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11 febbraio 2008

Enigmatico Redford

Facciamo un po’ di conti. Robert Redford è nato in una famiglia modesta (il padre contabile alla Standard Oil) il 18 agosto 1936 a Santa Monica (California) A 19 anni ottiene una borsa di studio per il base ball all’Università del Colorado ma ne è poi fu espulso per ubriachezza. Avrebbe voluto fare il pittore – venne a studiare anche in Italia – ma poi trova finalmente la sua strada frequentando una scuola di recitazione a New York. Nel 1960 approda alla televisione e sino al 1964 lavora ininterrottamente, con successo, in episodi singoli o seriali. Nel 1961 ecco la sua prima apparizione cinematografica a fianco di un altro attore esordiente, Sidney Pollack, poi famoso regista, in un piccolo e curioso film bellico, “Caccia di guerra” diretto da Denis Sanders, che fece molto sperare ai suoi esordi, e che ormai è morto e dimenticato da 20 anni. Da quel momento Redford inizia un cammino divistico che nel giro di meno di un decennio ne fa una icona hollywoodiana. Forse l’ultimo esemplare pienamente convincente della star tipicamente Wasp (White Anglo-Saxon Protestant), modello biondo che fa impazzire il mondo, nel passato simbolo trionfante del cinema americano ma ormai schiacciato dall’irrompere negli Stati Uniti di svariati moduli etnici alternativi. In meno di dieci anni diventa celebre ovunque. In un periodo di poco maggiore, dal 1969 al 1985, allinea molti titoli famosi. Alcuni dei quali ho sempre gustato moltissimo. Cito soltanto: “Butch Cassidy”, “Ucciderò Willie Kid”, “Lo spavaldo”, “La pietra che scotta”, “Il candidato”,“Corvo rosso non avrai il mio scalpo”, “Come eravamo”, “La stangata”, “Il grande Gatsby”, “I tre giorni del condor”, “Tutti gli uomini del Presidente”, “Il cavaliere elettrico”, “Brubaker”, “La mia Africa”. Sostenuto da una recitazione piena, compatta, autorevole, non neurotica nello stile “Actor’s Studio” ma se mai intelligentemente legata alla consapevolezza divistica della vecchia Hollywood, Redford alterna le sue prestazioni da star ad una attività, intelligentemente promozionale, di produttore e di fortunato organizzatore culturale (si veda la Sundance Foundation, che ha ormai 26 anni, ed il conseguente Sundance Film Festival, bandiera delle produzioni indipendenti). Parallelamente, in un modo astutamente cauto, è venuto via via foggiandosi un suo personale cammino di regista, al tempo stesso sommessamente crepuscolare ma a tratti improvvisamente aguzzo e quasi doloroso. Dirige un film ogni tanto, con lunghe preparazioni e larghi intervalli. Dal 1980 ad oggi “Gente comune”(4 Oscar!), “Milagro”,“In mezzo scorre il fiume”, “Quiz Show”, “L’uomo che sussurrava ai cavalli”, “La leggenda di Bagger Vance”. Ora (siamo finalmente all’argomento) è giunto il settimo, “Leoni per agnelli” (il titolo si riferisce ad un presunto giudizio di un generale tedesco della Grande Guerra sui soldati britannici: bravi come leoni ma comandati da generali incapaci stupidi come agnelli). E un film curioso e inquieto, e in parte inquietante, forse concepito anni fa ed in ritardo sui tempi, segnato da una sceneggiatura penetrante ma indubbiamente oscura di un giovane che vien detto rampante, Matthew Michael Carnahan. Di fatto è costituito da tre blocchi narrativi che si sfiorano l’un l’altro: una giornalista “liberal” di una certa età (Meryl Streep) intervista un giovane, lucido, estremamente aggressivo senatore repubblicano (Tom Cruise) che cerca di farle accettare un improbabile piano d’assalto inteso a risolvere finalmente la guerra in Afghanistan. Un professore universitario (Robert Redford) tiene a bada un suo promettente allievo affetto da un illuminato cinismo mentre in Afghanistan due dei suoi allievi più brillanti del corso precedente (un nero e un ispanico. che hanno voluto arruolarsi nell’illusione di poter cambiare le cose al ritorno come certi sindacalisti italiani nel 1915) muoiono proprio nel corso di quella insensata guerra di “commando” propagandata come un gran novità dall’aggressivo senatore repubblicano. Spesso oscuro nelle motivazioni e nella costruzione reale dei personaggi è pur sempre un film di Redford, vale a dire di uno che sa recitare e che conosce gli attori. Tecnicamente i suoi duetti con i ragazzi – Andrew Garfield, Michael Peña e Derek Luke - e della Streep con Cruise sono spesso di altissimo livello professionale ed è impossibile non ammirarli. Così come accade con le voci della Di Meo per la Streep, di Chevalier tornato a Cruise e di Adalberto Maria Merli che ha brillantemente ereditato dal povero Cesarino Barbetti la voce (“profonda e pesante” la definisce lui stesso) di Redford.

(da "Clandestino in Galleria", "Emme - Modena Mondo", n. 47 del 9 Gennaio 2008)

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