si pensi ad un altro film di Risi, “I mostri”) si conclude con una chiara vittoria dai punti di Tognazzi , che ritaglia con amara diligenza il suo personaggio di magistrato modesto,ironico, severo, aggressivo e rabbiosamente deciso a far trionfare la giustizia, per quanto gli riesce in un mondo tutto dominato da scandali immobiliari, lassismo, facili e difficili complicità. Gassman, dal canto suo nei panni di un industriale miliardario, logorroico, truffaldino, spaccone (ma fondamentalmente innocente, seppure fortissimamente indiziato per la morte di una ragazza squillo) sbandiera tutti i risvolti grotteschi che il suo personaggio tipo, quale il cinema italiano di successo ci ha fatto conoscere in questi ultimi dieci anni, porta con sé in omaggio ad una tradizione ormai cristallizzata.
Age e Scarpelli, sempre furbescamente attenti a particolari del genere (la scuola del giornale umoristico e del cinema comico di rapido smercio a cui si sono formati, qualche cosa insegna) gli hanno foggiato un linguaggio “ad hoc”, fitto di neologismi barbarici da tecnocrate, che costituisce una delle invenzioni più azzeccate, per ovvia che sia della prima parte del film. Il quale, nel complesso, rivela quell’impasto diseguale ma collaudatissimo di occhiate rabbiose sulla realtà e di pronti accomodamenti miranti alla risata immediata ed alla facile distorsione ironico-polemica propria di un certo cinema nostrano che è comunque segno di sicura professionalità fin alla punta dei capelli, in una cinematografia spesso altamente dilettantesca.
Nella sua bifida ambivalenza – il giudice compie un reato, e volutamente il film ci obbliga a simpaticizzare con lui – nella sua commistione di facili astuzie e di invenzioni, magari mai risolte, ma assai graffianti nelle intenzioni (si veda l’impudica losca, sciamannata gioia finale dei tifosi per una partita di calcio vinta dall’Italia contro l’Inghilterra) “In nome del popolo italiano” trova una sua autonomia ed una scaltra dimensione.

Claudio G. Fava (“Corriere Mercantile”, 27/12/1971)

23 giugno 2008

VEDO NUDO

OLIMPIA

VEDO NUDO
di Dino Risi

Italia/Francia - Technicolor Superpanoramico –
Anno: 1968 - Soggetto: Age e Scarpelli – Scenegg.: Age, Scarpelli e Dino Risi - Foto: Sandro D’Eva – Mus.: Armando Trovajoli– Scenogr.: Luciano Ricceri - Mont.: Alberto Gallitti – Interpreti: Nino Manfredi, Sylva Koscina, Veronique Vendell, Enrico Maria Salerno, Umberto D’Orsi, Daniela Giordano, ecc. – Prod.ne: Pio Angeletti e Adriano De Micheli per Dean Film/Jupiter General Cinematografica – Distr.ne: Titanus

Regia: 6 – Scenario: 4 – Fotografia: 7 – Attori: 7 – Media voto: 6.


Dino Risi è forse il più attendibile dei nostri medi registi di umori satirico-giocosi, ma non sempre è in forma. Come gli è accaduto qui. Dove, ha disordinatamente accatastato sette episodi, di varia lunghezza e di ineguale ispirazione, quasi tutti banali e volgari, uniti solo dalla presenza di Nino Manfredi, che di tutti e sette è il protagonista- e da una vaga idea comune che è quella di variare farsescamente o grottescamente intorno al nudo e al sesso. In realtà, basta vedere quanti sono gli autori del soggetto, per capire come sono andate pressappoco le cose. Tante idee diverse, ed un praticone per buttarle giù in forma di trattamento. Sicché non c’è il minimo rapporto di ispirazione, se di ispirazione si può parlare, fra l’una e l’altra, né di resa, né di tensione. E il film si risolve, eccezion fatta per un caso, in un disordinato “collage” di mediocri e assurde situazioni, a volte barzellette dilatate a volte novellette inani. Nonostante la bravura discreta e duttile di Manfredi, che fa del suo meglio da quel comico di talento che è, e che conosciamo ormai da tempo.

Anche Risi dirige, nei limiti del possibile con gusto, ma lavora su una materia inerte e spesso volgare, indegna di un autore di buon valore professionale come è ormai da anni,

Ed ecco, sinteticamente, i sette episodi:

“La diva” – Sylva Koscina accompagna in macchina, in ospedale laziale, un ferito grave, vittima di un incidente. Il primario, gli infermieri e i malati, per seguire e acclamare l’attrice, lo lasciano senza cure. Aneddoto banale e tirato via.

“Processo a porte chiuse” - Un contadino è accusato di aver usato violenza carnale ad una gallina. Interesserà i cultori di deviazioni sessuali, ma a parte ciò è assurdo e folle.

“La doppia vita – Ercole, impiegato postale romano che nell’ intimità si veste e si comporta femminilmente, intrattiene una relazione epistolare, firmandosi Ornella e fingendosi donna, con un impiegato torinese, Carlo Alberto. Questo capita a Roma e Ercole deve fingersi il fratello dell’ inesistente Ornella, per giustificare la sua presenza in casa. Curiosamente, nonostante l’implicita scabrosità del tema, è proprio questo l’episodio migliore, meno abborracciato degli altri, non volgare, quasi privo di compiacimento e stranamente crepuscolare. In gran parte per merito di Manfredi, che evita qualsiasi facile tono parodistico.

“Il guardone” – La parola è romanesca e sta per l’europeo “Voyeur”, il teme riguarda un tizio miopissimo, che crede di spiare una donna nuda che si spoglia nella casa di fronte e non d’accorge di vedere se stesso allo specchio. Vale quel che vale, lo spunto, cioè pochetto, ma almeno l’episodio è assai breve.

“L’ultima vergine” – Timida ragazza di provincia piglia un allocco di operaio dei telefoni per un terribile assassino di donne e gli sacrifica la sua verginità. Meno di una barzelletta.

“Il maniaco ferroviario” - Un toscano, con moglie tedesca, soffre di erotismo ferroviario, cioè ama sdraiarsi sui binari e farsi passar sopra le locomotive. Surrealismo da retrobottega.

“Vedo nudo” – Direttore di una agenzia pubblicitaria specializzata nel lancio di articoli attraverso il nudo femminile, ha uno “shock” e vede tutte le donne spogliate. Va in Svizzera, viene curato, guarisce e vede nudi tutti gli uomini. All’inizio, presumibilmente, questo era il tema dell’intero lungometraggio; e poi lo si è ridotto ad un frammento . non sarebbe stata una cattiva idea, se non avessero girato egualmente il resto del film.

c.g.f. (“Corriere Mercantile”, 21/04/1969)

STRAZIAMI MA DI BACI SAZIAMI


LE PRIME DELLO SCHERMO

Age e Scarpelli fra linguistica e fumetto

GRATTACIELO

STRAZIAMI MA DI BACI SAZIAMI
di Dino Risi

Italia/Francia - Technicolor Superpanoramico –
Anno: 1968 - Soggetto: Age e Scarpelli – Scenegg.: Age, Scarpelli e Dino Risi - Foto: Sandro D’Eva (Camera: G. Ciarlo) – Mus.: Armando Trovajoli - Mont.:Antonietta Zita – Scenogr.: Luigi Scaccianoce – Cast.: Gaia Rossetti Romanini – Interpreti: Nino Manfredi (Balestrino Marino), Pamela Tiffin (Di Giovanni Marisa), Ugo Tognazzi (Ciceri Umberto), E Gigi Ballista, Livio Lorenzon, Moira Orfei, Checco Durante, P. Tordi, F. Sormano, ecc. – Prod.ne: Edmondo Amati – Distr.ne: FIDA Cinematografica.

Regia: 6 – Scenario: 7 – Fotografia: 7 – Attori: 7 – Media voto: 7.

Nei primi trenta-quarante minuti del film – che sono i più scorrevoli e giocosamente azzeccati – si ha la netta impressione dell’esperimento tentato da Age e Scarpelli. Vecchie volpi della sceneggiatura comico-ironica nostrana, essi si debbono essere resi conto che la commedia farsesca all’italiana quale si era venuta affermando all’inizio degli anni ’60 fra il decadere del personaggio-Sordi e il sorgere del personaggio-Gassman, è ormai logora e stanca e mostra più strappi che tessuto (anche se ancora trova inaspettati sussulti di cassetta e si favor di pubblico, non certo di invenzione e di ritmo, come dimostra il clamoroso caso de “Il medico della Mutua”). Age e Scarpelli, del resto, se ne intendono, e sanno quel che fanno. Sono venuti insieme al cinema nel dopoguerra – coetanei, nati entrambi nel 1919 – dopo aver variamente razzolato nel giornalismo umorisitico quale allora andava di moda, e al cinema hanno dato copioni a non finire. “Arrivano i nostri”, “Totò a colori”, “Le signorine dello 04”, eccetera, tanto per citare qualche titolo indicativo della loro produzione più fragile; frettolosa e caduta; ma anche “Il bigamo”, “Nata di Marzo”, “I soliti ignoti”, “Il mattatore”, “Cinema d’altri tempi”, “Policarpo, ufficiale di scrittura”, “Il mafioso”, “La grande guerra”, “I compagni”, “Tutti a casa”, “La marcia su Roma”, “Il commissario, “ I mostri”, “L’armata Brancaleone”, per citarne qualcuno. Sempre ricchi di astuzia professionale, e non di rado pieni di invenzioni intelligenti e scorrevolmente ironiche. In sostanza, insieme a Sonego, a Scola e Maccari e pochi altri, sono loro che hanno fornito appigli, “gags” e personaggi a gran parte del cinema “di costume” non di rado volgare, ma a volte inaspettatamente tagliente e acuto, che è una delle caratteristiche della produzione nostrana degli ultimi quindici anni. Un cinema spesso tutto parlato, tutto verbale e battutistico, in gran parte letteralmente intraducibile in un’altra lingua, legato ad un certo gusto ironico, sospeso tra il “Marco Aurelio” e Longanesi, che nasce e si esplica all’interno di una certa generazione e di una certa Italia piccolo e medio-borghese.

In sostanza, come si diceva all’inizio, essi hanno fiutato il vento ancora una volta – come già hanno dimostrato di saper fare in passato – ed hanno schizzato qui una vicenda dolcemente parodistica, dove il sapore nasce proprio dall’uso dei personaggi fin troppo facilmente ovvi, che si presentano con cognome e nome e piangono vedendo “Il dottor Divago”.

Una contadina marchigiana ed un barbiere laziale che si innamorano, e poi si lasciano per un fatale equivoco, finchè, disperato e suicida fallito, la ritrova sposta a un sarto sordomuto: l’amore li riprende, i due tentano di ammazzare il marito inconsapevole e poi arrivano ad un lieto fine inattendibile assai, anche nella concitazione grottesca del racconto, e, a contrappunto, dal linguaggio che essi usano: un misto di derivazione fumettistica e di approssimazione burocratica, come la possono immaginare due illetterati. Finchè il gioco regge, ed è appunto la parte iniziale, il film, gioiosamente colorato come un fumetto rosa, si dipana con una cordialità ironica e giocosa del tutto inaspettati, e spesso assai gradevole. Poi la ispirazione si attenua e la commedia saporosa mostra la corda della farsa affrettata. Una analisi più accurata potrebbe meglio mettere in luce l’impasto linguistico spesso pungente di cui Age, Scarpelli e Risi (la sua opera da regista è, al contrario, estremamente generica) si sono serviti, mescolando tecnicismi gustosi (tutta la tiritera del Manfredi che elenca i vari tipi di tagli di capelli che è in grado di eseguire farebbe saltare dalla gioia un romanziere) e insonorite assurdità fumettistiche. Come tentativo non è riuscito, ma va tuttavia segnalato nel panorama complessivamente sconsolante del cinema leggero. Manfredi, a proposito, è bravo e si controlla senza strafare, quasi sempre; Pamela Tiffin dimostra quanto la disciplina americana e il doppiaggio italiano possano aiutare un’attrice, e Tognazzi, finchè la parte lo sorregge, è eccellente in un ruolo – appunto quello del sarto sordomuto e guarito “in extremis” – con movenze e trucco che ricordano a volte quelli di Harpo Marx.

Claudio G. Fava (“Corriere Mercantile”, 08/11/1968)

16 giugno 2008

IL PROFETA


LE PRIME DELLO SCHERMO

OLIMPIA

IL PROFETA - Italia – Technicolor
- Anno: 1968

Regia:
Dino Risi -
Sogg: D. Risi, Ettore Scola, Ruggero Maccari
Scenegg
.: E. Scola, R. Maccari -
Foto
: Sandro D’Eva – Mus.: Armando Trovajoli –
Scenogr. e Ambiente
: Piero Paletto -
Mont
.: Marcello Malvestiti - Interpreti: Vittorio Gassman, Ann-Margret, Oreste Lionello, Liana Orfei, Fiorenzo Fiorentini, Yvonne Sanson, Enzo Robutti, ecc. –
Produzione:
Mario Cecchi Gori per Fair Film -
Distribuzione
:Titanus –
Regia: 5 – Scenario: 5 – Foto: 7 – Attori: 7 – Media voto: 6.

La saga fra il bonario e l’irridente del personaggio-Gassman viene ormai stancamente sospinta avanti dagli addetti ai lavori (i Risi, gli Scola, i Maccari, gli Indovina, eccetera), con una rassegnazione che non riescono più, di film in film, a nascondere. Dai tempi de “Il sorpasso” ad oggi (ma allora a spremere sceneggiature ben tagliate e frizzanti c’erano volponi più agguerriti come Age e Scarpelli) il brio aggressivo, fra il volgare e il genialoide s’è via via adagiato in una allegrezza di maniera, in una prevista antologia di smorfie e ammiccamenti, che lo stesso attore sfodera con minor convinzione (sono già nonno, pare che dica nella pause, e coltivo pur sempre il teatro importante: mi fanno fare lo stracciarolo, l’amico degli animali, il profeta barbuto. In fondo, potrei essere commendatore). Profeta e barbuto, appunto, come è qui. O, più esattamente, misantropo protestatorio ma tranquillo, mutatosi da impiegato totalmente alienato e condizionato (l’ufficio, la macchina, la moglie insipida, il televisore serale) in un eremita irsuto e soddisfatto. Di colpo abbandona la moglie in macchina in un ingorgo e fugge. Poi, per cinque anni, la vita solitaria all’aria aperta e in grotta, cibo vegetariano, per tutta compagnia una capra. Un giorno la televisione lo scopre, e, dal canto suo, l’eremita è costretto a scendere a Roma per regolare le infinite pendenze con la giustizia, che il suo taglio netto con il consorzio civile ha fatto accumulare a suo carico. In città si installa in una sorta di pittoresco bidonville di barboni e non tarda a diventare un personaggio popolare: un piccolo maneggione si muta in suo impresario, lo “piazza” vantaggiosamente, davanti al profeta si aprono i salotti e i “caroselli”, perde la sua continenza serafica, immola la sua dieta vegetariana di fronte ai crostini, nei ricevimenti, e la calma dei sensi di fronte a Maggie (Ann-Margret, che già fu al fianco di Gassman ne “Il tigre”, sempre vitalissima e agitata ma gracile attrice), una “hippie” dalle idee abbastanza lucide in fatto di denaro. Alla fine, il profeta si avverte ingabbiato e integrato di nuovo, ha uno scatto d’ira ma non tarda a spegnerlo fra le braccia della sorella (Liana Orfei) del suo “manager” e soprattutto di fronte alle mille trovate di quest’ultimo: le ultime inquadrature ce lo mostrano alla testa del suo ristorante alla moda (appunto: “Dal profeta”) intento ad amministrare cibi alla moda, vestito di una lussuosa parodia da lavoro del saio rozzo, saio di un tempo.
Se si vuole come misura e struttura di un apologo, il film è un po’ “Il marziano a Roma” di Flaiano in chiave di coda alla vaccinara e di discussioni domenicali tra tifosi della Roma e della Lazio. Un discorso beffardo sulle mille occasioni di integrazione e di corrompimento della società in cui viviamo, condotto con lo spirito di facile e stenta beffa che proprio quella società coltiva sistematicamente e, in realtà, come calcolata forma di innocua evasione. Strutturalmente, il film ha un avvio abbastanza baldanzoso e, pur nei limiti risaputi nella “maniera” sopra ricordata, non privo di una certa patina di aggressiva e sguaiata allegrezza.
Poi, proprio per difetto di sceneggiatura, si adagia nel previsto e nel prevedibile, quasi che i primi a non crederci fino in fondo siano proprio gli attori, per non dir dell’interprete.

c. g. f. (“Corriere Mercantile”, 28/02/1968)

IL TIGRE


OLIMPIA

IL TIGRE - Italia – Eastmancolor (colore SPES)
- Anno: 1967
Regia: Dino Risi - Scenario: Age, Scarpelli –
Foto
: Sandro D’Eva – Scenogr.: L. Leggeri–
Mont.
: Marcello Malvestiti - Mus.: Fred Buongusto -
Interpreti
: Vittorio Gassman, Eleanor Parker, Anna-Margret,
Antonella Steni, Luigi Vannucchi, Fiorenzo Fiorentini, ecc. –
Distr.ne
:Titanus – Vietato ai minori di 14 anni

Il personaggio-Gassman imbocca qui un viottolo ben più chiaramente crepuscolare. Come l’attore propriamente detto, diventa nonno, e si aggira con minor baldanza nella commedia di costume all’italiana che ha fatto la sua fortuna cinematografica in questi ultimi anni di grandi successi.
Nella sostanza “il tigre” oscilla proprio fra gli insegnamenti e i risvolti tipici del Gassman “malandrino” (quello de “Il sorpasso”, de “I mostri”, eccetera) con tutte le sue implicazioni di gallismo benestante e di aggressiva e sorridente volgarità; e le scadenze psicologiche e ironicamente crepuscolari della commedia sentimentale, di cui il cinema ci ha offerto tante variazioni. Egli qui è un fortunato, ricco, aggressivo dirigente industriale quarantacinquenne (moglie fedele e intelligente, giovane figlia sposata e già mamma, figlio adolescente e ironicamente riottoso, successo negli affari, macchina di lusso, bella villa) che si innamora di una ragazza ventenne, sta quasi per abbandonare tutto, finisce col vedersi respinto, e torna a casa baldanzoso e umiliato assieme, dalla moglie che sa tutto e finge di non sapere perché lo ama, dal figlio che sa tutto e finge di non sapere perché lo disprezza. Age e Scarpelli hanno preparato una sceneggiatura meno fluente di altre opere, proprio perché ipotecata da due motivi contrastanti: quello ironico-farsesco, che è nelle loro corde e che il pubblico si attende da Gassman, e quello psicologico-patetito. Cosicché il testo è meno ricco di occasioni, e al tempo stesso egualmente ancorato a certe scadenze parodistiche del personaggio. Risi, dal canto suo, è un regista abile e furbo, ma non tale da stravolgere genialmente un testo che geniale non è, nemmeno se fa il verso a Walter Mitty. Cosicché il film – che sta in piedi scaltramente per forza di mestiere - non riesce mai a raggiungere un ritmo adeguato alle ambizioni e si rivela, sciapo e usuale.

Claudio G. Fava (“Corriere Mercantile”, 02/05/1967)

I NOSTRI MARITI

LE PRIME DELLO SCHERMO

AUGUSTUS

I NOSTRI MARITI - Italia –
Bianco e nero - Anno: 1966

Foto
: Roberto Gerardi, Carlo Carlini,
Maberto Gerardi, Mario Scarpelli –
Mus.:
Armando Trovajoli, Piero Piccioni –
Mont.: Adriana Benedetti, Roberto Cinquini, Renato Cinquini -
Prod.ne: Gianni Hecht Lucari per Documento Film –
Distr.ne
: Euro International – Vietato ai minori di 14 anni

Si tratta di un filmetto in tre episodi all’italiana; frutto lievemente fuori tempo e stagione di un fugace momento di favore presso il grosso pubblico delle antologie “piccanti” ormai largamente sovrastate dal successo dei film di spionaggio e dei “capelloni” casalinghi, anch’essi in via di estinzione. Ecco rapidissimamente i tre episodi:

Un matrimonio difficile Regia: Luigi Filippo D’Amico – Scenario: Rodolfo Sonego – Interpreti: Alberto Sordi, Nicoletta Machiavelli, Alessandro Tutolo, Claudio Gora, ecc.


Al ritorno dal viaggio di nozze, un impiegato romano comincia ad accorgersi che la moglie diventa sempre più sfuggente ed estranea. Dalla agitazione perde il posto, si riduce ai lavori casalinghi, mentre la moglie lavora e guadagna- irresistibilmente, la donna completa la sua trasformazione psichica e fisica e, acconciamente operata, diventa uomo. Il marito è costretto ad aspettarla quando esce dalla caserma dove “essa” compie il servizio militare. È, se possibile, il peggiore episodio dei tre, di una rozzezza solo eguagliata dalla rudimentale regia e dalla palese svogliatezza di sordi.

Il complesso di AngelottoRegia: Luigi Zampa – Scenario: Mario Monicelli, Age e Scarpelli da “L’eredità” di Guy Maupassant – Interpreti: Jean-Claude Brialy, Michele Mercier, Lando Buzzanca, Akim Tamiroff.

Uno scaltro ragioniere lombardo sposa la bella figlia del capo-usciere della Banca Cattolica ove lavora e non riesce ad avere un figlio, malgrado sia questa una condizione per ereditare da una zia bigotta e ricchissima. Suocero e moglie utilizzano abilmente un collega del ragioniere per compiere l’opera che questi non ha portato a termine; e, una volta riuscitoci, i tre lo scaricano bellamente, con la coscienza tranquilla. Una pallida ombra maupassantiana scivola a tratti sulle immagini pigre del racconto, appena appena sufficiente e – naturalmente – volgaruccio.

Nei secoli fedeleRegia: Dino Risi – Scenario: Age, Scarpelli – Interpreti: Ugo Tognazzi, Liana Orfei, Giulio Rinaldi, ecc.

Un pregiudicato latitante e gelosissimo, detto “Tantumergo”, è pescato dai carabinieri che inviano l’appuntato Umberto Codegato, gran seduttore, a far la corte alla bella moglie del fuggiasco. I vicini informano quest’ultimo che arriva fremente, e viene arrestato. Se ne va felice di non essere tradito; particolare a cui Codegato e la bella moglie popolana porranno prontamente rimedio. La novelletta ha il sapore e il respiro di una barzelletta ma, almeno, un minimo di scorrevolezza professionale, pur entro limiti complessivi modestissimi di tutto il film. Tutto qui.

c.g.f. (“Corriere Mercantile”, 01/10/1966)

15 giugno 2008

LE BAMBOLE


OLIMPIA

“Le bambole”: 4 EPISODI per Virna Lisi, Elke Sommer, Monica Vitti e Gina Lollobrigida

LE BAMBOLE - Italia –
Bianco e nero - Anno: 1964
1.) “La telefonata” - Regia: Dino Risi – Scenario: Rodolfo Sonego – Foto: Ennio Guarnirei – Scenogr.: Gianni Polidori – Mont.: Giuliana Bettola – Mus.: Armando Trovajoli – Interpreti: Virna Lisi (Luisa), Nino Manfredi (Giorgio), Alicia Grandet (Arminia) – 2.) “Il trattato di eugenetica”Regia: Luigi Comencini - Scenario: Marcello Fondato, Ruggero Maccari – Foto: Carlo Montuosi – Mus.: Trovajoli – Mont.: Roberto Cinquini – Interpreti: Elke Sommer (Ulla), Maurizio Arena, (Massimo), Piero focaccia (Valerio) - 3.) "La minestra" - Regia: Franco rossi - Scenario: Sonego, Luigi Magni - Foto: Roberto Gerardi - Scenogr.: Polidori - Mus.: Trovajoli - Mont.: Giorgio Serralonga - Interpreti: Monica Vitti, Orazio Orlando, ecc. – 4.) “Monsignor Cupido”Regia: Mauro Bolognini – Scenario: Leo Benvenuti, Piero De Bernardi – Foto: Leonida Barboni – Scenogr.: Polidori – Mus.: Trovajoli – Mont.: Cinquini – Interpreti: Gina Lollobrigida (Beatrice), Jean Sorel (Vincenzo), Monsignor Arcudi (Akim Tamiroff), ecc. – Prod. ne: Documento Film – Distr. ne: Columbia – V.M. 18 anni

Titoli di testa chilometrici per uno dei soliti film italiani ad episodi, che le catene di montaggio (!) di Cinecittà sfornano con una efficienza visibilmente lubrificata dai buoni incassi. Dicendo “uno dei soliti film ad episodi”, si è già detto tutto: belle donne svestite, palesi e pesanti allusioni sessuali, uno stento e triviale clima di avanspettacolo, un rivoltolarsi compiaciuto in un dialogo para-dialettuale, che è sempre pretesto e non mai strumento di indagine, e resta dunque un vezzo immotivato. Si sa, poi, che i films ad episodi (un tempo legati, generalmente, da una sorta di filo conduttore ideale) diventano sempre più gratuiti sicché tra uno e l’altro brano non v’è poi correlazione alcuna di contenuto, che non sia appunto quella (presumibilmente involontaria, almeno nelle intenzioni) d’una eguale debolezza verso il peggior tipo di cinema comico che sia stato di pensare e di confezionare. Se mai, come qui accade, il legame è formale, e meramente divistico.
Qui, appunto, ognuno dei quattro episodi è incentrato su un’attrice di largo richiamo divistico e costruito, più o meno su misura, per lei, con prevedibili variazioni erotico-farsesche di grana grossa. Stupisce, al più, di vedere le firme dei registi che si sono riuniti per dar vita ai quattro scadenti episodi. Da uomini come Franco Rossi (“Morte di un amico”, “Odissea nuda”, “Amici per la pelle”, “Smog”), Luigi Comencini (“Tutti a casa), Dino Risi (“Il sorpasso”), Mauro Bolognini (“Senilità”, “La viaccia”, “Il bell’Antonio”) si è ormai in diritto di attendersi qualche cosa di più che un immotivato ritorno al clima dei loro esordi (che anzi, si badi, per alcuni di essi si svolse con opere di ben maggiore impegno e di ben più onesta e decorosa fattura).
Due righe di trama, per ognuno dei quattro episodi (nei quali, ove più ove meno, si salvano solo le qualità propriamente “tecniche”; la fotografia, la scenografia, il montaggio). Ne “La telefonata” Virna Lisi, moglie verbosa e discorsiva, continua a rimandare la concessione dei suoi favori coniugali al marito impaziente, per proseguire una interminabile telefonata con la madre. Finchè il marito, stufo, si consola con una facile e formosa dirimpettaia. Un’ideuzza, ma svolta, con una pesantezza inescusabile.
Ne “Il trattatati di eugenetica” una bella ragazza nordica, scesa in Italia per avere un figlio da un maschio latino di forme perfette e di collaudata intelligenza, cede finalmente alla corta paziente e tradizionale di un brutto e onesto autista romagnolo (che è Piero Focaccia, molto più disinvolto di quanto ci si potesse aspettare).
“La minestra” è l’unico dei quattro “sketches” non esplicitamente “sessuali”: una moglie, esasperata dal marito scialbo e rozzo, e soprattutto dal rumore insopportabile che questi fa sorbendo la minestra, certa di farlo uccidere, ma si rivolge a sicari disonesti o incapaci e deve rassegnarsi a tenerselo per sempre, e sempre più sorbente e fischiante.
Finalmente, in “Monsignor Cupido”, un vago omaggio a Boccaccia è condotto attraverso la parafrasi di una novella del “Decameron”: sempre a Roma, durante in Concilio Ecumenico, l’astuta moglie di un albergatore riesce a risvegliare l’interesse del nipote gnocco di un monsignore collerico, raccontando a quest’ultimo che il giovanotto (in realtà timidissimo) l’insidia e la perseguita. Finchè quello capisce e si decide. Oltre che a mostrare la Lollobrigida spogliata, lo “sketch” serve a dimostrare come si possa utilizzare male un bravo attore come Akim Tamiroff, e quanto sia facile, nell’Italia odierna, far ridere il pubblico mostrando dei frati allocchi e dei preti di cattivo umore.

c.g.f. ("Corriere Mercantile", 19/02/1965)

IL GAUCHO

LE PRIME DELLO SCHERMO

OLIMPIA

“Il gaucho”: il personaggio Gassman si trasferisce in Argentina


IL GAUCHO
- Italia –
Bianco e nero -
Anno: 1964
Regia: Dino Risi – Sogg.: Ettore Scola, Ruggero Maccari –
Scenegg.: Risi, Scola, Maccari, Tullio Pinelli –
Foto: Alfio Contini –
Mus.: Armando Trovajoli – Scenogr.: Ugo Pericoli –
Mont.: Marcello Malvestiti –
Interpreti: Vittorio Gassman (Marco Ravicchio),
Amedeo Nazzari (Ing. Marucchelli), Silvana Pampanini (Luciana),
Nino Manfredi (Stefano) e Maria Grazia Buccella, Annie Gorassini,
Nelli Panizza, Guido Gorgari, Sanchez Callaia,
Nora Carena, Aldo Vinello, ecc. –

Distr.ne
: Titanus

Sospinto dal successo ottenuto ne “Il sorpasso” e nei film che a quello han fatto seguito (“I mostri”, “Se permette parliamo di donne”, ecc.) il personaggio Gassman ha ora attraversato l’Oceano, approdando in Argentina. Dove appunto grazie a quei film è divenuto popolarissimo e (sia merito dell’affinità in idioma o della larga colonia italiana che vi risiede) inteso, a quanto pare, anche in quel che ha di più peculiarmente nostrano (e romanesco) nella deformazione satirica e parodistica.
Ormai, sia sa (e l’abbiamo scritto su queste colonne già diverse volte) Gassman è praticamente succeduto a Sordi nel disegnare una figura stereotipata ma significativa di italiano romanizzato, clamoroso ma inattendibile protagonista del “miracolo”, incerto fra l’onestà e la cialtroneria, pronto ad afferrare senza scrupoli occasioni mirabolanti che gli sfumano quasi sempre fra le dita; da Sordi si differenzia, fra le altre cose, per una venatura borghese (il suo personaggio tipico è sempre un “dottore” o quantomeno un goliardo invecchiato) assente nel Sordi più autentico e risentito, tutto astuzia e bulleria popolaresca.
Ma il personaggio, da solo non basta. Gli ci vogliono invenzioni continue di sceneggiatura e di regia (vedi la prima parte de “Il sorpasso”), altrimenti si rischia, come spesso accade appunto ne “il gaucho”, di cadere nel manierismo e nel macchiettiamo più facile e volgare, solo preoccupato di strappare risate alla platea. Si ride spesso e volentieri, in effetti, a vedere “il gaucho”; per contagio della scatenata e scaltrita, anche se facilona, concitazione di Gassman, e per via d’una certa venatura farsesca che scorre nel racconto, grazie al mestiere di Risi. Ma è un riso breve e riflesso, appena un’ombra di quel che avrebbe potuto essere ove il film avesse scelto la strada diritta della satura autentica e del racconto articolato, e non quella dello “sketch” a breve respiro e della divagazione di grana grossa.
Lo spunto iniziale è tuttavia abbastanza seducente. Una “missione” cinematografica romana di cinque persone, parte per presentare al Festival del Cinema di Buenos Aires, che si svolge, come si sa, in mezzo ad un fanatismo di pubblico, ormai sconosciuto in Europa, un film di produzione italiana. Il capo-missione, Marco Ravicchio, è un “press-agent” pasticcione, lascia a Roma moliti debiti e un’angosciata amante a far fronte ai creditori; in Argentina spera di farsi prestare molto denaro da un amico emigrato da anni a Baires, Stefano, e là, a giudicare dalle lettere, divenuto ricco sfondato.
Gli fanno corona una diva al tramonto, ma ancora battagliera, Luciana, due “stelline” belle e stupide senza rimedio ed uno sceneggiatore sinistrorso ed effeminato. In Argentina le cose vanno diversamente da quanto Marco pensava: Stefano, ritrovato, si rivela un fallito senza speranza, povero in canna e ansioso di ritornare in patria; del resto la “troup” è risucchiata, durante il periodo della permanenza, dal vigoroso entusiasmo di un emigrato miliardario e patriottico: l’ingegnere Marucchelli, che li bombarda di inviti, di feste, di doni, di pastasciutta, di canzoni napoletane e di entusiasmo nostalgico. Persi i soldi al gioco, sfumata la possibilità di farsi imprestar denaro dall’ingegnere, Marco farà ritorno a Roma con la sua comitiva lussuosa e scalcinata, ad affrontare pignoramenti e debiti. Luciana, dal canto suo, dovrà mettere una croce sopra l’illusione nata da un fugace “flirt” con un ricco argentino. Stefano resterà con la sua gualcita miseria a rimirare l’aereo che torna nell’irraggiungibile Italia. E l’ingegnere Marucchelli, atletico e sciovinista quanto credulone e distratto (Marco gli ha fulmineamente sedotto la moglie, fra una cosa e l’altra) si dirigerà spavaldamente ad accogliere un altro illustre italiano in arrivo: Celentano…
Grazie a Manfredi i rapporti fra radicchio e Stefano sono fra le cose più garbate del film, così come certi guizzi non eccezionali ma intelligenti di sceneggiatura (ad esempio l’incontro fra Gassman e l’automobilista romano interpretato da Francesco Mulè). Simpaticissimo il Marucchelli disegnato da Nazzari e sorprendentemente azzeccata la diva al tramonto, impersonata con spirito dalla Pampanini. Ma troppe sono le cose eccessivamente facili (la conferenza-stampa, ad esempio) o abborracciate. In più, malgrado il film sia girato in Argentina ed utilizzi, in certi ruoli, attori indigeni, si direbbe che gli manchi, negli accenti come negli sfondi (nonostante si vedano grattacieli, mattatoi, “gauchos” in vespa ed altre piacevolezze) l’autentica aria del paese.
Quella, per intenderci, che invece traspariva, tanto per restare nei termini dell’inevitabile raffronto Gassman-Sordi in certe sequenze di esterni svedesi de “Il diavolo” di Polidoro.

c.g.f. ("Corriere Mercantile", 12/10/1964)

I MOSTRI


ORFEO

I MOSTRI - Italia - Bianco e nero - Anno: 1963 -
Regia: Dino Risi – Sogg.: Age, Scarpelli, Petri –
Scenegg.: Scola, Maccari – Foto: Alfio Contini –
Mont.: Maurizio Lucidi – Scenogr.: Ugo Pericoli -
Interpreti: Ugo Tognazzi, Vittorio Gassman -
Distr.ne: Incei Film


Una serie di “sketches”, articolati in altrettanti episodi (salvo errore, una ventina circa) alcuni brevissimi, altri di maggior respiro, nei quali si esplica la vena satirica, facile e superficiale, e non di rado apertamente volgare, ma spesso funzionante e azzeccata, di scenaristi come Age, Scarpelli, Scola e Maccari, che nel cinema comico e nel giornale umoristico ci sono nati e cresciuti. Sovente a lavorare sui copioni di lunghezza ordinaria, mostrano la corda, e, per dirla nel romanesco d’ordinanza del cinema farsesco italiano, “gli viene il fiatone”. Qui sono salvati proprio dalla brevità dei vari episodi. Uno via l’altro, tutti costruiti su misura per il talentaccio parodistico di Gassman e di Tognazzi. Risi, del resto, non è nuovo a imprese del genere. Si ricorderà quel suo “Il mattatore” (costruito, di nuovo, su misura per Gassman) dove la volgarità del tono e la facilità del meccanismo era spesso riscattata dall’indubbio scatto comico delle trovate.
Insomma, un film satirico “all’italiana”. E cioè grassoccio, comodamente filisteo, superficialmente scettico e qualunquista. Ma con molti episodietti azzeccati, ed altri che sono brevi barzellette (quando non aperti luoghi comuni) sceneggiate.
Ecco, ad esempio, Gassman nei panni del grande gigione che, fra un atto e l’altro di “Otello”, in camerino “brucia” l’attore guitto e jellato che gli ha chiesto una raccomandazione e trova il tempo per fare una pipa al capo della “claque” che sbaglia gli applausi: eccolo ancora sotto la toga dell’avocatone penalista svergognare il povero testimone oculare, non immacolato ma sincero, di un celebre delitto, eccolo vestito da donna, letterata querula e toscanamente autoritaria, che fa vincere un premio letterario ad un giovanotto praticamente analfabeta ma vigorosamente primordiale; eccolo nei panni dell’amante abilissimo nello “scaricare” l’amica, persuadendola che è lei a volerlo lasciare. Oppure ecco Tognazzi, ministro devoto ma abilmente dilazionatore quando si tratta di intervenire per tacitare uno scandalo edilizio; oppure soldatino impacciato ma scaltro che vuole vendere ad un giornale per tre milioni e mezzo il diario della sorella, una “squillo” assassinata. E via dicendo.
Un collage di “siparietti”, molti dei quali portano in sé le stigmate e il tono di quel grande avanspettacolo che è il cinema farsesco di casa nostra.

c.g.f. ("Corriere Mercantile", 31/10/1963)

IL MATTATORE


Il “mattatore” sullo schermo


IL MATTATORE (Italia) - Bianco e nero del 1959 –
Regia: Dino Risi – Interpreti: Vittorio Gassman,
Anna Maria Ferrero, Peppino De Filippo, Dorian Gray,
Luigi Pavese, Alberto Bonucci. (7 - ***)


Lo spazio ci manca per intrattenerci a lungo su questo film. Ricordiamo solo che, con l’omonima rubrica televisiva di Gassman, ha in comune solo la fertilità dei travestimenti in cui l’attore si esibisce.

Nelle vesti d’un guitto immiserito, che mette a frutto le sue capacità istrioniche per compiere una fruttuosa e brillante carriera di truffatore, Gassman ci ripropone qui tutte le sue doti, le più facili, forse, ma le più straordinariamente comunicative di parodista, quel suo gusto d’attore intelligente per certe deformazioni ironiche di un personaggio, che gli si può rimproverare, tutt’al più, di lasciar scadere con eccessiva facilità, verso macchiette di breve respiro. Se il film (nato da un’idea di Sergio Pugliese, da un racconto di Age e Scarpelli e, finalmente, da una sceneggiatura, di Continenza, Scola e Maccari) conservasse sempre il ritmo di alcuni momenti (si pensi alla truffa al Ministero, con Gassman claudicante e generalizzio) gli avremmo volentieri rilasciato in pagella un 8 o un 9, per mettere in luce, se non altro, le sue doti di lodevole motivazione farsesca, che lo differenziano la tritume abituale del cosiddetto cinema comico italiano. Così com’è resta gradevole ma futile e minore; il “journal d’un tricheur” di un fregoli casalingo e vagamente televisivo.

c.g.f. ("Corriere Mercantile", 10/02/1960)

14 giugno 2008

INIZIA L'OMAGGIO A DINO RISI

Jean-Louis Trintignant e Vittorio Gassman ne "Il sorpasso" (1962) di Dino Risi
A partire da oggi, Sabato 14 Giugno 2008, intendo dar vita ad un omaggio a Dino Risi, articolato in modi il più possibile differenziati tra loro. Ad esempio: mie antiche recensioni, interventi recenti, eccetera. Per quel che riguarda le recensioni, man mano che Chiara completerà la trascrizione su file dei vecchi ritagli, verrà fuori un ritratto del regista pieno, nelle mie parole, di luci ma anche di ombre. Non sarebbe onesto da parte mia tentare di nasconderlo. Il lettore si accorgerà che, spesso negli anni ’60, pur riconoscendo la vivacità e l’intelligenza di Risi, sono stato pieno di riserve sul risultato complessivo del suo cinema. Solo verso metà degli stessi anni ’60, ma soprattutto agli inizi degli anni '70, ho cominciato ad “adottare” il cinema di Risi, anche se via via si allontanava il momento della maggiore fertilità (rimando per semplificare i riferimenti alla recensione del film “Sesso matto” del 22 Dicembre 1973, laddove compilo un elenco dei film “raccomandabili e difendibili” dello stesso regista).
Nel 1992 per commemorare il trentesimo anniversario del film "Il sorpasso" di Dino Risi (1962), accettai l'invito di Oreste De Fornari a scrivere un racconto in un curioso volume, in certo modo tutto dedicato al film ed alle sue complesse implicazioni, intitolato “I filobus sono pieni di gente onesta” e che lo stesso De Fornari definisce un “non saggio, dissertazione o dissezione, ma più modestamente gioco dell’oca e pic-nic della memoria in un luogo cult del cinema italiano”. Il racconto venne accettato e pubblicato. Il titolo "Lo sguardo di Tommy Udo" allude evidentemente al sogghigno maniacale che l'esordiente Richard Widmark sfoggia ne "Il bacio della morte" di Henry Hathaway datato 1947 (film e regista che io amo molto). Non possedendo il file computerizzato del testo del racconto, ho pregato Chiara di ribatterlo qui ed ecco il risultato delle sue fatiche
:

“Verrai con me, no?” – Il tono dell’onorevole era sempre lo stesso, come una volta. Arrogante, disteso, scherzoso, stupidamente sicuro di sé. Enrico soppesò con finta calma la domanda dell’onorevole, ma sapeva che, come al solito, non sarebbe mai stato capace di negargli qualcosa. L’onorevole lo guardava aspirando il fumo di un sigaro immenso. Immenso e costoso, pensò Enrico, sicuramente deve valere un mucchio di soldi, come tutto quello che l’onorevole amava toccare da vicino; le automobili, le coperte, i pigiami, le camicie, i vestiti. E le ragazze. Enrico si chiese come non ci fossero donne ad assistere alla partenza dell’onorevole. L’onorevole in genere era circondato da donne. La moglie, le amiche, le segretarie. Durante le campagne elettorali le donne sembravano aumentare a dismisura, comparivano ad ogni comizio, ad ogni incontro, ad ogni tavola rotonda, ad ogni pranzo collettivo. Sempre diverse. Spesso non brutte, a volte inaspettatamente belle, tra i 25 e i 40 anni, avvocatesse, impiegate di Circoli culturali, animatrici di dibattiti, ma anche signore che sembravano estranee, all’apparenza, ad ogni impegno ideologico e che per qualche settimana si gettavano nella campagna elettorale come se fosse stata una puntata di una “soap” opera o la Settimana del Bianco in un grande magazzino. Enrico, ogni volta, non sapeva capacitarsi né della loro presenza, né delle assenze successive. Quando l’onorevole veniva rieletto cominciava a togliersele di torno, delicatamente prima, e sempre più brutalmente poi, finchè restavano quelle di sempre. La signora De Francovich-Multedo, moglie dell’avvocato di fiducia dell’onorevole, la signora Beltraminetti, la signorina Ponzibardi, che curava tutta la contabilità dell’onorevole ed i suoi immensi archivi, Bianca, la segretaria bellissima e altezzosa. E, naturalmente la moglie dell’onorevole. Che nessuno chiamava mai per nome e per cognome, ma proprio, e sempre, “La moglie dell’onorevole”, quasi si fosse trattato del titolo di una “pochade” o di un film di Rohmer.
“Vieni, sì o no?” – La voce dell’onorevole era ancora amichevole, e quasi scherzosa, ma Enrico aveva imparato da tempo a riconoscere i segni premonitori della collera. Una collera incipiente e ancora lontana, che si annunciava, di solito, con un sapore di ruggine pronto ad insinuarsi nella voce dell’onorevole. La quale, d’abitudine, era rotonda e aguzza insieme, con dei toni bassi che sembravano quelli di un cantante intento a schiarirsi la voce prima di entrare in scena e certe subitanee risate secche, aguzze, quasi acute, in certo modo isteriche, eppure controllatissime. Un ridere, il suo, che non era né divertito né divertente, ove si avvertiva il bisogno di ferire gli altri più che di compiacere se stesso.
“Andiamo, prendi le tue valige e spicciati, altrimenti anche questa volta arriviamo in ritardo. Ci mancavano questi maledetti scioperi dei Cobas” – L’onorevole recitò la sua battuta proprio come se fosse una battuta, con le coloriture necessarie e la necessaria impazienza, manovrando il sigaro fumante come un bastone di maresciallo, pensò Enrico. “Ogni soldato porta nella sua “24 ore” un sigaro da maresciallo”, gli venne di parafrasare una definizione attribuita a Napoleone. Tutto quel che riguardava Napoleone gli sembrava particolarmente adatto all’onorevole: la sicurezza di sé, il modo affettuoso o sprezzante di favorire i famigliari, la fortuna continua, sfacciata, la tendenza ad emanare codici scritti di comportamento che invadevano ogni campo dell’attività umana, la capacità di installarsi in ogni nuovo incarico non solo come se egli lo avesse sempre ricoperto, ma come se gli fosse spettato per diritto ereditario. “Andiamo, così ci fermiamo in Toscana a mangiare qualcosa e siamo a Roma a un’ora ragionevole”. L’onorevole si avviò verso l’automobile; le cameriere filippine si affannavano con le valige, razzolando e squittendo in tagalog, mentre aprivano il cofano. Naturalmente la macchina dell’onorevole era ancora una macchina nuova, sembrava in tutto e per tutto una Ferrari, ma non era una Ferrari. Era un’auto giapponese che, appunto, era destinata a sembrare in tutti e per tutto una Ferrari, ma non era una Ferrari. L’onorevole l’aveva pagata pochissimo, grazie ad uno di quei vorticosi giri doganali di cui era maestro. “Ci mancava anche quel cretino si ammalasse” dissi poi a Enrico con un tono subitaneamente affettuoso, cosa che capitava spesso quando parlava male di qualcun altro. Il cretino era Adolfo, l’autista che era con l’onorevole da 22 anni e che sembrava essere incorporato nelle sue automobili. Era stato ricoverato d’urgenza in ospedale la sera prima ed Enrico si aspettava puntualmente che l’onorevole rimanesse non solo indifferente ma profondamente urtato da una simile mancanza di tatto. “Avremmo potuto prendere la Mercedes e in viaggio avrei potuto esaminare i tuoi documenti”. I documenti non erano di Enrico, in realtà, ma dell’onorevole. Discorsi, due bozze per un progetto di legge di cui il Partito aveva incaricato l’onorevole e che Enrico aveva preparato affannosamente nei giorni trascorsi subito dopo le elezioni, una trentina di lettere riservate da far firmare all’onorevole e, soprattutto, un progetto di riorganizzazione delle Usl, su cui l’onorevole contava molto per presentare subito una bozza di decreto-legge. “Hai portato le Usl?” disse guardando Enrico con diffidenza, “non l’avrai mica dimenticate?”. Prese il fascicolo che Enrico aveva estratto dalla borsa e lo gettò con noncuranza nel piccolo sedile posteriore dell’auto. “Con questo mi debbono fare per forza sottosegretario, se non lo fanno adesso, vedranno…”. L’onorevole per un attimo di incattivì, così come aveva l’abitudine di fare spesso: il volto si contraeva, gli occhi gettavano lampi, la bocca sottile si incurvava, i denti inferiori sporgevano dal labbro come quelli di un roditore spaventato. Enrico lo trovava particolarmente ripugnante in quei momenti, avrebbe voluto andarsene per sempre, e invece, come ogni volta, restava immobile, con un sorriso vagamente disgustato sul volto. “Vabbè, speriamo che tu abbia lavorato come si deve”, disse l’onorevole tornando di buon umore, con una delle sue risate secche. L’incartamento rimase sul fondo della macchina, come dimenticato: Enrico ci aveva perso sei mesi di ricerche in biblioteca, di controlli al “computer”, era un progetto originale, nuovo, quasi perfetto, che cercava di tutelare i diritti individuali del malato e quelli economici della collettività, Enrico ne era molto fiero; dentro di sé, lavorando, aveva avuto la sensazione di non essere inutile e servile, ma al di là delle apparenze, impiegato in qualcosa di utile, perfino di buono, tutto quello che sognava al paese da ragazzo, quando pensava che avrebbe frequentato l’Università e poi, forse, avrebbe potuto veramente occuparsi di politica.
“allora, via, siamo pronti?”. L’onorevole si guardò intorno con l’aria soddisfatta e irritata insieme che era in lui il segno della tranquillità e della normalità, “Vediamo, le valige, i fiori per la moglie del ministro, le carte” la signora Ponzibardi, ansiosa, brutta, desiderosa di soddisfare l’onorevole con la dedizione abbandonata ed umidiccia di un barboncino, si era improvvisamente coagulata dal nulla, con un carico di pratiche tra le braccia. “Qui c’è tutto, onorevole, le dodici cartelle, i raccoglitori, le ho fatto un elenco in ordine alfabetico e uno per argomenti…”. “Va bene va bene, grazie” tagliò conto l’onorevole che era visibilmente stufo, odiava gli addii e gli arrivederci, gli piacevano le cerimonie in suo onore, ma dovevano essere rapide ed efficienti, voleva avere sempre la possibilità di manovrarle a suo piacimento, di dilatarle ma anche si stroncarle sul nascere. Era vanitoso e ambizioso ma soprattutto bizzarro, con una venatura autodistruttiva che Enrico doveva ammettere, pur dopo tante delusioni, di trovare affascinante.
Viaggiare in macchina con l’onorevole era ogni colta un’avventura, potevano essere viaggi lentissimi e sognanti, oppure furibondi di velocità, senza una pausa, senza una sosta, con l’onorevole appeso al volante che prendeva le curve a ogni 140 all’ora gridando parole senza senso, citazioni latine a cui nessuno avrebbe mai supposto potesse far ricorso (erano esatte, doveva ammettere a malincuore, Enrico), frammenti di canzoni in inglese, giochi di parole infantili, scorie di barzellette che lo avevano divertito, bestemmie e grida inarticolate. Oppure cominciava uno di quei discorsi di tattica politica che affascinavano Enrico e gli davano ogni volta la sensazione di affacciarsi da un dirupo e di indovinare paesaggi lontani e indistinti, in mezzo alla nebbia. In questo caso l’onorevole usava soltanto soprannomi, diminutivi, nomignoli, molti di sua invenzione, in una sorta di disperato gioco dell’oca verbale. “Se il Gobbo non dice di no e il Barelliere non si oppone, il Piccoletto mi garantisce dodici voti e per la Commissione Trasporti è fatta. E una volta lì, ne vedremo delle belle”. Altre volte ancora l’onorevole incominciava a farneticare di viaggi lontani e impossibili maledicendo la strada da casa sua sino a Roma, centinaia di chilometri che conosceva a memoria, aveva un insulto pronto per ogni svolta dell’autostrada, per ogni curva, ogni autogrill: “Quando lo vedo dall’aereo – diceva – questo percorso, mi viene voglia di azionare la leva delle bombe, come Gregory Peck in “Cielo di fuoco”. Raffiche, raffiche, Lipsia è distrutta, ah, ah, ah”. Il suo riso imitava quello di Richard Widmark – Tommy Udo ne “il bacio della morte”: l’onorevole era curiosamente affezionato ai film del dopoguerra americano, così come a mille altre cose curiose, ma bisognava conoscerlo molto bene per saperlo.
“Va bene, va bene, telefono da Roma per sapere le novità”. L’onorevole mosse la chiavetta e il motore emanò un rumore pieno, compatto, fuso, felino, la miglior imitazione giapponese del rumore che un rumorista del cinema immagina debba essere quello di una Hispano Souiza e di una Isotta Fraschini in un film ambientato negli anni ’20.
Intorno era pieno di volti benedicenti e ossequiosi. Le cameriere filippine, che finalmente tacevano e irroravano l’onorevole di sorrisi assolutamente orientali. La signora Ponzibardi, che scodinzolava con l’aria di attendersi un biscottino, la signora Beltraminetti con un “fax” ossequiosamente sventolante. Perfino la moglie dell’onorevole, che era arrivata all’ultimo momento, e sostava davanti al cancello aperto della villa come in una inquadratura di “Dallas”.
E un omino nero e malconcio, che si insinuò nella piccola folla, con movimenti lenti e distratti. In seguito, quando Enrico ripensò a quel momento (gli capitò spesso) rivide tutti i gesti, gli attimi, i movimenti suoi e degli altri come in una ripresa televisiva ripassata al “rallenti”. Tutto lentissimo, quasi immobile, come congelato nell’inquadratura. L’omino si sporse dal finestrino e porse un foglio dentro l’automobile. “È per lei, onorevole” disse senza astio e senza ossequio, come se riconsegnasse una posata caduta durante un pranzo.
L’onorevole guardò distrattamente il foglio e sillabò nettamente: “Avviso di garanzia”. Lo disse con chiarezza, ma anche lui con lentezza estrema, con i tipici borborigmi di una moviola controllata passo passo dal montatore.
Il volto dell’onorevole era pallido, e pieno di una inattesa grandiosità. Lesse due volte il foglio, attentamente, poi disse a Enrico, non più con la voce dei doppiatori di Sidney Greenstreet: “Per ora non partiremo, credo”.
Per la prima volta Enrico riconobbe una voce nuova, cristallina, quasi infantile, ma già adolescenziale e senile, la voce di un altro tempo, di un altro essere vivente.
Poi l’inquadratura si fermò, di colpo. Era Tommy Udo, che lo guardava".


Tratto da: "I filobus sono pieni di gente onesta - Il Sorpasso: 1962-1992”, a cura di Oreste De Fornari, Edizioni Carte Segrete, 1992.

5 giugno 2008

Alti Rai e suon di man con elle - video

Woody Konigsberg in arte Allen - video

FERMO POST n. 2 - Rispost a chi scriv e a chi legg

2°: Ringrazio Paolo Pizzato per l’appassionato commento che mi invia sui polizieschi in TV. Come credo di aver già detto nel video, confesso di non conoscere bene “Criminal Minds”, ma le prometto che cercherò di approfondire le mie conoscenze in merito e, nel caso, di riscriverle.

3°: Ringrazio Luca Paoloni per l’interesse che dimostra per ciò che riguarda la mia salute. Ho la sensazione di avere lievemente esagerato il mio stato di privazione da assenza di internet. Come vede, nel frattempo (anche per merito dell’appello scherzoso lanciato a “Hollywood Party”) le cose sono lievemente cambiate e il senso di solitudine “postale” si è attutito.
Per quello che riguarda i cortometraggi, probabilmente c’è di tutto, ma vi sono anche diverse manifestazioni piuttosto serie. Ad esempio i miei giovani amici Antonella Sica e Cristiano Palozzi, all’interno del “Genova Film Festival”, che hanno il merito di tenere in piedi da molti anni (oltre a molte altre iniziative collaterali le quali hanno comunque assunto un’importanza decisiva) sin dall’inizio hanno lanciato un concorso per cortometraggi che raduna una folla di giovani registi (sono loro due che hanno formulato una intervista al sottoscritto che poi ha dato origine al già citato “Clandestino in galleria”) e costituisce una della colonne portanti della manifestazione. Mi diceva Antonella che, rispetto ai mille vantaggi del digitale, il superotto è più costoso e implica un, magari raffinato, lavoro di montaggio e quindi complica notevolmente le cose.

4°: Ringrazio Riccardo Rossi per i suoi suggerimenti. In realtà non ho capito niente dei particolari tecnici che insinua nella mia mente (cosa vuol dire “un qualche Feed”? e che cos’è un “aggregator”? E’ affine a “terminator”?). Ma mi resta sempre la possibilità di ricorrere a Lorenzo Doretti, che sovrasta questo Blog con l’onnipossenza di Giove, e che sicuramente mi spiegherà tutto.

5°: Cara Daniela Giglio, la ringrazio della sue parole affettuose, mi dispiace di aver finito con l’incombere sulla sua vita per più di quattro decenni e le assicuro che continuerò a occuparmi di lei in modo da far sì che alla fine non capisca più nulla…Molti cordiali saluti.

6°: Ringrazio Davide Barranca per il suo contributo. Il fatto che, avendo lavorato da giovane come proiezionista, non riesca più a “godere del cinema come forma d’espressione, ma solo come spettacolo etologico”, mi ha fatto una profonda impressione. Anche perché non sapendo cos’è uno spettacolo etologico sono andato a controllare sul “Battaglia”, che forse è il più grande dizionario esistente in Italia, e ho visto che dal punto di vista dell’etimologia nasce dall’incontro tra “ethos” e “logos”, cioè fra “costume” e “discorso/trattazione” e prevede molte variazioni fra cui la “caratterologia”, ovvero in psicologia lo studio e la classificazione dei caratteri umani.
Continui così, non cessi di alimentare la mia sete di nozioni e avrà diritto a tutta la mia riconoscenza (e badi che non scherzo).

7°: Ringrazio Andrea V. che mi fa dei complimenti e dice che verrà a trovarmi spesso. In tanti anni che intrattengo, in modi vari, corrispondenze con i lettori sono pur sempre messaggi del genere che danno la voglia e la forza di continuare.
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Rimando alla prossima puntata le risposte a quelli che hanno scritto a proposito di "Il misterioso dialetto di Ermanno", "Difesa disperata dei critici" e "Variazioni su un diario".

4 giugno 2008

La freccia del Party - audio

Intervento radiofonico che mi ha dato la celebrità.

FERMO POST n. 1 - Rispost a chi scriv e a chi legg

Ringrazio tutti quelli che mi hanno scritto, soprattutto dopo avermi ascoltato a “Hollywood Party”, ed hanno rischiato la vita annotando in macchina i dati del mio Blog. Ecco qualche risposta, nell’ordine:


1°: Ringrazio Gabriele per gli incoraggiamenti. Mi colpisce molto il fatto che si ricordi di me per via de “La principessa sul pisello” e per una serata di premiazione (in realtà sono state diverse) al “Torino Film Festival”. Dato che sono particolarmente impudico, le trascrivo la testimonianza di Stefano Della Casa, allora direttore del Festival stesso, (adesso c’è Nanni Moretti) pubblicata in quelli che io chiamai “Testi a discarico”, nel mio libricino autobiografico “Clandestino in galleria”, che dà ovviamente la sua impronta al mio Blog. Il libro è edito da LE MANI e si conclude con una mia celebrazione corale per cui forse dovrei arrossire. Ecco quel che scrive Stefano, che noi tutti chiamiamo Steve.

“Essere spalla di Claudio G. Fava è una delle esperienze più formative che abbia avuto nella mia carriera. Non so come sia potuto succedere, ma sta di fatto che è avvenuto. Ero alla ricerca di una persona che fosse adatta a rappresentare lo spirito che avevo cercato di infondere al festival di Torino una volta diventato direttore. Torino è un festival supercinefilo, ultra-militante, ipersperimentale. Io volevo che non perdesse queste caratteristiche ma che al tempo stesso fosse leggibile come occasione di divertimento. Non è impossibile, perché penso che ogni cosa può essere oggetto di divertimento se vissuta con intelligenza e ironia; e penso inoltre che il mestiere di entertainer (perché questo sono gli organizzatori culturali) non sia per forza assimilabile a quello di barzellettiere, anche se non assegno alcun connotato negativo a quest’ultima definizione. Poi mi sono ricordato di un avvenimento pressoché unico che si era svolto nella hall del miglior albergo di Courmayeur quando era in corso il Noir Festival. Un signore con papillon, il cui volto era noto in quanto più volte scrutato dentro il tubo catodico (una sensazione, questa, che produce familiarità con il volto stesso ma, almeno in me, non suscita immediata simpatia e confidenza), ha intrattenuto per più di un’ora il manipolo di cinefili militanti, cahieristi e piuttosto saccenti su un argomento piuttosto insolito, i servizi segreti americani e il loro ruolo all’interno del sistema di sicurezza statunitense con ampia appendice sul significato delle sigle che li indicano e nomi memorabili tra i funzionari che li hanno diretti. Siccome da buon piemontese sono abbastanza diffidente, al termine della conversazione sono salito in stanza e ho cercato un mio amico giornalista che mi ha confermato l’esattezza di quanto gli avevo riferito, stupendosi non tanto per la domanda (insolita da uno come me) ma soprattutto per l’ora: il tempo era infatti volato, senza un attimo di noia.
A partire da questa avventura, ho provato a chiedere se era interessato e per scherzo gli ho scritto dicendo che sarei stato il suo valletto. Poi l’ho fatto veramente. E sono stati momenti altissimi, che a Torino (città dalla mondanità sopita ma dall’umorismo tagliente) sono ancora ricordati. L’assessore Perone presentato con il punto interrogativo presentato con il punto interrogativo: Pérone o Perone? Un dubbio osseo…Il cortometraggista svizzero costretto a un incalzante faccia a faccia su come si fa cinema delle valli alpine. I no global accolti con un elogio a John Milius, notoriamente di diverse posizioni politiche. E così via. Ma anche la sicurezza nel saper commentare qualsiasi tipo di prodotto cinematografico, e solo così l’intera operazione ha funzionato. Perché nasceva dalla competenza, non dall’ignoranza; dalla versatilità e non dal disprezzo. Quanto a me, da quel momento ho visto con spirito diverso le prestazioni cinematografiche di Gianni Agus e Mario Castellani…
Naturalmente, tutto questo va oltre il semplice significato di una serata, e forse proprio per questo la presenza di Claudio G. Fava è poi diventata una piacevole costante, una boa nella mia quotidianità. Ci sentiamo almeno una vola a settimana con la scusa di progetti che a volte vanno in porto (un omaggio a Age e Scarpelli) a volte no ma che ci impegnano a parlare. E devo a Claudio la convinzione sempre più profonda che qualunque cosa, qualsiasi oggetto cinematografico può avere un suo pubblico. Bisogna volerlo, e impegnarsi a trovarlo. Proprio come è capace di fare l’unico vero gentiluomo del cinema che io conosco”.

D’ora in avanti risponderò via via a tutti i commenti, cominciando da Paolo Pizzato (che ho già menzionato in video) per continuare con Luca Paoloni e poi di seguito con gli altri corrispondenti.